Mi chiamo Costanza

Antonio Scavone

Dimenticavo, mi chiamo Costanza

Gli ho fatto due figli, la coppia, una femmina e un maschio, ormai grandicelli, poi lui s’è preso la scuffia per la segretaria dell’amministrazione, una sciacquetta senz’arte né parte, mi ha lasciata, se n’è andato, mi passa quattrocento euro al mese, è tornato dalla madre, vecchia signora delle camelie ricca sfondata, lo vedo solo alla fine del mese quando mi dà i soldi per le necessità dei ragazzi.
Sono cresciuta con le canzoni di Ramazzotti, Zucchero e Jovanotti, poi quando mi sono accorta che erano aria fritta, non ho più sentito né radio né tivvù, anche perché sono stanca, non ho tempo e devo contenere le spese. Ho studiato ma senza raggiungere un diploma, ricamavo ma nessuno mi chiamava, ho fatto la ragazza del call-center ma non ero adatta, alla fine faccio la cassiera in un mini-market qui a Procida, e quando serve faccio anche la magazziniera, aiuto a scaricare, porto i conti e mi dànno trecento euro al mese in nero perché non possono, come si dice, mettermi a posto con i contributi. Lo so: è il ritratto della miseria ma non me lo sono dipinto io, me lo sono ritrovato, questo quadro asfittico e insensato.
Una volta lessi un libro, anzi mi bastò il titolo: “Infelicità senza desideri” di uno scrittore austriaco mi pare. “Ecco – mi dissi – questa è la storia della mia vita concentrata in tre parole” e più non lessi oltre, come dice Dante. E dire che mi piaceva studiare, sarei andata all’università ma la morte di mio padre costrinse mia madre a fare delle economie, a chiederci dei sacrifici e allora decisi che avrei sacrificato la mia istruzione perché capii che sarebbe stato molto difficile per me trovare un lavoro o una sistemazione come sognavo di trovarla da ragazza. Cosa sognavo da ragazza? Di avere una vita mia, poi ti accorgi che la vita te la fanno gli altri.
Vivo in due stanze con servizi al secondo piano di una casarella dove vivono pure i padroni del mini-market, zì Giovanni e zì Lucia, ma non sono i miei zii, li chiamano tutti così, com’è abitudine approcciare i vecchi nelle piccole comunità o nelle località marinare. I miei ragazzi – tredici e undici anni – non mi dànno pensieri: hanno già capito di doversela sbrigare da soli, vanno bene a scuola, fanno qualche lavoretto a zì Lucia, mi aiutano come possono, e ci riescono, quando si tratta di imbandire la tavola, mettere la pentola sul fuoco, preparare il sugo, lessare la pasta, grattugiare il formaggio. Di che mi lamento, io che me la passo meglio di tante altre? Non mi lamento di niente, sono diventata saggia e disincantata, faccio tutto quello che devo fare, mi occupo poco di me – e a quarantadue anni è avvilente – ma riesco a tirare avanti: non mi pongo obiettivi e traguardi, per i ragazzi sì “But not for me”, come dice una bella canzone americana che ascoltai una volta da certi soldati della Nato che passarono un’estate a Procida. Devo tirare avanti, questo è lo scopo della mia vita adesso: tirare avanti e tirare avanti, come la ruota del mulino che gira all’infinito. La ruota, almeno, macina la farina mentre io sto macinando soltanto il tempo che passa sempre uguale. Ma una ragione ci deve pur essere se il tempo passa sempre uguale: almeno per me è un piccolo sollievo se le cose si ripetono sempre allo stesso modo, vuol dire che non sono intervenuti fattori destabilizzanti, come si dice, che tutto ha una sua naturale giustificazione. Ecco, se parlo di giustificazione, inevitabilmente mi lascio suggestionare dall’acquiescenza e dal fatalismo, ma è solo un momento: ho scoperto infatti di poter contare su certe risorse inimmaginabili fino a qualche anno fa e mi sono ritrovata un po’ più sicura, un po’ più consapevole dei miei mezzi. “I miei mezzi” non è un modo di dire, è un dato di fatto e ne sono cautamente orgogliosa.
