Tu io e Montale a cena

Elio Grasso

Nota di lettura a:
Gabriella Sica
Tu io e Montale a cena.
Poesie per Zeichen

Latiano (BR), Internopoesia, 2019

……Valentino Zeichen ci ha lasciato il 5 luglio 2016, dopo decenni di suoi scritti scrupolosi, intriganti, premurosi e cortesemente feroci, nel rifugio secolare della città di Roma, vera patria, dopo esservi atterrato come un marziano fuori tempo da quel Nordest italiano espropriato. Gabriella Sica in quaranta settimane ha scritto quaranta poesie in cui i brandelli d’anima volteggiano nei cieli della Città alla ricerca di quel che rimane d’eterno, se ancora qualcuno ci credesse dopo la morte dell’amico, fratello “coriaceo” e creatura della realtà più che dell’immaginazione. Sciami d’insetti minuscoli arrivano dall’al di là e gonfiano le gonne di donne “sumere” in giro per le vie romane, le bellezze orientali che forse piacevano a Zeichen o forse no ma che pur non nominandole restano impresse. Così come altri personaggi fieri e non fieri presenti nelle pagine del poeta e nei ricordi di Gabriella Sica, pratopaganiense poetessa che ha tracciato, e cancellato quando si doveva, certi confini della poesia. Troppe mascolinità in questo ramo letterario, e d’altra parte lei alcune cose le ha messe a posto in Emily e le Altre, e probabilmente anche nell’insieme dei suoi libri di versi.
……Diario di un vigore, o diario di una perdita che non si dà per vinta, e che avidamente annette alle nostre vite i tantissimi fatti movimentanti l’assoluta realtà del poeta con i sandali. Il vigore viscerale assesta colpi giusti all’assurdità della vita, si trasfonde in queste pagine e passa da un capo all’altro della storia, quella che sospesa come una cupola sopra noi tutti, scrittori e non scrittori abili nell’abbeverarsi e poi dimenticare sempre troppo presto. Tutti i versi portano una data, chiamano a raccolta gli amici che hanno varcato gli ultimi decenni del Novecento, nominati uno per uno, mentre avanguardia e classicità si mescolano come certi cocktail consumati nelle vie del Centro. Il Paglia (Elio Pagliarani), per esempio, osserva ancora ironico e non privo di sorrisi o parole sferzanti contro i luoghi comuni critici. Le strade ora non sono più le stesse, forse, ma fra aspirazioni visionarie e rewind magnetici ogni cosa resta ancora attaccata alla cara disdicevole realtà.
……L’aria del tempo, sempre più tesa, appare in forma o appena ammaccata (per ovvi motivi, si potrebbe dire) dentro la compostezza di questo libro, in cui i destini sono tanto chiari da costringere la lingua a una grata operazione di riarmo. La cronaca della vita dei poeti nasconde al suo interno ben più di una traccia della loro poetica, mentre a cena o nei letti a fare l’amore hanno l’aria di pensare a tutt’altro. Basta leggere i diari di Zeichen ora in libreria (e si spera nelle case private) per rendersene conto: “Se solo volessi fingere / voli pindarici in poesia, / saprei anche simularli / ma preferisco parodiare / piuttosto che fare l’albatros. / La dispettosità è più connaturata / al mio spirito che non l’elegia…” Questo lui. E Gabriella Sica lo sa benissimo. Il suo giornale di bordo, reso pubblico per tratti quotidiani, non è indipendente dalla vita nello stesso istante in cui rifiuta di ammutolire, e mentre qualcosa si spezza in alcuni versi subito dopo il respiro ritorna forte e rivolgendosi al poeta perduto lo invita perentoriamente a fare qualcosa perché il filo fra i vivi e i morti trasporti ancora quel che rimane da dire.
……Del resto una combattente fra le rovine di Roma dove dovrebbe rivolgere le proprie solidità letterarie, se non a chi ha saputo farsi largo fra le convenzioni, minandole affinché l’arte esistesse là dove l’antica gloria, intaccata, crollava? Fare i conti con il popolo dei vivi e i suggelli di pietra del Verano è del tutto significativo per la storia della poesia, fintanto che le condizioni per una cena fra tre poeti restino scanzonate e interamente realistiche più che emblematiche. In fondo i caratteri sono simili, e capaci d’intenerirsi fra un mondo e l’altro. Montale irrideva, Zeichen inventava cene fredde, Sica è attenta ai dettagli. Roma è sempre divisa in tre parti per lei, mentre in quest’ultima opera prepara la tavola per una poesia mai vinta, né caricata di pesi gregari: conosce molto bene il lato nutriente che Zeichen capiva delle donne e delle forme poetiche fuori dagli epitaffi. La grande maestra non priva di futilità, proprio come la vita. Ecco, le poesie dell’ultimo libro di Gabriella Sica mostrano una forza, e spesso sono miliziane di un’epoca. Solo in vita si può discutere della morte.
……Il mezzo governato da Gabriella Sica è la combinazione stretta fra la lingua, fondamentale per seguire e inseguire il tempo, e l’esistenza nella corrente delle strade, degli eventi personali e sociali, sino a quella specie di celebrazione laica del convivio, della natura intorno, degli amori e della giovinezza. Questa sì sempre luminosa quando, selvatica e rumorosa, investe nella grande Città le sue speranze. Anche oggi, quando le parole incantevolmente sarcastiche di Zeichen e la sua alta figura si affacciano da questo libro teso, terso, esatto nella reciprocità che ancora sussiste fra le rovine di Roma.

