Nota di lettura a:
Alla Gorbunova
Miniature
Traduzione di Paolo Galvagni
Faloppio (CO), Lietocolle, 2019
Alla Gorbunova torna al lettore italiano con una serie di racconti (sempre per cura di Paolo Galvagni), dopo la raccolta poetica La rosa dell’angola pubblicata nel 2016 dall’editore Marco Saya. Poetessa di San Pietroburgo, certamente affermata in patria e conosciuta in Europa per il suo forte temperamento, il che significa seguire il fine principale della scrittura quando le si presenta davanti con tutta la sua forza sciamanica e alchemica. È la struttura delle sue poesie e delle sue prose a far tornare sulla terra l’energia che un tempo serviva a rifornirsi di cibo e a comprendere il mondo. Tutte cose che richiedevano scaltrezza e competenze animali e spirituali.
Gorbunova vede il sangue anche nelle costruzioni dell’uomo, infiltrato nelle pietre e nei mattoni e giunto fin lì da guerre lontane, quando orchi e uomini si contendevano le regioni. Ancor più che nei versi lo sguardo savissimo dell’autrice cattura certe parti dell’inferno per inserirle nelle sue Miniature, sorta di prose morali i cui titoli originali rimandano ad amori e animali, a castelli e uccelli oscuri, a bestie e mostri in cui forse intravvedere tratti angelici e pericolosi. Uomini si aggirano in questi spazi, Gorbunova li prende per mano e con pacatezza impeccabile li porta in luoghi un po’ meno psichedelici, tanto basta perché si tranquillizzino restando in attesa. Di cosa sta al lettore scoprirlo, mentre non è difficile sorprendere un sorriso distaccato sul volto di Alla.
In lei la visionarietà rallegra e fa comprendere come anche in mezzo alla tundra (come in città o nei lontani villaggi) le qualità fisiche e spirituali siano perennemente al centro dell’attenzione celeste. Non per forza sede di forze benigne. Ma non sempre mortali. Le cose spaventevoli sono una grossa tentazione per la poetessa sanpietroburghese, lì si scatena la fantasia e una certa quantità di smodata astuzia, s’intuisce un entusiasmo nel gesto di scaraventare l’umano nel sovrumano. Non dimentichiamo che certe epopee sono narrate nel pieno di territori gelidi ma ricchi di fauna “off-world” (per dirla alla Philip Dick), con quel tanto di mondano da cui è sempre stato attratto il diavolo. I secoli passano, costui resiste e certi scrittori tornano e ritornano nei luoghi del delitto.
La modernità della Gorbunova si rigenera nella stessa attenzione verso il gotico, che non si fa mancare, e d’altronde con sofisticatissima sagacia narrativa. Nel folto delle Miniature c’è posto anche per le favole nere, e impeccabili traversate nelle cose sconvenienti, sempre al primo posto nei desideri umani, con ricche digressioni che rimandano all’assurdo posto da Gogol’ come modello di mondo e – per quanto riguarda l’Italia – al grottesco a lungo corteggiato da Landolfi.
Tra citazioni e rilievi psichici sull’umanità, le opere di Gorbunova in prosa e poesia (lette grazie all’ottima traduzione), indagano e descrivono i volti ignoti e in piena luce di umani e animali, tutti abitanti lo stesso caravanserraglio: vi si narrano le memorie di specie diverse, ma interamente annesse alla categoria dei sottomessi, da parte di entità senza scrupoli. Il miracolo avviene quando una scrittrice, saldamente viva, riesce a decifrare misteri e parte di quelle istruzioni che servono a salvare la pelle. Probabile che gli occhi di Alla Gorbunova, a noi visibili nella foto di controcopertina, siano accuratamente protetti dall’influenza di “zone” remote e radioattive, pur conservando facilità di penetrazione nelle sottaciute leggende continentali, quelle che aspettano ancora oggi le eroine della scrittura.