In pratica, ho cominciato a mettere da parte tutti i soldi che potevo risparmiare ed ho accumulato una cospicua somma. Ho azzerato tutte le spese che non potevo sopportare: se compro degli abiti li compro per i ragazzi, così le scarpe, i libri, i quaderni; per me solo sigarette, come a dire che la mia vita la faccio andare in fumo. Ho imparato però che la vita non t’insegna nulla se non quando cominci a vederla da lontano, staccata da te, come se fosse la vita di un’altra persona, come se tu stessa fossi un’altra persona, perché è sempre più facile giudicare i comportamenti degli altri e magari suggerire dei consigli: giudicare i tuoi comportamenti è una libertà o una virtù che puoi permetterti solo quando hai finito il conto dei tuoi errori.
Me ne vengo su in camera, nella chiusura del pranzo, prendo il carillon che sta in cima all’armadio e tiro fuori dal sottofondo la busta che contiene la mia ricchezza.
Sono buoni postali e due mazzette di banconote: rileggo le intestazioni e l’importo dei buoni postali e conto e riconto le banconote delle mazzette. Se fosse per me, li spenderei tutti quei soldi ma appartengono a un’altra donna, una donna assennata che ha fatto tesoro dei suoi sacrifici e quindi mi limito a conteggiarli, apprezzando il denaro accumulato e la solerzia di chi lo ha accumulato.
Chi non ha molti soldi, o chi deve faticare tanto per averne pochi, questo fa quando riesce a conservarli: li conta e li riconta, li guarda, li scopre, li studia. Sarà una magra soddisfazione, è sicuramente una magra soddisfazione perché basta una spesa extra o un accidente di salute a farli svanire, però è una consolazione che ti risolleva, ti fa credere di essere utile, di essere ancora in corsa. Dove finisca poi questa corsa non lo so, come non lo sa e non vuole saperlo nessuno: si resta docilmente prigionieri di se stessi mentre i pensieri si fermano quando si osservano le ricchezze che non hai speso, o che non hai ancora speso.
Difatti non penso, non faccio progetti, non mi lascio andare a facili illusioni, non mi lascio prendere da estrosi desideri. Niente mi influenza e mi condiziona: sto dove devo stare e faccio le cose che devo fare.
Bussano alla porta e, senza aspettare che glielo permetta, entrano: è zì Giovanni. Faccio in tempo a riporre la busta nel sottofondo del carillon ma temo che se ne sarà accorto.
– Be’? E te ne stai qui con tutto quello che c’è da lavorare?!
– Me ne sto qui perché c’è la pausa-pranzo.
– E io pure quella ti pago.
– Sì, come no.
– E i tuoi figli dove stanno?
– Stanno facendo i compiti.
– E tu che stavi facendo? Stavi contando i soldi, scommetto. Ma fammeli vedere: quanti ne hai?
Zì Giovanni non vuole vedere i soldi, vuole vedere come sono fatta tra le gambe, vuole prendere quella che considera una preda facile, anzi legittima perché mi paga anche l’intervallo del pranzo e quindi ritiene di aver diritto a un godimento supplementare, un ulteriore beneficio.
Come sempre, per quanto attenta e diffidente, mi lascio sviare da me stessa, da quella me stessa instabile e velleitaria che dovrei mettere da parte, ma non sempre è possibile affidarsi alla lucidità della coscienza e alla presenza di spirito delle tue emozioni. Non posso salvare il carillon e salvare anche la mia incolumità, devo scegliere: o l’uno o l’altra. Sono momenti nei quali devi riflettere velocemente, sono porzioni di pensiero che ti chiedono di agire e non di pensare. Infilo il carillon sotto il materasso e sono pronta ad affrontarlo ma zì Giovanni si è già buttato addosso, mi ha sollevato la gonna e sta per sopraffarmi.
Quando succede questo, quando cioè comincia uno stupro, tutto è molto calmo e silenzioso: quei rumori che potrebbero suscitare allarmi sono deboli, mancano e purtroppo si affievoliscono anche quegli strepiti o sospiri affannosi che fanno percepire la gravità del momento, che farebbero intendere come una pausa tranquilla sia stata trasformata in un malevolo intermezzo. Tutto è sospeso, chiaro e netto ma bloccato come un evento che deve necessariamente compiersi e necessariamente presentarsi inevitabile.
È una lotta impari, acerba, convulsa: io che tento di respingere, di difendermi, di combattere e lui che non si fa respingere, non si fa attaccare, non si fa sconfiggere. Altre volte avevo notato lo sguardo maligno di zì Giovanni ma l’avevo sempre evitato, sottovalutandolo: stavolta mi ha beccata mentre mi trastullavo con la cassetta magica del mio tesoro nascosto, stavolta i tesori nascosti sono due e alimentano entrambi avidità, arbitrio, violenza. La lotta non è solo tra me e lui, è anche tra me e me: potrei soccombere e lasciare che tutto sia un episodio prevedibile, una maglia qualsiasi di una catena insignificante e difendere così, con questa occasionale sconfitta, i miei risparmi, oppure reagire con forza, come un animale accerchiato che raccoglie tutte le sue energie per rispondere alla cieca, senza vie d’uscita, su quanto gli viene inflitto.