 

Testi

 

Valentino al vetriolo

più che a Gozzano
dopo la Scuola di Francoforte
(come burbero scriveva il Paglia
pensando al minimale
per te valentinozeichen caro)
io ti somiglio al caustico Cardarelli
non so se più in dissidio con sé stesso
o con l’altro di turno
e più al bastian contrario Bernhard
sempre e per partito preso
Valentino coriaceo al vetriolo
stai nella tua area di rigore
gelida area di esodo corrusco
di esilio da persone e cose
dove giocando in contropiede
strappi reticente e predace pezzetti
d’anima ai poeti
impertinente pensando al massimale
e come un guanto lo rovesci
in punta di fioretto
nel tuo veemente duello mentale.

3 febbraio 2013

 

*

 

La baracca

È una leggenda la baracca a Roma
sta in un vicolo cieco sulla Flaminia
all’ombra di una collina di pini
nel cielo celeste alti intagliati
più sotto macchie gonfie di lecci
e mimose come in un bel quadro
la specola resiste all’assedio al tanto
ha un’economia infinitesimale
nel centro della città eterna
è una misera fragile frontiera
al confine della magnificenza
intorno parcheggi mercati studi
al sole brillano le lamiere sui tetti
in un giardinetto da poco recintato
su una logora sedia di legno
siede pensoso sul da farsi il poeta
lì coltiva una coppia di piante
un fico e una vite americana
tra steli di lillà penduli in trionfo
lì c’è una catasta di legna secca
che pare un’installazione
quando fa freddo e ha un’idea
spezza un tronchetto
lo infiamma nella fornace di Vulcano.

Sta nella sua officina il fabbro romano
crea e vende manufatti originali
di una lingua povera elementare
minima e assoluta poco melodiosa
dove il fulmine è radice e fine
inesorabile e sferzante fa nido
a un emblema a un segno.
Privo di tutto laconico operoso
fino all’ultimo respiro
non sta dove si può vivere una casa
vera lui non la vuole
quel poco cura solo il poco
esule come si sente con i suoi morti
ascolta qualche tortora che canta
mette un po’ di briciole sul davanzale
ravviva l’ingegno e il fuoco
prova qualche pianta a travasare
ma sono travasi di parole e versi
fa come suo padre il giardiniere
con gli altri suoi semi
tiene su le quattro ossa e la fornace
scolpisce un’opera concettuale
icastica della Casa del poeta
incarnata a Roma di tutta la vita.

2 maggio 2016

 

*

 

Figlia e madre

Marta

Oggi alla Galleria d’Arte Moderna
intorno a Valle Giulia
oggi Marta per un lapsus si trasforma
in una Marzia ancora più amata
la figlia biologa marina
alta dai liscilunghi capellineri
nell’aria fresca del maestrale
è la figlia di colpo ora più figlia
l’imprevista risorsa
l’intima beffarda salvezza
l’austero bel ricalco al femminile
di Valentino poeta bellicoso
bell’uomo alto scattante
figlio indomabile di Marte
padre segreto sornione e marziale.

6 maggio 2016

 

Ginevra

Così Ginevra ci dice che era
il suo Lancillotto d’onore
intorno alla baracca al Flaminio
elmo e lancia in resta
segreto il dardo dell’amore
lungamente arditamente:
“Sfuggente! Sì, era sfuggente!”.

 

*

 