Resta la certezza che, soprattutto in Miniature, i nuovi mondi ancora da scoprire siano molti, dopo la grande amnesia avvenuta nel Novecento, quando il vecchio è stato sconquassato dalle visioni scientifiche, sorpassando di colpo le nobiltà canoniche fino a quel momento sedimentate. Che questa frontiera sia abitata da una giovane russa fa ben sperare noi ambiziosi, e cultori da sempre della ricerca linguistica utile a varcare l’opera aspra del mondo. Alle sue spalle sostano figure che non sono statue, né mai lo saranno, ma somme proiezioni planetarie. Ammettiamolo, è una gran fortuna.
Testi
La colpa di Terentij
Di sera il contabile Terentij conversava col proprio senso di colpa. Che poneva a Terentij varie domande. “Hai colpa di esser arrivato tardi al lavoro?” – chiedeva il senso di colpa. Terentij si sforzava, cercava di ricordare e scopriva che no, era arrivato al lavoro esattamente alle dieci. “Non ho colpa!” – rispondeva gioioso Terentij al senso di colpa. “Sì-ì-ì! – si incupiva il senso di colpa, – e hai colpa di esser arrivato al lavoro in orario?” “Ho colpa”, – ammetteva rincresciuto Terentij. “Hai colpa di esser stato insolente con la tua superiore?” – chiedeva il senso di colpa. “No, che dici?”– si spaventava Terentij. “Ma forse hai colpa di esser stato gentile con la tua superiore?” – lo tormentava il senso di colpa. “Ho colpa”, – ammetteva rincresciuto Terentij. “Hai colpa di aver fatto un errore nei calcoli contabili?” “No-no, una cosa del genere non può essere, mi guardi Iddio!”– si spaventò Terentij. “E hai colpa di aver fatto tutti i calcoli giustamente?” “Ho colpa, dio mio, colpa”, – ammetteva rincresciuto Terentij. Soffocato dal senso di colpa, si addormentava e faceva brutti sogni, al mattino si destava con la sveglia ed esattamente all’ora stabilita andava al lavoro, conversava gentilmente con la sua superiore e faceva i calcoli senza nessun errore. A casa, adagiato sul divano, lo aspettava il senso di colpa. Sembrava che esso aspettasse da lui qualcos’altro, ma che cosa – Terentij non lo sapeva.
I piaceri casuali
Vasilij vive di piaceri casuali. Non vive neanche – sopravvive. Va a casa in metrò e pensa: “Appena arrivo, la faccio finita”, ma ha molta fame, va in un caffè e mangia del cibo dannoso, poi ha inizio un rilassamento gradevole, Vasilij si impigrisce a suicidarsi, e rimanda all’indomani. Poi Vasilij ricorda che domani verrà da lui X, scoperanno alla grande, rimanda il suicidio a dopodomani.
Così va per le lunghe: i piaceri casuali e la pena rimandata. Ogni nuovo piacere è un motivo per procrastinare. Aiuta Vasilij a ingannare la morte e se stesso, ad attendere segretamente che un bel giorno un senso appaia nella sua vita, non come quello che c’era un tempo, prima che si perdesse, ma uno ancora migliore, nuovo, nel quale ci sarà qualcosa di tutti i sensi e gli scopi, che ha avuto, ma ci sarà qualcos’altro, mai stato prima, allora Vasilij vivrà, intanto tutti i piaceri del mondo, tutte le sue piccole gioie sosterranno Vasilij: tutti i bistrot e le caffetterie, i cheesecake e la coca cola, i libri interessanti e gli allegri programmi TV, i bar e i cinema, le belle ragazze, i gatti graziosi e i parchi primaverili, i bagni caldi e il buon tabacco.
Tutte quelle cose sembrano dirgli: “Vivi, Vasilij! Anche se non possiamo fornirti più di quanto siamo noi stessi, ma non ti lasceremo, staremo tra te e la morte, finché non troverai qualcosa di meglio di noi”.
Per ora non si trova niente di meglio. Vasilij mangia squisitamente, dorme bene, va al cinema, incontra gli amici, va a spasso per la città.