Ed è lui a vincere, a bloccarmi la gola con una mano, a tirarmi a sé mentre il carillon cade a terra suonando, a tenermi bocconi e spingere là dove deve spingere, a rendermi innocua. I miei pensieri, articolati e inutili, si sono subito fermati, le mie idee non fanno vibrare il cervello: con la coda dell’occhio guardo il carillon a terra, le mazzette delle banconote e i buoni postali sparsi sul pavimento come frutti caduti da un albero prima del tempo, maturati in anticipo, scoperti, abbandonati, alla mercé di tutti.
Zì Giovanni – è strano che continui a chiamarlo ancora così – si rialza, si ricompone, raccatta le banconote e mi dice che li conserverà lui quei soldi, mi ordina di prepararmi per la riapertura del mini-market e scompare, come se nulla fosse successo.
In fondo cosa è successo?… Resto ancora in ginocchio sul letto e respiro lentamente per recuperare una riserva d’aria che mi è mancata, guardo il disegno della coperta, ne seguo il ghirigoro e mi sperdo in questi cerchi e in queste linee che s’intersecano per alludere a un significato che non c’è, che non mi serve. Raccolgo i buoni postali, li ripongo nel carillon e, camminando a quattro zampe, guardo in giro per cercare altre parti del mio tesoro ma non c’è nulla: quelle banconote che contavo con tanto rispetto e orgoglio non ci sono più. Alla fine mi alzo, me ne vado nel bagno, mi lavo, mi cambio la biancheria, mi riavvìo i capelli e mi vedo nello specchio, chiedendomi con gli occhi cosa farò o cosa potrò fare. Mi affaccio al finestrino del bagno, accendo una sigaretta e guardo il panorama che conosco a memoria: le scale di pietra, gli anfratti, i muri bianchi e rosa, rami di limone, ciuffi di basilico. Tutto è inerte nella controra, non c’è vento, immobile come in una cartolina.
Apro la porta della camera dei miei figli: stanno dormendo, i quaderni e i libri sono sul tavolo, i loro respiri sono dolcissimi e quieti e vorrei provare anch’io la stessa tranquillità. Non riesco a sentire la mia voce ma forse non voglio sentirla, non ho gridato quando avrei dovuto e non so che dire ora che dovrei parlare ma non so neanche con chi potrei farlo. Richiudo la porta della camera e scendo al mini-market, per riprendere il mio posto di lavoro.
Devo passare per la cucina e zì Lucia mi chiama: il borbottìo della moka è alla fine, la cuccuma è pronta con lo zucchero e le tazzine sono già sul vassoio di terracotta. “Prima il caffè” dice zì Lucia e mi invita a prendere una sedia e avvicinarmi al tavolo: mi guarda con quei suoi occhi cisposi, neri, lucenti e con sorriso sincero, dai denti sghembi, mentre versa dalla moka un rivolo di caffè trasparente, di un marrone annacquato, ma caldo e fumante come si conviene per svegliarsi dal sonno pomeridiano.
Mi siedo, sorseggio dalla tazzina e aspetto che sia zì Lucia a dirmi qualcosa, qualsiasi cosa: lei si gusta il suo caffè leggero, fa schioccare la lingua e dice che la settimana prossima comincerà un po’ di caldo. Un po’ di caldo, perché no? Tutto qui quello che mi dice zì Lucia ma era un pretesto per cominciare un po’ di conversazione, tanto per parlare un po’. Il fatto è che non mi vengono i pensieri e le parole, resto bloccata da quello che è successo di sopra e da quello che dovrei fare ora. Potrei telefonare ma non so a chi, potrei gridare o piangere ma non me ne viene voglia, potrei stare zitta e guardare le tazzine, il vassoio di terracotta, il tavolo, le mani rugose di zì Lucia che mi scuotono come se mi fossi incantata.
– Non vai a lavorare?
– Sì, certo.
– Guarda che tra poco arriva il carretto della pasta.
– Lo so.
– Magari ti fai aiutare dai ragazzi se hanno finito i compiti.
– Non c’è bisogno, ce la faccio da sola.