Divisa è la città tra chi è giù e chi è su
in un tramonto d’agosto
da Piazza del Popolo cammino
verso Piazza della Marina
alla fermata del 19 aspetto ancora
vicina a casa tua e lontana
la terra è sospesa scura e vuota
nessuno passa
abitata dalla malinconia e vuota
(questo è il tuo e il mio mondo?)
la vita si congiunge al cielo romano
s’accende la chiara luce romana.
L’Eliso striato dilaga di prodigi e luce
si sprigiona in porpora e in rosso ocra
le frange grigie sontuose le sfilacciate
le violacee e le rosate
le trafitte dai raggi di un clamoroso bagliore.
Tu ci corri dentro negli alti reami
scruti la geografia di nuvole estrose
le spingi sotto sopra altrove
le traversi come piuma e soffi
non è più la città tra chi è giù e chi è su divisa
da principe quale sei ti fai il giusto
spazio nelle nuvole dorate
la grazia si è impigliata tra le tue dita
mentre appendi delizie e poesie
con gli angeli in soccorso.
E non smetti di tenere i piedi a terra
il poeta agguanta nuvole
(non ragionammo di questo insieme?
non era questo il nostro diletto?)
provi pesi per sbrogliare garbugli
ceselli l’aria bella e fuggitiva
inediti e beffardi gli andirivieni
spagini e scompagini l’Eliso beato
ti svaghi sposti veli
stendi il colore per velature
verghi righe di lettere luminose
scintillanti linee dell’infinito
è la mutevole nuova meraviglia
sonata per rugiada e per aria
nel fumo della sera trovi un varco
al miracolo apri uno squarcio.

6 agosto 2016

 

*

 

Verano

Al ritorno Roma è grigia e velata
ci si apre al Verano
dal viale si sale ultimo piano
Riquadro 67 Gruppo 2 Terza fila n. 7
c’è la primavera spezzata
e l’estate che ancora brucia
dolcemente brucia
nel nome del luogo dove stai ora
di più oggi nella tua piena di sole
lapide di Numidia in marmo giallo
e venature nere
con il girasole che brama la vita
tra il cielo a pezzi e i cipressi invano.
Ti porterò questa spiga di grano.

5 settembre 2016

 

*

 

                per Dino Ignani

Seduto al tavolo il poeta pensa
medita cosa può fare
bello elegante e magro
in una morbida comoda camicia
dispone di poco di molto poco
c’è la povertà vera delle parole
una truppa in fila ordinata
tre per quattro sono dodici
pomi verdi o forse d’oro
lì sul tavolo in assetto militare
ma i semi non sono più nelle mele
quello è il mondo finito
deve inventarne un altro nuovo
non può aspettare l’assedio l’attacco
verrà pure un’illuminazione
le sopracciglia folte e arcuate
pare che prema le dita sulla tempia
cosa può fare medita ancora
nel pensiero accigliato
nel dubbio della mente dubbiosa
in mano ha la tredicesima mela
da sbucciare mordere o lanciare
ha la mela a forma d’infinito.

25 settembre 2016

 

*

 

I sambuchi

Improvvisi a centinaia i sambuchi
profumati e fitti a maggio
tremanti macchie stellate e bianche
a centinaia sulla collina di Torino
passeggiando tra i muri e gli orti.
“Che bel fiore! Che cos’è?”
chiede Montale. Urla la Spaziani
quasi strozzata lei che ha
il finissimo olfatto del segugio
(un mestiere assicurato
diceva il padre alla giovane Spaziani).
“Stai scherzando? Sono sambuchi!
No! Non riconosci il profumo?
Quel tuo magnifico endecasillabo:
Alte tremano guglie di sambuchi”.
Stupito osserva il poeta:
“Ma la poesia si fa con le parole!”.
Con l’esperienza o le sole parole?
Tavolate discussioni controversie.

Valentino sta zitto, poi in un sospiro:
“No! Lei non capisce! Non ha capito
dopo cinquant’anni non ha capito
che lui scherzava e la prendeva in giro!”.

Ama Montale il sambuco dorato
umile tremulo il suo sussurro
slanciato nel cielo azzurro
il tocco di luce nell’alto inverno.

 

*

 

Tu io e Montale a cena

Non è un gioco questo di stasera
è un incontro a sorpresa
il più imprevedibile per noi due
tu io e Montale a cena.
Dall’aldilà fremente di piacere
canta per l’impensabile occasione:
“Tu mi invitasti a cena
il tuo dovere ora sai
ascoltami, verrai tu con me a cena”.
E dire che non ci si era mai pensato
prima qui da conoscenti appena
a un simile invito
certo è che noi e il convitato immortale
incallito scanzonatore
ci siamo rallegrati oltremodo
banchettando ilari noi tre insieme
al secolo nuovo brindando
come un niente lo snodo al Novecento
il rallentato addio
brindando a uno scorcio nuovo e bello
canticchiando la celebre aria
tra qualche bel venticello
con tanta carne al fuoco e un nodo.

 

*

 

Il poeta si stira la camicia
tra gli scalcinati muri
in giardino la luce primaverile
lui apprezza le camicie ben stirate
non ha una persona di servizio
né accondiscendenti fidanzate
fa sapere che è un poeta mondano
gradisce l’invito a cena
mirabile stratega
passa attento il ferro tra i bottoni
è come passare lo Stretto di Hormuz
irto e tempestoso
si possono alzare onde e grinze
spiana le pieghe
tra le asole bianche
dappertutto vicino intorno
vuole scamparla non la piega
non la ripone
a sera il poeta spiantato è pronto
con destrezza
a interpretare il personaggio
con una valigia di futili meraviglie.
No, non è un nullafacente il poeta.

