Telemaco-Bintar

Elio Grasso

Nota di lettura a:
Carlo Marcello Conti
Telemaco-Bintar
Pasian di Prato (UD)
Campanotto Editore 2018

La voce della poesia italiana passa per il Friuli, con radici venete e sconfinamenti emiliano-romagnoli. La misura geografica della poesia dovrebbe valutarsi attentamente prima di affrontare discorsi linguistici e antologici: la biografia dei poeti, nel bene e nel male, assicura distinzioni che diventano il simbolo stesso dell’avventura poetica italiana. Non è certo una novità, ma occorre precisarlo prima di considerare i libri di Carlo Marcello Conti. Nato a Belluno (ma in una intervista indica Forlì, non sappiamo se per svista o rimescolamento di carte), scrittore precoce e frequentatore fin dagli esordi della vivace avanguardia degli anni Sessanta. Non è certo casuale il suo ruolo di redattore (definito dai compagni “sottilmente dialettico”) della rivista bolognese Bab Ilu fondata e diretta da Adriano Spatola nel 1962. Già lì, al di là della benigna tutela di Luciano Anceschi, e oltrepassando i Novissimi, le ascendenze si rintracciavano fra surrealisti, dadaisti e cosiddetti maudits. Le autonomie critiche ribollivano in quegli anni, non mancavano colpi (più che carezze) alla Babele letteraria in auge. Irriverenze e interventi letterari di cui solo negli ultimi tempi si è iniziato a dar conto. Ma Conti ha sempre conservato una sua autonomia, lavorando ben presto alla “visualità” della poesia, all’organizzazione di mostre ed eventi, alla fondazione della rivista “Zeta” e, con la moglie Franca Campanotto, all’avvio della casa editrice. Erano gli anni Settanta, l’incoraggiamento di Franca (che ci ha lasciati nel 2010) fu decisivo per lanciarsi in un’attività che prosegue ormai da quasi mezzo secolo: seguendo direttamente il processo di stampa fin dalla scelta dei titoli, e attraverso un catalogo molto differenziato. I famosi libretti bianchi, dalla grafica minimale, hanno fatto scuola nel campo dell’editoria poetica, per semplicità d’esecuzione e massima espressione del titolo e della consistenza verbale. A Pasian di Prato le macchine off-set di Franca e Carlo (con le figlie Ezra e Inga) non si sono mai fermate. E da lì sono uscite alcune opere di Conti, fra cui quest’ultimo Telemaco-Bintar.
Telemaco sappiamo chi è, per Bintar in lingua friulana s’intende il vagabondo e anche il perdigiorno: da qui prende l’avvio una sequenza di poesie in cui l’autore riconquista un approccio familiare verso chi legge, seguendo l’idea che bastano poche parole per stringersi la mano. La scrittura di Conti è sempre stata efficace e persuasiva grazie all’uso parco del vocabolario, cercando la profondità in tenui e selezionate parole congiunte fra loro da significati più suggeriti che diretti. Allusioni all’esistenza senza descrivere i fatti, una riservatezza intrinseca che non sorprende quanti hanno conosciuto il poeta durante i suoi viaggi e le performance in giro per il mondo. “Una poesia oggi non ha più tante parole” recita un verso, come una presentazione liminare, uno spunto di poetica. Sono trascorsi molti anni dai giorni delle irriverenti autonomie, alcuni se ne sono andati, altri hanno imparato ad abitare posti tranquilli, guardandosi intorno, distinguendo fra cattiva e buona poesia, addirittura costruendo la propria biblioteca attraverso il lavoro editoriale. La fiducia posta nei luoghi abitati dalla famiglia Conti/Campanotto (Udine, Piratello, Imola, Bologna) si tocca con mano anche in queste pagine, le piante crescono insieme ai libri, a centinaia, sul terreno e sui tavoli. Ogni poesia è una passeggiata sulla carta geografica, e si capisce come il fannullone non sia altro che un giramondo incapace di violenza, qualcuno che ricorda un Ulisse poco bellicoso e più meditante mentre si confronta col figlio Telemaco. La vecchiaia ha i suoi lati positivi, a Carlo serve menzionare i titoli dei suoi libri nel corso dei molteplici viaggi. Poi sono gli attrezzi della scrittura e dell’incisione ad afferrargli la mano, a convincerlo che niente è perduto, la pagina è ancora visibile con quel che la lingua vi stende sopra. La tipografia è vita, scrivere una lettera è come fare un giro delle colline, stamparla significa metterla in strada, caso mai l’autore approdasse a un molo per sempre. Ci sono pagine in Telemaco-Bintar che si costruiscono sulla biografia, alludendo a passaggi che ci sono stati, a cammini le cui trame sono nascoste ma non per questo meno presenti. Viene in mente il primo libro pubblicato nel 1973, ma scritto durante il 1960, il cui titolo oggi appare precognitivo: Fuori di casa. Il giovane autore dà consistenza alle cose che hanno resistito, gli è chiara l’importanza della casa come dimora, e lo spazio intorno che invita ai viaggi. Il paesaggio contiene cose meravigliose e anche rovine. E dolori, spesso ben nascosti dentro i libri, propri e altrui, ma tenuti dentro i canali dell’emozione, della conoscenza. La poesia per Conti è il vagabondo che qualcuno vuole salvare, proprio come Venezia: da tutti guardata mentre viene sommersa dalle acque. Quasi esaurito l’inchiostro del calamaio, sono pur sempre le correzioni a portare avanti la vita. Le bozze sono ancora lì sul tavolo, in gran numero, e in attesa.

 

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