Totalmente
A Egor, fino ad allora astro nascente della scienza patria, facevano sedute di terapia elettroconvulsivante, per quello non ricordava niente, e quando cominciò a ricordare qualcosa, si chiese se potesse ora pensare a qualcosa o se tutto fosse chiaro per sempre. A casa, dai genitori, lui capì che vedeva tutte le cose totalmente, ma non sarebbe più riuscito a dedicarsi alla scienza. “Che lavoro farò adesso?” – chiese alla madre. “Ti ristabilirai e lavorerai nel tuo istituto”, – disse lei timidamente. “No, mamma, – disse Egor, – ora vedo le cose totalmente, quindi non posso dedicarmi alla scienza: per la scienza bisogna vedere le cose nella foschia dell’ignoranza e dello stupore”. “Se è così, ci sono molti lavori semplici, non complessi, – disse la madre. – Lavorerai come guardarobiere, custode, nel tuo stesso istituto, tutti i lavori sono ugualmente dignitosi, un guardarobiere non è affatto peggiore dello scienziato. Ogni lavoro va fatto con amore”. “Mamma, – disse Egor, – tu ragioni come l’intelligencija, perché dietro il tuo amore per il popolo semplice c’è accondiscendenza e nel profondo dell’anima non credi che qualcuno oltre agli “intellettuali” sia capace di pensare”. “È la tua depressione, – disse la madre, – ma presto starai meglio”. “Sto già bene, – obiettò Egor, – Sai perché ho acconsentito alla terapia elettroconvulsivante? Volevo che la scarica elettrica rimettesse le molecole nella mia testa al loro posto: quello che occupavano nello stato primordiale paradisiaco, che si ravvivassero e cominciassero a dare una risonanza armonica, che sento nella mia testa come canto stupendo”. – “E non senti più le voci nella testa?” – chiese inquieta la madre. Egor sospirò: era abituato al fatto che le persone si dividessero in due tipi fondamentali: i nominalisti e i realisti. Sapeva che certuni credono che l’amore sia cecità, altri – che sia illuminazione; certuni credono che l’arte crei l’illusione, altri – che essa ci ponga faccia a faccia con la realtà; anche impazzendo, Egor credeva che le sue allucinazioni non fossero le fluttuazioni casuali di una coscienza malata, ma la testimonianza della struttura dell’intelletto e della natura del mondo. Egor si mise gli occhiali neri e andò in strada: attorno a lui giaceva la creazione senza un creatore. Nel negozio, dove Egor comprò un pacchetto di sigarette, la commessa gli chiese perché portasse gli occhiali neri in inverno, lui rispose: “Non voglio vedervi totalmente – guardarvi e incenerirvi vivi con l’atto stesso della mia vista”. Egor camminava in strada, fumava, vedeva le case e la neve, i barboni e le vecchie sbilenche e al contempo – come in un oceano pre-verbale dai frammenti, dalle alghe, dal limo e dal sale si generavano significati e gemmavano le stelle. I significati nascevano e morivano: alcuni vivevano a lungo, altri – una frazione di secondo. Dai corpi delle stelle si formavano escrescenze, tipo polloni, si aprivano, e una nuova stella cresceva sul corpo di una vecchia e lentamente se ne staccava. Egor vedeva tutto ciò e sapeva che poteva rimanere per sempre in quell’oceano e vivere una vita eonica tra stelle coperte di limo e navi affondate: non ritornò alla scienza e andò al popolo, cominciò a lavorare come capotreno del treno Mosca-Vladivostok; era felice, ma portava sempre gli occhiali neri, per non vedere totalmente quanti non erano pronti a ciò.