 

*

 

Tu io e Pagliarani come un tempo

Non t’è passata certo di una cena
la voglia qui da me
ti piace la casa lo so e il quartiere
vivrai ora d’aria d’accordo
avrai altri pensieri
forse meno desideri conviviali
ci si poteva anche pensare per tempo
quando con agio si poteva è vero
farne una noi tre insieme di cena
potremmo ancora come un tempo
non conta quanto ne sia passato
salterà l’invitato di gioia
con nuovo bel fiato nel corpo
su su non sempre si muore
proviamo con la poesia proviamo
la dolce cena noi tre insieme
la cambiamo questa morte in vita
su su in alto i nostri cuori su più su
voi che ascoltate i bei respiri
degli amici felici e più che vivi
con noi vi prego rimanete con noi
beati gli invitati a questa cena
sognatori di una più bella mensa
tu io e Pagliarani come un tempo.

 

*

 

Enea

Anche tu sei dall’est in fiamme sceso
dall’Adriatico agitato
al Tirreno che gli scogli stanca
dal vecchio Oriente
al periglioso Occidente
per la pianura in là verso il Lazio
sei giunto fino a Roma
da una latitudine all’altra
ma ogni perdita commuove la mente
tu hai sepolto quel che era sparito
tutto era già stato
tutto da fare ancora
il passato e il presente nel futuro
ma ogni perdita commuove la mente
pio meraviglioso e sfrontato
lo scricchiolio delle scarpe a punta
in cuoio come quelle del padre
e la suola buona per camminare
camminare e sconfinare
epico il tuo puro andare
il vigore che ora commuove la mente.

 

*

 

Orgoglioso muto il volto mondano
maestro dell’antidolore
recidevi ogni compassione
il tuo sarcasmo glaciale
per il dolore esposto invano
dai poeti orfani come drappo rosso.
Come immaginare
tu che eri un “orfano perfetto”
libero e felice
in un gelo d’inesistenza
(madre il nome dell’amore perduto
quell’adorato nome inciso
come un sigillo sul cuore)
(madre affine alla bella città perduta
fatta d’aria luce e mare
e mai più ritrovata),
come si poteva immaginare
tu che non sei mai orfano di parole.
Alla fine d’istinto e a ritroso
tu adriatico e vissuto tirrenico
sei tornato in tempo a quel tempo
ai granelli di sabbia del tuo amato mare.

6 dicembre 2016

 

*

 

Zeichen a Finisterre

Ah, tornasse davanti ai miei occhi
ora la tua snella vivace figura
ma non puoi oh come lo so bene
non puoi qui tra noi più ritornare
e tante sono le mie prove vane.

La mia mente ora ti immagina vivo
in un lontano bar a Finisterre
come migrante al bordo dell’Europa
battuto dai venti furibondi
sei seduto a scrutare il vasto orizzonte
t’imperlano gocce di mare e pianto
distillati sacri del cuore
le mani reumatiche e nocchiute
stringono qualcosa
come una impenitente vedetta
di macerie della storia
alzata dal viso la celata
nelle orecchie i bombardieri in volo
e la gioventù come un fulmine di luce.

(Questi sono per me, mormori piano
sarcastico, hic amor, haec patria est?
Fatale per noi cercare terre straniere
oltre la linea dritta dell’orizzonte!).
La bufera non è ancora passata
ti spingi giù dove ti muove l’ardore
dov’è la Rocca bruna di Gibilterra
al limite umano della terra e oltre
in un confuso cupo brulichio
nel cupo lamento del mare
di onde e rocce
di tempeste e bonacce
il tempo è evaporato piano
la tua vela della mente va e va
come la penna che scrive
appesa al filo di un pensiero sommesso
scrive di un varco
al trapassare del limite
al tuo fatale tuffarti oltre più oltre
oltre il cielo la prima e le altre stelle
dove non sei mai stato
oltre il bianco foglio
oltre l’Atlantico che sfuma piano
nella memoria circolare del cosmo
orlato di celeste trifoglio.

 

*

 

Dialogo in sogno

– Mi pare come un sogno la poesia.
Stesso modo di predire il futuro.
Scrivere una poesia sulla tua figura
amica scomparsa agli occhi
e nella mia mente animata e viva
non è così diverso
dal sognare una figura d’aria.

– Il sogno è tuo anche se appaio io.
È un sosia onirico non sono io
e dico solo quello che tu ricordi
ma l’idea della cena con Montale
e pure con Pagliarani non è male!
È ora l’ora di un calmo arrivederci
pensami e guarda c’è là un intreccio
di spogli rami c’è in cima un bel nido.

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