Spatola Chronicles & Majakovskiiiiiiij
Barba nera e folta, sguardo rivolto in basso, verso un probabile Zeroglifico o verso l’attività neurologica di un poeta pubblicato da Geiger. La sigaretta consumata a metà testimonia il gonfiore di una competenza inesausta. Come a dire che la poesia totale è imbevuta di quella vita alcolica che non esiste grazie al vino ma alla Novità presa per il collo ogni giorno, ogni volta che la terra compie il periplo del sole. In una foto di Dino Majellaro, Adriano sembra Bud Spencer fuori dal set, lui invece è dentro la percezione esatta che bisogna prendere a cazzotti i poeti perché la vera poesia moderna salti fuori. Adriano da giovane è un bel ragazzo, porta le camicie con stile, allena i muscoli per il set di un film che avrà la sua maggior location al Mulino. Un bell’attacco di poesia che spesso coincide con la bellezza degli attori e delle esperienze che si compiono in quell’universo. La bellezza è difficile, fare libri belli in queste condizioni lo è altrettanto. Nella foto un po’ sbiadita (la fatica di una conquista, o il sospetto di una luce nucleare che viene dall’esterno) Adriano promette di far uscire qualcosa dal cappello a cilindro, forse ha già pubblicato su “Malebolge”. Ecco, qui sembra di stare a metà strada fra la crisi di Cuba e la crisi della poesia italiana nella seconda metà del secolo scorso.
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“Quando penso a Adriano…” le parole di Giulia Niccolai che convergono subito dopo verso l’espressione: Titano condannato. Nella foto originale posata sul mio tavolo i capelli sono corti, la sfera della testa contiene un bel sorriso, si vedono benissimo occhi arguti e perfettamente formati alla realtà di uno spazio brulicante poesia. La mano destra indica due opere senza cornice appese alla parete, una delle due forse è di Giuliano Della Casa. Dalla mano sinistra si alza un filo di fumo. La solita sigaretta. La solita poesia? No di certo, c’è di mezzo uno schermo che divide la lirica e gli oggetti, la gioventù del poeta Spatola dal gesto istrionico successivo. Decisivo il gesto che mostra qualcosa di sapiente, il surrealismo è un aereo sibilante, è la lingua di Adriano che si contorce per dare spettacolo all’aria, tenendovi dentro saldamente, come uno scroto nel pugno, la poesia moderna. Un sorriso carico di fede nella propria esperienza, sapendo che Breton contava poco per il Surrealismo francese. Il maglione si piega docile sulle sue spalle, forse rosso, forse bordeau, il b/n della foto ci porta in direzione del nero posto come pietra miliare dentro il dibattito fra parola poetica e parola politica. Ah il nero quanto ha bisogno della poesia! Intanto la sigaretta, fumata a metà, ci porta dentro la matassa intricata dove la definizione dei poeti è data dal catalogo Geiger: Maurizio Spatola, quanto la poesia ha bisogno di questo fratello benevolente. Benevolenza della carta, dolce abbrivio dato dai bicchieri pomeridiani.
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Lo sguardo di Adriano è una calamita, almeno quanto certe sue poesie. Seduto al tavolo durante un reading, data e luogo sconosciuti. Si vede come Adriano sappia giocare con la malizia e con i valori conosciuti da lui e pochi altri – quel tanto che bastava per gettarli in faccia all’ascoltatore. Un terriccio addensato che poteva ferire gli occhi e lasciare segni profondi. Mettere alla luce quello che sta sotto all’inconscio, fare un po’ di spazio nelle biblioteche. La sigaretta segue il suo corso, crea una tensione dinamica fra Alamagordo 1945 e l’andamento roccioso di quella ricerca. Capelli più radi, sempre bello in un angolo dove Patrizia Vicinelli prende il confronto come estrema risorsa della vita. Adriano pensa, e di sicuro sa che il proprio viso è ben figurato, egli sa occuparsene in ogni preciso istante del suo comporre versi. Un senso perfetto, incarnato. Un programma che faceva scricchiolare tra loro le parole.
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Adriano tiene banco. Questo lo sanno tutti. Le bretelle sopra una maglietta, forse azzurra, vicino al lavello, barba e capelli ispidi quasi riccioluti, sguardo penetrante e poca voglia di ridere. La foto di Giovanni Giovanetti ci maltratta e ce lo meritiamo. Eccome. Adriano sembra sul punto di mandarci a cagare, disarma le poco sostenibili risorse del nostro pensiero poetico. Lui sa come si distrugge un obiettivo per rendere visibile la vita vera, fatta di figli e traduzioni, di romanzi e processi per pornografia. Non a caso la pancia a un certo punto lievita. Nel Far West emiliano (vedi alle voci “Bud Spencer” e “Tex Willer”) bisogna pur vivere! La sigaretta, fra le dita della mano sinistra appoggiata al fianco, sembra spenta. Buon motivo per aspettarsi uno scatto improvviso del poeta e sentirsi sbattuti qua e là, fuori dal seminato, ospiti e fotografo.