Dedalla
Una marionetta di legno viveva nella tundra nella città di Knoss. Lì non viveva più nessuno, solo le scolopendre, perché il defunto re di quella città aveva la consuetudine di emettere scolopendre durante la copulazione con le donne. Il re morì, e anche le donne, mentre le scolopendre restarono. Il re già da tempo stava all’inferno, aveva l’aspetto di un demone con la coda di serpente, con cui avvolgeva le anime appena arrivate, e una marionetta di legno – era la sua marionetta – vagava solitaria tra i ruderi del palazzo. Tutti i palazzi della tundra erano bruciati: Knoss, Fest, Zakros. Scoppiarono gli incendi e bruciarono i palazzi e i licheni attorno, i papaveri e i ranunculi, la sassifraga e la pedicolare. Poi dal cielo cominciarono a cadere cenere e piume di oca, tutto si ricoprì di una densa pelliccia. Anche la marionetta di legno bruciò, ma un grande maestro l’aveva fatta, quindi rimase viva, benché diventasse nera come il carbone. La marionetta vagava nei corridoi, le sembrava che i ruderi del palazzo fossero il suo stesso intelletto, devastato dagli elementi. Prima la marionetta cantava e componeva versi, ma non riusciva più: gli elementi naturali avevano bruciato tutto. La marionetta entrava nei depositi per il grano e per il vino, ma le giare erano vuote. La marionetta vagava nel megaron, sulla cui parete erano rappresentati gli scudi a forma di otto. Saliva per uno stretto passaggio dalla sala dell’ipostilo verso il cortile centrale, camminava per cortili aperti e stanze oscurate, su corridoi e scale, accanto a cortili di luce e colonnate. Qui e là erano rimasti frammenti di affreschi: persone in processione, la caccia ai cervi, la raccolta di bacche, pecore delle nevi, lupi, lemming, civette polari, la fioritura primaverile della tundra, sullo sfondo della quale passeggiavano dame con la vita sottilissima che indossavano abiti azzurri e color melagrana con crinoline sfarzose… Nella sala del trono, su entrambi i lati dal trono, erano rappresentati i grifoni, e attorno, su uno sfondo rosso, i non-ti-scordar-di-me. Tutte le colonne nel palazzo avevano la consuetudine di stringersi verso il basso. La marionetta cercava colui che si nasconde nel centro di quel labirinto, colui che ne rappresenta il mistero, custodito nel cuore della marionetta. Ma tutte le stanze erano vuote, anche il centro era vuoto, la marionetta capì che nel suo cuore non c’era più alcun mistero. La marionetta stava nel centro del palazzo e roteava gli occhi. Un tempo un gran maestro l’aveva creata per il re, che emetteva scolopendre durante il coito, affinché potesse far l’amore con la marionetta e non provocasse danno alle ragazze vive. Tra le gambe lei aveva una fessura, come una ragazza. La mente della marionetta e il cuore erano vuoti, erano del tutto bruciati, il vuoto dentro tormentava la marionetta, lei prendeva le scolopendre e se le infilava tra le gambe. Le infilava finché non si riempiva tutta di scolopendre. La marionetta si chiamava Dedalo, in onore del grande maestro che l’aveva creata, ma poiché la marionetta era di sesso femminile, chiamava sé stessa Dedalla.
Dalla vita dei mostri
Un ragazzo incontrava due ragazze al contempo, Scilla e Cariddi. Facevano finta di non conoscersi, ma in realtà si conoscevano, anche se non personalmente. Di sera guardavano le foto l’una dell’altra sui social. In quelle foto Cariddi vedeva chiaramente che Scilla aveva la testa di cane e le gambe erano code di delfini, ricoperte di squame. E Scilla vedeva chiaramente che Cariddi non era una donna, ma un vortice d’acqua. Nel turbinio di Cariddi Scilla leggeva il desiderio di sposarsi a ogni costo. Le code di delfino di Scilla mostravano chiaramente a Cariddi lo stile dissoluto di vita della rivale. Il ragazzo non vedeva nulla di simile, dal suo punto di vista, Scilla e Cariddi erano ragazze come tante, una aveva un bel seno, l’altra il culo raccolto, ma Cariddi gli piaceva di più, perché al caffè pagava sempre per sé, e alla fine lui la sposò.
L’ha ribloggato su Paolo Ottaviani's Weblog.