Nei giorni scorsi è venuto a mancare, a Parigi, il grande poeta francofono Lorand Gaspar. Silenzio assoluto sulla stampaglia e la bloggaglia italiote, tutte intente a celebrare i loro eroi da avanspettacolo delle lettere, da sagra paesana del nulla in versi.
Ho chiesto a Yves Bergeret, che tra l’altro lo ha conosciuto e frequentato personalmente, di tracciarne il profilo per i lettori della Dimora. Il ritratto che ne emerge è quello di un uomo e di un poeta resistente, trasparente, umanissimo cantore della vita degli ultimi e dei senza storia. (fm)
Omaggio a Lorand Gaspar
Poeta tra i maggiori della contemporaneità, nato il 28 febbraio 1925 in Transilvania e morto il 9 ottobre scorso a Parigi, Lorand Gaspar è una figura eminente della francofonia europea: la sua fiducia illimitata nella parola e nella poesia, nonostante tutti i drammi che ha conosciuto, ci ha dato dei libri memorabili.
Agli inizi del 1989 (o forse era alla fine del 1988) l’avevo invitato a Praga, dove allora lavoravo. Era al corrente dell’opprimente situazione letteraria e politica locale. Perfettamente in sintonia con la sua esplicita richiesta, ho organizzato per lui degli incontri col mondo intellettuale clandestino, palesemente perseguitato dal potere pro-sovietico. E’ così che ha avuto modo di conoscere il filosofo e traduttore Jiri Pechar. Legami di amicizia si sono subito stabiliti tra di loro. Pechar, traduttore di Freud e Proust in ceco, è diventato anche il traduttore di Gaspar. Quest’ultimo, particolarmente interessato, come medico e come poeta, alla psicoanalisi, è stato subito messo in contatto con psicoanalisti cechi attivi e non allineati. Lorand Gaspar è rimasto a Praga una decina di giorni. Una mattina la neve è caduta copiosa. Felicissimo, proprio come un bambino, si è incamminato a piedi lungo i ponti della città, per le stradine barocche e in stile liberty di Praga: voleva fare foto, tante foto. Foto della città di Vladimir Holan, che ammirava, della città che quella mattina trovava un po’ di tregua sotto un manto di silenzio bianco.
In Europa centrale Lorand Gaspar si sentiva proprio a suo agio, anche in una città come Praga, un tempo cosmopolita ma che l’oppressione di quegli anni strangolava. Gaspar parlava correntemente ungherese, tedesco, inglese e francese; parlava bene anche il greco e l’arabo. Difatti egli apparteneva a quella famiglia di grandi spiriti della Mitteleuropa, in sostanza un nipote di Canetti. Era nato in una famiglia ebrea della minoranza ungherese del nord della Romania. Mentre seguiva il corso dei suoi studi secondari in lingua ungherese, era stato sottoposto alle violente e vergognose rappresaglie dei dirigenti locali durante la seconda guerra mondiale, che gli sono quasi costate la vita. Finalmente arriva a Parigi, dove diventa un chirurgo specialista dell’apparato digerente. Decide di andare a lavorare in questa veste negli ospedali francesi di Gerusalemme e Betlemme. Rischia di essere ucciso dai soldati israeliani durante la guerra dei Sei Giorni. Le amicizie che stringe negli ambienti palestinesi e, più in generale, arabi, gli permettono di viaggiare in tutta la penisola arabica. In seguito viaggia anche nelle isole del Mediterraneo orientale.
Nel 1970 una repressione particolarmente violenta si abbatte, in Giordania, sui palestinesi residenti. E’ l’inizio degli avvenimenti del Settembre nero. Lorand Gaspar lascia allora il Medio Oriente per Tunisi. E’ vicinissimo ai Palestinesi quando l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Yasser Arafat, i suoi partigiani e la popolazione esiliata, dopo una drammatica odissea, sono accolti in Tunisia nel 1982. A Tunisi Gaspar fonda il presidio di chirurgia intestinale presso l’ospedale Charles Nicolle. Trascorre tutto il resto della sua vita tra Tunisi e Parigi, salvo qualche breve viaggio.