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Adriano verso Franco Beltrametti. Camicia a quadretti, barba quasi bianca, sembra offrire con molta intensità il proprio manifesto. Della sua parte di poesia, quasi del tutto tracciata, della sua parte di poeti finiti nelle edizioni “Tam Tam” per ragioni non sentimentali, e chissà cos’altro. Rimbaud tanto distante quanto talvolta rimesso in corso per un sospetto di magia. Perché questa la si rintraccia nelle poesie più recenti, La definizione del prezzo, divisa in semi e spore rincantucciati nelle numerose dentellature dei versi. Vere fessure, intendo dire, messe apposta lì dal funambolo come gioco, tanto per sconcertare chi vi legge quasi soltanto momenti poco ameni o addirittura sgradevoli. Nel vicolo Franco ha l’atteggiamento di colui che si sente investito di una responsabilità, di fronte ad Adriano sa che non esiste niente di meglio che un caso fortunato per avere un bel momento (“Non c’è Pernod? Oh, che Pastis!”) o una bella poesia (Moskovskaya (vodka)).
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Adriano si versa da bere, seduto al tavolo nella cucina di Mulino di Bazzano. Non è un teatrino, ma una sorta di iper-realtà sotto alla quale si esercitano i poeti pubblicati da “Tam Tam” e nei libretti Geiger (ancora Maurizio Spatola!). In quello stato energetico, esistono quasi unicamente i versi di Adriano. E da lì, come da un libro di Wittgenstein, scendono giù i cavalli selvaggi che determinano la poesia degli anni’70. Non si tratta di un racconto scritto da Philip K. Dick, un Blade Runner applicato alla storia poetica (Cacciatore di mosche), ma del resoconto di una carriera che si è sviluppata secondo canoni fisici del tutto straordinari. Un respiro narrativo venuto dal piano superiore. E che si è tradotto, fra l’altro, nel famoso Aviation/aviateur. Il gesto che fa scendere il liquore nel bicchiere fa esistere uno spazio casalingo, dove stanno le carte dei poeti, le bozze e i francobolli (l’era dell’e-mail doveva ancora arrivare), l’Olivetti 32 e tutto l’armamentario utile a far esistere l’avventura editoriale, compreso il frigorifero. La concentrazione di Adriano è in questo caso iperbolica, quasi si inchina sul tavolo, come se mettesse l’accento o le virgolette a quel suo stare lì, dentro casa. Giulia, seduta allo stesso tavolo, sembra assorta.
Adriano a New York, si concludevano gli anni ’70, i melmosi e asimmetrici anni in cui il linguaggio poetico verrà ricordato come una lama di coltello che fende. Insieme ad altri poeti, unico a indossare una camicia a maniche corte, segno di un calore che ha sempre aperto strofe e mai chiuso davvero un libro. Manifesto portante, da considerare come impossibilità al silenzio. Lontano dalla morte ogni volta che sagacemente mette una parola sulla pagina, inventariando così il mondo, e lasciando da sola la realtà una volta per tutte. La cronaca resta nelle teste di questi personaggi, New York è in secondo piano, sfocata, ogni luogo per Adriano è uguale al precedente e al successivo. La serialità dei versi contiene tutti i luoghi possibili, “Tam Tam” ne è la funzione primaria, ne segue e descrive per 17 anni il corso.
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Rieti 1969, di tre anni prima L’ebreo negro, Adriano è bellissimo nella foto di Giulia Niccolai, capelli corti e bicchiere nella sinistra, attorniato da un folto pubblico, forse legge, forse sa di avere fra le mani il presente della poesia, e non si tratta dell’ingerenza ingombrante dei Novissimi. Nelle vicinanze di quell’anno ci si può perdere cercandone la cronaca, ma poi è più elegante afferrare la bellezza di un volto che si è spiegato in infiniti festival di poesia, buttando in faccia agli spettatori il fiume orale, la spericolatezza di un tram in curva, sferragliante e deciso. Stessa divertita energia, appena un po’ svagata per la presenza del Vermentino, di quando mi disse parecchi anni dopo, in una trattoria di S. Apollinare in Liguria: “Ma tu hai litigato solo perché non hanno pubblicato le poesie di A.S.? Come se costui fosse un bravo poeta… sciocco che sei…” Naturalmente A.S. non era Adriano. Qualcosa da dire, un “parlare” inesausto sempre sul confine della catastrofe che quasi tutti sentivano in quell’epoca di crisi.
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1971. Majakovskiiiiiiij. La sintesi della composizione del testo. Certo, il masso che Adriano spingeva, da Titano quale era (così lo ricorda Giulia Niccolai), è lì, ben staccato da tutto e da tutti, senza la minima traccia di erosione.