Mi alzo, prendo le tazzine, le sciacquo nel lavello, le ripongo sullo scolapiatti e mi aggiusto una ciocca dei capelli che m’è caduta sugli occhi. Usciamo dalla cucina, apriamo la porta che dà sul market quando avvertiamo un rantolo, un respiro tetro e affannoso e una voce che chiama Lucia.
Viene dalla sala da pranzo, quella voce, e zì Lucia si affretta ad aprire quella porta socchiusa e a soccorrere il marito che sta riverso sul divano con le mani che stringono sul cuore le mie banconote. Zì Lucia si spaventa, mi dice di chiamare aiuto e si appresta a rendersi utile come può: zì Giovanni guarda su al soffitto e scuote debolmente la testa, poi si accorge della nostra presenza, mi osserva come se fossi la causa del suo malore e continua a stringere le mie banconote fra le mani.
– Corri, presto, chiama il figlio del tabaccaio!
Il figlio del tabaccaio è medico e sta a Procida per assistere il padre malato ma io non corro, non vado a chiamare nessuno: sto riassaporando il gusto di quel caffè annacquato che si spande umoroso ora in bocca, come se soltanto adesso dovesse davvero destarmi da un torpore.
La voce di zì Lucia è straziata, le mani rugose provano a far rinvenire zì Giovanni, a massaggiargli il torace e le braccia finché, spaventata dalla circostanza, si libera del mio corpo che fa da ostacolo gettandomi da una parte e scappa via per chiamare il figlio del tabaccaio.
Zì Giovanni respira a fatica e mi guarda a fatica: mi avvicino e lui sta per dire qualcosa ma non riesce a parlare, si porta un dito sulle labbra come per chiedermi di stare zitta e io resto zitta. Vedo la mia mano che afferra le mie banconote ma non riesco a prenderle, zì Giovanni si oppone al mio tentativo: le sue mani sono diventate una morsa e stanno riducendo i miei soldi ad una poltiglia. Mi faccio forza e gli allargo le mani lentamente, riacciuffo le mie banconote stropicciate e mi accorgo che lui è spirato.
Nascondo le mie banconote nel reggiseno e mi allontano di qualche passo, guardando la faccia di zì Giovanni immobile e abbandonata sul divano, le mani ciondoloni, il torace irrigidito, i pantaloni che hanno ancora la zip a metà, con un alone intorno che non si può confondere.
Neanche ora mi vengono in mente parole o pensieri per darmi coraggio: mi fanno sentire viva e presente le banconote che ho recuperato, che si strusciano sulla mia pelle come foglie d’erba e quel sapore di caffè che forse non era così acquoso.
Torna zì Lucia col figlio del tabaccaio: il medico non può fare altro che dichiarare la morte di zì Giovanni e zì Lucia non può fare altro che piangere lamentandosi, schiaffeggiandosi per la pena di aver perso il marito, ripetendo in cantilena che “Stava così bene, stava così bene”.
La stanza, la casa e il market si riempiono di uomini e donne, vecchi e bambini: sono i vicini attirati dalle grida di zì Lucia e tutti domandano, soprattutto a me, come sia successa “questa cosa così brutta”. Non rispondo, non parlo, non partecipo. Zì Lucia mi ordina di chiudere il market e di non fare entrare altra gente: obbedisco e resto a guardia sull’uscio di quella che sarà la camera della veglia funebre.
Si presentano i miei ragazzi, hanno sentito il trambusto e le voci, li rassicuro e gli dico di tornare in camera e di aspettarmi. I ragazzi provano a sbirciare, a saperne di più ma poi se ne vanno con la promessa che stasera li porterò fuori, magari a mangiare una pizza. Ma anche la pizza è un pretesto e non mi distrae, non m’infonde sollievo e spensieratezza. Cominciano a formarsi nella coscienza immagini slegate tra di loro, che mi rimandano a un breve lasso di tempo, a quella situazione di un’ora fa, quando soggiacevo sotto il corpo di questo vecchio che si è tolto di mezzo dopo aver fatto di me quello che voleva. Cerco di metterle insieme, queste immagini, di considerarle unite le une alle altre, come parti indivisibili di un unico racconto ma non ci riesco, qualcosa mi impedisce di vederle e percepirle nella loro complessità, mi sfuggono, mi respingono come se non fossi stata io a subire quella violenza, o come se in realtà non avessi fatto altro che aspettarmela.