Ho sempre conosciuto Gaspar come un uomo dallo spirito giovanile e vivace, attento osservatore e profondamente umano. Ricordo quella volta, una quindicina di anni fa, quando venne a trovarmi a Die: saliva ad ampie falcate le ripide rampe di scale della mia casa, divertendosi a visitare tutte le stanze e a guardare da ogni finestra come si modificasse la vista delle montagne. Ricordo il modo così fine e affettuoso con cui osservava i primi anni di mia figlia e i piccoli regali che le offriva con una delicatezza leggera e un incredibile rispetto della persona e del luogo.
Avevo imparato a conoscere la sua opera alla fine degli anni Settanta, nel periodo in cui scoprivo le poesie di Rilke. Due traduzioni delle Elegie Duinesi mi avevano colpito. Una del poeta, ingiustamente dimenticato, Armel Guerne, forse prolissa ma capace di collocare, con meticolosa precisione, le visioni geniali di Rilke in una soffusa luce crepuscolare. L’altra era quella di Lorand Gaspar, che all’inizio mi era sembrato uno spirito essenziale e metodico. Ma più rileggevo l’una e l’altra versione, più apprezzavo anche quella di Gaspar, scultore capace di trarre dalla massa compatta delle due lingue, tedesca e francese, architetture allo stesso tempo semplici e potenti, chiarissime, di audace serenità e di integra umanità. Allora ho letto la sua opera più grande, del 1972, un capolavoro della poesia francofona: Suolo Assoluto. Nella dibattutissima problematica francese relativa al «Luogo», al «vero luogo», all’ «Azzurro» baudelairiano o mallarmeano, lui proponeva tranquillamente non una riflessione su qualche suolo assoluto, ma la trattazione, pagina dopo pagina, di quanto un deserto sabbioso del Vicino Oriente poteva offrirci come sedimentazione delle supreme ricchezze umane del pensiero e della parola. Il deserto minerale, culla di una parola dalla nascita infinita. Pagine di geologia, pagine di faunistica, pagine di citazioni bibliche, pagine di cultura araba pre-islamica, pagine di idrologia, pagine di storia coloniale o precoloniale, pagine di meteorologia, pagine di biologia, pagine di archeologia, pagine di visioni poetiche dell’autore stesso. Insomma, una nuova raccolta di Canti pisani, ma dove è possibile distinguere con estrema chiarezza e senza le torbide digressioni sull’usura. Suolo assoluto è un profluvio di citazioni, tutte documentate. E tuttavia il libro rimane leggero, poco più di centoventi pagine trascinate dalle libere correnti dello spazio immenso. Gli strati sedimentari delle interazioni umane, quindi parlate o scritte, di uno spazio apparentemente vuoto ma completamente impregnato di miti, di speranze, di lotte, di tesori memoriali. Gaspar mostra che il nostro Suolo è assoluto perché è creato dallo sforzo instancabile della speranza degli uomini.
Lorand Gaspar non è mai stato un poeta «pesante», «enfatico», «accademico» o «omologato». Sicuramente la sua infanzia e la sua adolescenza drammatiche in Europa centrale, il suo esilio e il suo peregrinare incessante fino al punto di equilibrio tra Tunisi e Parigi, gli hanno risparmiato ogni culto di tipo barresiano delle «radici». E’ comprensibilissimo, quindi, che viaggiando per le isole del Mar Egeo abbia stretto una viva amicizia con Ghiorgos Seferis, altro grande drammatico esiliato in ragione dell’espulsione dei Greci dall’Asia Minore nel 1922. Poi Seferis, diplomatico, si è trasferito di continuo, tra un incarico e l’altro, dal Cairo all’Africa del Sud, da Londra a Cipro. Poco prima della sua morte, Seferis ha conosciuto e vissuto a Cipro, allora ancora colonia inglese, una sorta di luce soprannaturale, semplice, profondamente gioiosa, nella campagna al centro dell’isola: da qui i suoi ammirevoli ultimi poemi. Lorand Gaspar è stato un traduttore ispirato di Seferis. E anche gli ultimi anni della sua produzione poetica attingono una sorta di stabilità luminosa e quasi disincarnata o mistica, quando scopre l’isola di Patmos. Là egli scrive poesie di solitaria pace interiore.
