Samori Touré (1)

[…] In questo periodo di imponenti migrazioni, contro le quali si levano i razzismi e i populismi europei più brutali, è necessario ripetere con Carena, dopo Carena, che i migranti del Sahel portano in sé e nella loro stessa parola, oltre a un’antropologia particolarmente ricca, un corpus popolare di personaggi reali che hanno spinto a ripensare profondamente il mondo e le relazioni tra le sue terre del sud e quelle del nord. Thomas Sankara, Kwamé N’Krumah, Franz Fanon, Patrice Lumumba, per esempio. Samori Touré è tra costoro, intorno al 1900. La loro forza simbolica, politica e popolare è ancora oggi, per una gran parte della gioventù africana, un elemento fondamentale della lingua-spazio di quei luoghi.

[…] E’ significativo, poi, che un giovane storico francese si impegni a restituire a Samori Touré tutto il suo spazio. E questo storico, Romain Poncet, ci mostra qui che la lingua letteraria, se non addirittura poetica, si accorda perfettamente anche alla ricerca storica. Yambo Ouologuem non è solo. Lungi dall’essere il cagnolino erudito del mondo francofono o il bravo allievo della classe che ambisce ai premi letterari, egli porta a incandescenza la sua scrittura grazie all’efficacia della sua ricerca. (Yves Bergeret)

 

Romain Poncet

Samori Touré

Il testo originale,
Oraison (récit d’une vie de Samori Touré),
è stato pubblicato su Carnet de la langue-espace
del 6 dicembre 2018.

Traduzione di Francesco Marotta

 

Alla fine del penultimo secolo, la Terza Repubblica convoglia i suoi sogni fuori dai suoi confini europei. Uno di questi, non il più brillante, non il più accessibile, porta il nome di Sudan.
Questo nome e questo sogno esistono oggi solo allo stato di spettro decomposto alle frontiere del Mali, del Niger, del Burkina e della Costa d’Avorio.
Il Sudan
francese diede origine all’ultima mistica militare del diciannovesimo secolo: quella di una spada salvifica portata nelle Tenebre, dall’Alto Senegal fino alle rive del Lago Ciad, da alcuni figli di Marianne.

Ma nel bel mezzo della sinfonia francese, un intervallo di venti anni: Samori Touré, costruttore di un impero che abbracciava le regioni a sud del Niger, alla fine rovesciato nel 1898.

 

Orazione

 

Samori.

Tre sillabe sconosciute nei trenta anni della mia vita. Il tuo nome non mi è mancato.

Il poeta evocherebbe una sindrome da “arto fantasma”, una nostalgia senza una causa precisa.

Io non sono un poeta.

Non conoscevo Samori. Il caso mi ha messo sulla strada di questo nome, di questi suoni secchi intorno alle tre lettere più fredde, m-o-r. Un nome per una realtà vecchia di oltre un secolo.

Per la stragrande maggioranza dei suoi contemporanei, Samori è un nome.
In che modo è stato pronunciato questo nome da coloro che lo dissero?

Per rispondere ci vorrebbero le pagine trasparenti di una Bibbia e centinaia di volumi di un’enciclopedia del tempo che fu.

– – –

Samory“, articolato dal buon lettore del Petit Journal asfissiato dalla sua pipa, che punteggiava con una grassa risata quel nome spaventoso – e un po’ doloroso per l’orgoglio della Terza Repubblica;

– – –

«Samori! Samori!», come gridavano eccitati i ragazzini di Kankan, durante la parata dei suoi cavalieri, con la divisa da cerimonia, prima dei silenzi più severi delle udienze ai richiedenti venuti da tutto l’impero;

– – –

La voce degli ufficiali, dei soldati, dei Jacquin e Gallieni, dei Combes e Archinard, tutti lanciati sulle sue tracce, oscillante forse tra disprezzo, collera contenuta e scoramento – a seconda delle circostanze – «Samory…»

– – –

I soldati della truppa, invece, vi mescolavano odio e terrore nel vivo dei combattimenti, «Samory!!!!» Ma dopo aver gridato, sussurrato, urlato, nella via, nelle foreste, in Parlamento «Samory ?!», il nome cessò di essere pronunciato e nell’esagono abbreviato del secolo successivo, al termine dei suoi crimini e delle vicende senza pentimenti, l’esclamazione divenne immutabile: «Samori?»

***

E Samori è un’immagine. Nelle foto militari, dopo la sua cattura nel 1898 o nella solitudine del Medio Congo fino al 1900, quest’uomo rigido, dritto, circondato da ufficiali e da fucilieri altrettanto rigidi e disordinati, non assomiglia affatto a un uomo integro.