I vicini si dànno da fare: c’è chi avverte i figli del vecchio che lavorano a Napoli nei telefoni, chi si premura di allestire la stanza per la veglia, chi dispone le sedie per i visitatori, chi presenta il suo omaggio funebre con il solito pacchetto di zucchero e caffè. Il figlio del tabaccaio chiama il medico di famiglia per il certificato di morte e poi se ne va perché il padre, dice, sta più di là che di qua. Solo io resto ferma al mio posto come una statua e zì Lucia, tra le lacrime, si chiede e mi domanda “Hai visto che è successo?”, come se fosse vedova da sempre e non avesse fatto altro, anche lei, che di aspettare questo fatale appuntamento. Non rispondo, potrei dire di saperlo bene quel che è successo ma mi affosserebbe in una spirale di rancore e di spregiudicatezza, di intimità offesa e di coscienza maltrattata. Chi potrebbe capire i sentimenti che provo in questo momento? Non sono né sentimentali né convincenti: si sono bloccati, sono stati spezzati, come un capo di spago che venga tagliato troppo corto e non ne hai abbastanza per stringere un nodo.
Quando la stanza comincia a riempirsi di persone, di fiori, di voci, di condoglianze e occhi rossi, decido di uscire, di andare a prendere i miei figli, di raggranellare le banconote, di organizzare già da stasera quella che dovrà essere la mia nuova vita.
Passo la mano sulle banconote raggrinzite per stirarle, per farle tornare quelle che erano, segni di risparmi e rinunce mentre ora sembrano solo carta straccia. Le ripiego, le stendo, le comprimo: hanno perso la lucentezza e la morbidità che avevano ma almeno esistono e ancora alludono ai progetti cui le avevo assegnate. Dagli occhi mi spunta una lacrima e si inaridisce subito sul viso, come una stilla di linfa un po’ troppo calda in un ambiente freddo e inospitale. Mi guardo intorno, guardo il mio ambiente, il carillon spaccato, la scena che mi ha vista sconfitta e già mi vedo lontana e perduta ma è solo un momento, un attimo di abbandono che se ne va da sé, lasciandomi domande difficili da sostenere. Non posso restare ancora muta e senza idee, non posso fingere con me stessa e neanche consolarmi per darmi coraggio.
Dovrò trovarmi un’altra casa, dovrò sperare di trovare lavoro da qualche altra parte, dovrò dare fondamento e speranze a un’idea di futuro che finora mi aveva soggiogata nella dolce lusinga di dover ancora aspettare gli avvenimenti. Gli avvenimenti si sono presentati e ora tocca a me rispondere e replicare, tocca a me far diventare quel che è successo un momento sempre più piccolo della mia vita, fino a farlo svanire nel tempo e nella coscienza.
Dovrò fare tante cose per me e per i miei figli, dovrò tagliare un filo più lungo da quel gomitolo di spago e non per farne nodi ma per tenerlo pronto alle evenienze, per essere tranquilla e sicura di poter legare i pezzi scomposti della mia voglia di essere, più che di vivere.
I ragazzi sono pronti per uscire, preparati e acconciati come quando si va a passeggio: mi guardano compunti senza farmi domande e non si aspettano risposte per il carillon rotto, per la promessa della pizza, per l’incertezza che leggono sul mio volto. Sembrano due vecchietti pazienti e fiduciosi, disincantati personaggi fiabeschi, Hänsel e Gretel scampati senza saperlo e casualmente alle crudeltà dei grandi. Li prendo per mano e scendiamo giù da basso, passiamo davanti alla stanza della veglia, ci facciamo largo tra la folla dei visitatori e usciamo sulla strada camminando senza una meta, inebriati da una folata di vento che non ci scompone, non ci divide.
Dovrò cominciare senza ricominciare e dovrò dare il giusto nome alle cose che ho e a quelle che dovrò avere.
Dimenticavo, mi chiamo Costanza.

(Pubblicato il 21 febbraio 2011)

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1 commento su “Mi chiamo Costanza”

  1. Questa riproposta di un testo già pubblicato nel 2011 dimostra che la “letteratura” aveva da tempo individuato e raccontato una situazione esistenziale, familiare, lavorativa che la “politica” continua a consegnare alla propria incapacità (e alla propria autoritaria supponenza) di affrontare in modo serio e articolato quei problemi che comportano dolore e umiliazione personale per ognuna delle persone costrette a vivere situazioni simili – il fallimento di un intero organismo sociale e politico si evidenzia anche nel fatto che le persone siano COSTRETTE a subire, ad adattarsi a situazioni che ne usurpano la dignità, a rinunciare ai propri diritti,ai propri desideri.

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