Preferisco ritornare alle tappe precedenti dell’opera di Gaspar. L’ascolto costante dei diversi stadi della parola di ogni luogo guida tutto il suo lavoro. Gaspar è un osservatore e un ascoltatore di grandissima finezza e disposizione d’animo. Essendo parallelamente ricercatore medico, quale è sempre stato, egli pratica nella sua scrittura metodo, analisi, rigore sperimentale senza mai rinunciarvi. Nel 1978 pubblica un saggio affascinante, sotto forma di frammenti di una costruzione progressiva, che ha per titolo Avvicinamento alla parola: vi si tratta tanto di biologia che di ortofonia neonatale, di emergenza della scrittura e di nascita della metafora poetica. Egli è un osservatore, l’apparecchio fotografico gli diventa ben presto indispensabile. La minaccia estetizzante è comunque in agguato; Gaspar lo sa. Negli anni Sessanta egli può andare e venire a piacimento nei deserti dell’Arabia, ovviamente vi fotografa gli effetti della luce radiante su questa o quell’altra tela di tenda beduina, su una certa parete di arenaria erosa dal vento; ma sempre la persona umana è là, nella sua naturale semplicità, povera, degna, senza infingimenti.
Allo stesso modo nel 1980 pubblica un’altra notevole raccolta, costituita soprattutto da poemi in prosa, Egeo / Giudea: sa molto bene che l’approccio estetizzante o addirittura turistico alle isole e al deserto inquina facilmente lo spirito di tanti lettori; ma egli popola le pagine di questo libro mirabile di racconti delle repressioni sanguinose contro i Palestinesi. Il reale è ben presente, in tutta la sua diversità.
Nel 1996 avevo dedicato a Parigi, al Centro Pompidou, un’esposizione, dal titolo «Cine/Arabie», Gaspar/Segalen, ai due poeti insolitamente fratelli a tre quarti di secolo di distanza: Victor Segalen e Lorand Gaspar. Entrambi medici. Entrambi fotografi onnivori. Entrambi agli antipodi dell’accademismo. Entrambi alla ricerca di un «suolo assoluto»: il Tibet di Segalen, che non raggiunse mai, ma la sua ricerca incessante lo condusse, in piena epoca di autocompiacimento coloniale, a rovesciare completamente la nozione di esotismo e a proporre, dal 1915, una «estetica del Diverso»; il «suolo minerale assoluto» di Gaspar è quel suolo la cui sostanza è la sedimentazione dei diversi stadi della parola umana, contraddittoria, violenta talvolta, speranzosa sempre: nel cuore di questa sedimentazione tanto «diversa», brilla, dice Gaspar, un nucleo di luminosa intensità.
Nel 1986 Lorand Gaspar pubblica la sua opera Fogli di osservazione. Eccone la prima pagina:
«Avrei passato la maggior parte del mio tempo in questo luogo dove si concentra il dolore degli uomini. I miei occhi si sarebbero riempiti ogni giorno delle immagini della decomposizione della forma umana, della sua inevitabile disfatta. La necessità di comprendere bene e male e di agire non lascia molto spazio all’espressione dei sentimenti. Ci si raccoglie nell’amore ostinato della vita, nel desiderio di guarire – incessantemente impedito, deluso – che è anche desiderio di guarirsi. Su questo filo teso bisogna comunque camminare.
Tra queste bocche imbavagliate apprendo ogni giorno una nuova composizione dello sguardo, corrosione della speranza e della notte, chimica dell’intensità, della solitudine, dell’estrema solitudine. Qualcos’altro, a volte. Di infrangibile, come se un bagliore o una pulsazione potessero essere infrangibili».
Grazie per questo splendido ricordo di un poeta essenziale. Credo di avere letto diversi anni fa un suo libro tradotto da Maria Luisa Vezzali. Grazie davvero. Qui, nella Dimora, si impara a stare in una condivisa Dimora.
grazie
Grazie all’autore e grazie per il lavoro di traduzione.