Egli è l’immagine del prigioniero, privo di ogni scioltezza. Il suo volto non lascia trasparire niente, quando appare sulle foto slavate e senza contrasto che gli apprendisti reporter aggregati agli eserciti scattano alla buona in quelle circostanze.

Samori diventa lo Sconosciuto, una figura presa dalla storia e dai suoi resoconti ben ordinati. Come tutti quelli che il caso ha messo sulla strada della Francia, è ricoperto di aggettivi che non appartengono alla sua lingua.

La sua lotta disperata ne fa un eroe. La sua sconfitta lo imbavaglia. Egli è quello che di lui si racconta, come per gli altri vinti. Egli è detto.

Si racconta: il Mandinga si dedicava al commercio degli schiavi – li divorava -, come qualsiasi ambulante benestante. I piccoli profitti derivanti dalla vendita di kola o di oggetti in ferro battuto non potevano sempre soddisfare la sua bramosia.

La carne trattenuta, dissimulata nell’ombra delle capanne o nei lucori grigi dell’alba, sul bordo dei sentieri, mentre si recavano a fare rifornimento d’acqua, quei corpi lunghi nascondevano la vera sorgente delle grandi fortune.

L’aspirante emiro fece ricorso alle aggressioni, distrusse i villaggi fortificati fino alle fondamenta. La guerra sgorgò nella sua anima dalle stesse fonti dell’ambizione, vecchio fiume umano che alcuni si sforzano di risalire al prezzo del sangue degli altri e sempre annegano a mezza strada in un rosso familiare. La sete di ricchezza si sazia sempre meno man mano che l’orizzonte si allarga.

Il venditore ambulante si fa generale. La caccia agli schiavi, poi la caccia ai popoli. Primo capitolo del racconto dell’Africa-eccesso-di-notte.

E si dice ancora: ecco questo regno contrastato dall’irruzione di più potenti cacciatori di popoli, accecati di buoni sentimenti, che parlano di polvere e di bibbie, che danno la caccia senza tregua al loro nemico, improvvisamente straniero a casa sua al cospetto dei nuovi padroni.

Infine la cattura, l’infamante contatto con spergiuri e fabbri di verità. Niente di nuovo, nemmeno la sua fine da deportato. Samori non avrà consolazione postuma. La catena non si ferma al suo collo, cigola davanti e molto indietro ancora. Riconosce appena, dalla sua cella nel Gabon, il berretto di Behanzin o la schiena fiera di Ranavalona, tutti e due gettati alle porte del mare d’Algeria, sente su di sé gli sguardi decisi di tutti i senza nome, ancora senza patria, segregati lontano fino al prossimo secolo, trasferiti, deportati, sloggiati, tutti repressi dalla mano che portò lui lontano dalla Guinea, a crepare di polmonite sotto l’Equatore.

Anche la sua fine, dalla disfatta alla morte, seconda e definitiva, non è sconosciuta. Diffusa in tutto il lontano regno dell’opinione, Samori smette di essere un uomo di sangue e nervi.
Le rotative moderne l’hanno schiacciato fino a trasformarlo in carta colorata per i supplementi illustrati del Petit Journal. Le fibre degli eroi, nel nostro tempo dilatato, prendono in prestito tutto dal legno schiacciato, poco o niente dal modello.
La cattura di Samori, il suicidio sventato di Samori, infine la morte di Samori, trattati come una sola cosa, consegnati al lettore desideroso di “notizie dal mondo”, hanno espropriato il signore della guerra di se stesso, riducendolo a una serie di immagini.

Immagini da favola, proprio quelle che desiderano le folle della Repubblica, troppo occupate ad annegare il loro tempo in un lavoro frenetico e nell’esercizio di un irrisorio brandello di sovranità.
Dove sognare? Quando? L’immagine-spettacolo di un tenente Jacquin che afferra per il collo il famigerato Samory che fugge al galoppo, ecco un sogno epico a prezzo contenuto! E, meglio ancora, un sogno perfettamente comunicabile, ottimo combustibile per l’orgoglio nazionale. Samori, eccoti ridotto a cacciagione del patriottismo!
Sulle tue ossa, presto mischiate a tante altre, la Francia costruisce il suo altare, tanto alto da farle in breve tempo dimenticare l’origine di quel tumulo dal quale egli sembra contemplare l’orizonte del mondo in grazia unicamente delle sue idee generose.

Samori, io ti ho visto anche su una maglietta alla Stazione Nord, un giorno di ottobre. Stemma sul petto di uno di quelli stroncati sulla soglia delle gendarmerie, offerto a milioni di occhi che ti guardavano senza riconoscerti.

[…]

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