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Parigi 1979, occhi chiusi nello sforzo di sonorizzare il teatro, un appello al più grande spettacolo del mondo, lungo le strade e anche senza inchiostro come scrive Bisinger. La poesia parla e svuota tutti i propri suoni, avendo da dire che Adriano la progetta e la rende autorevole (autoritaria?). L’anno prima un’ampia scelta di testi dal 1961 al 1977, con il titolo La composizione del testo. C’è un segreto che si tenta di scardinare, niente a che fare con la bellezza, c’è una grande rugosità che va mostrata, forse appesa al muro come i Cretti di Burri. Adriano, che so, avrebbe potuto invitarci tutti a Gibellina per una improvvisazione sul Grande Cretto sopra le macerie del paese distrutto dal terremoto. In lungo e in largo, anche aggredendo la realtà, usando la tecnica e gli attrezzi del proprio tempo, eccolo al lavoro, inesauribile. E poi, per quanto è stato fatto, gli anni sembrano molto più folti.
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E arriva il poema Stalin, fra lacrime e intrighi di chi ascolta la poesia e poi se ne va a bere un bicchiere. Da questa parte, Adriano scrive come se un nevischio scendesse dalle zone radioattive, e perciò pensa che occorra rifugiarsi nelle cantine. Dove macchine tipografiche stampano foglietti e brevi libri senza tempo. Lo scopo è ritrovare la poesia in azione fra una crudeltà e l’altra, dopo l’era delle magie giunge l’era del manifesto rivoluzionario. Fare la spesa, aprire la lavatrice, scrivere una recensione, tutto questo per arginare quello che verrà dopo. Spudoratezza e lezioni di surrealismo in una provincia italiana che cerca e trova altre province sparse per il mondo. Storie che soltanto da quelle parti, forse, potevano compiersi. La cronaca ha il gusto acido della poesia: “come gridano i cani sdraiati sulla luna…”
(2008-2018, a Maurizio Spatola)
Testi
Majakovskiiiiiiij
- per Jiulien
(exordium)
questa estrema dissoluzione sistematicamente portata
ai limiti della violenza e fino alle terre del fuoco
fino all’eccitazione stagnante nel rendimento del ritmo
alle catastrofi degli organismi in circostanze casuali
nelle città fagocitate nei corpi incrostati di sale
sotto la luna ecchimotica che rotola sopra il biliardo
(narratio)
con un po’ di fervore ma ancora variabile per confermare
il tutto per confermare lei che ama con insistenza
che vegeta ramificata nel vuoto pneumatico del suo racconto
la prognosi tattile l’eccezionale stupefacente chiarezza
la domestica peste la febbre in espansione nell’universo
con un po’ di fervore ma sempre variabile per confermare
il tutto per confermare lei che ama con insistenza
(partitio)
ogni singola parola è adesso una tempesta di gesti
un riflesso delle sue ribellioni o la piacevole ombra
dell’albero che messo in moto si libera dai coleotteri
il palmipede ossuto lo stimolo ligneo che s’agita negli strumenti
per l’apertura per l’enfasi in certi momenti della giornata
alle spalle degli animali braccati nello spettacolo esploso
degli animali braccati che scivolano nella materia
(probatio)
un riflesso delle sue ribellioni la piacevole ombra
che vegeta ramificata nel vuoto pneumatico del suo racconto
l’eccitazione stagnante nel rendimento del ritmo
che vegeta ramificato nel vuoto pneumatico del suo racconto
con un po’ di fervore ma sempre variabile per confermare
al palmipede ossuto lo stimolo ligneo che l’agita negli strumenti
(repetitio)
mancano ancora nella composizione le digitali memorie
i presupposti marini i parziali giardini i liquidi impulsi
le catastrofi degli organismi in sospensione nell’universo
i cavalli castrati che perdono tempo nelle profonde caverne
sotto la luna ecchimotica che rotola sopra il biliardo
alle spalle degli animali braccati nello spettacolo esploso
degli animali braccati che scivolano cauti nella materia
(peroratio)
ogni singola parola è stata una tempesta di gesti
l’albero che messo in moto si è strappato di dosso le foglie
la foglia che messa in moto si è strappata di dosso le dita
il dito che messo in moto si è strappato di dosso i cavalli
il cavallo che messo in moto si è strappato di dosso le unghie
ah la prognosi tattile ah la domestica peste
con un po’ di fervore ma il tutto invariabile per confermare
il tutto per confermare lei che ama con insistenza
(Adriano Spatola, Majakovskiiiiiiij, Geiger, Torino 1971)
Ho appena finito di leggere un testo di forte e commovente partecipazione emotiva e di alta letteratura; trovo decisivo il fatto che l’amicizia e l’ammirazione per un uomo e per un poeta suscitino una scrittura così energica e originale; sono questi i momenti in cui una poesia continua a vivere, trapassando dai libri e dalle riviste in cui ancora possiamo leggerla nella scrittura di un altro essere umano, nella sua voce e nel suo (nostro) presente.
Vero. Trovo meraviglioso questo modo di scrivere che tiene conto di scrittura e biografia.
grazie ai commentatori e grazie a Francesco per l’ospitalità.
fantastico; l’ho trovato integralmente qui:
Fai clic per accedere a G00052.pdf