Bacchelli
Il mio primo incontro con Bacchelli avvenne una sera d’estate, di quelle sere calde calde che non si respira, nella cucina dei miei zii, non saranno passati più di sette-otto anni, credo.
……I miei zii vivevano allora un periodo tempestoso della loro vita coniugale, più tempestoso del solito, diciamo.
Le urla che si lanciavano contro rimanevano a galleggiare per ore nell’aria del quartiere, un quartiere tutto sommato tranquillo, fino ad arrivare, nei momenti di massima concitazione, a scavalcare le mura dello stadio comunale che distava dalla casa non meno di cinque chilometri in linea d’aria.
Mio zio era senza lavoro da tempo e si era spiaggiato come un sirenetto sul divano a vedere talk show politici e programmi di cucina dai quali a poco a poco aveva mutuato uno spirito di rabelaisiana reazione. Mia zia andava avanti e indietro tra lavori di pulizia in nero e assegni di disoccupazione minimali. Ce n’era per far scoppiare una guerra. Bastava lo scricchiolio di una sedia, il frizzare di una lampadina, lo sportello del frigorifero chiuso male e veniva via tutto il casamento.
Alle avversità della loro esistenza opponevano i coltelli che avevano affilato nel corso dei numerosi anni di matrimonio. Un’inesauribile inventiva per le maledizioni e una coriacea presunzione che li portava a pontificare su tutti gli argomenti disponibili a entrare nella loro cucina. Qui, i mobili, un po’ scollati e gonfi, andavano come ad aprire, in fondo alla stanza, vicino alla grande televisione, una porta-finestra che dava a sua volta su un piccolo orto messo a pomodori, perché, come ho detto, era estate e mio zio si dilettava a piantare canne e ortaggi su cui poi, se i pomodori non torreggiavano a dovere, faceva salire spirali di bestemmie d’ogni tipo secernendo ad ogni apertura di bocca un filo di bile diretto verso il cielo. Ma era solo uno sfogo, si sa, perché il cielo, così azzurrino e lontano, negli ultimi tempi sempre più californiano, in fin dei conti, che c’entrava con i pomodori?
……Quella sera che feci conoscenza con Bacchelli, io e lo zio eravamo seduti sul divano, lui a petto nudo con un ruggente ciuffo di pelo brizzolato in bella mostra come un leone in un documentario, io con la polo d’ordinanza e i pantaloncini corti. Mia zia stava seduta al tavolo, con un piede involato verso le cibarie da offrire (che in quell’occasione era una bella coppa di gelato al fior di latte con le fragole vere – la mia accoppiata preferita) e con l’altro pronto a calpestarmi se mi fossi permesso di difendere Bacchelli, personaggio richiamato allora allora dall’oltretomba presumo a sproposito dallo zio che lo aveva sentito nominare poche ore prime in tv, chissà da quale megera.
D’altronde, non era una novità che scivolassimo a parlare di malcostume. Da sempre, quando passavo a trovarli, si parlava di fatti di dominio pubblico. In quei casi, mio zio era spassoso… a modo suo, ma era spassoso.
Una volta fu quasi sul punto di colpirmi al volto con un manrovescio solo perché gli avevo detto che per evitare che i parlamentari rubassero dovevamo accordargli uno stipendio doppio, se non triplo, rispetto a quello corrente che mi pareva abbastanza misero.
Era troppo.
“Ma sì sì – cominciò a urlare – dopo tutto quello che si so’ magnati, e le diarie e i voli di Stato e le auto blu e i porcodio e le porca madonna… una manica di ladroni… stanno tutti là a dire: a me! a me! a me! dopo tutto questo mò gli dobbiamo pure triplicare lo stipendio! ma sì ma sì! Triplichiamo! è giusto così! voi intellettuali gli date pure raggione! Belli gli intellettuali nostri! Pappa e ciccia con il potere! Ma quanto è bravo mio nipote poi!… Ma mò te lo do uno… mo se ne viene, mo se ne viene” e stava quasi per schiaffeggiarmi quando, ripreso da non so quale forza, fece dietrofront, uscendo repentino fuori a fumarsi una MS.
“Fammi uscire vah! Sennò ti devo mettere mano”.
Gli stava per scoppiare il cuore, povero zio mio.
Ma, pure in questo caso, non c’era da stupirsi. Come tutti i buoni comunisti di ferro dei tempi che furono, negli anni delle post-ideologie si era pesantemente annerito. Bastava toccare pure solo vagamente un argomento di matrice politica progressista che partiva. Carbonizzandosi sul posto.
Un argomento che lo mandava in bestia era proprio la legge intestata al signor Riccardo Bacchelli.
……La legge Bacchelli mi pare sia una di quelle poche leggi rimaste impresse nella memoria degli italiani, un po’ come la legge Merlin, la Bossi-Fini o la Basaglia.
È una legge del lontano 1985, governo Craxi 1, a firma Cossiga, che prevede l’assegnazione di un vitalizio ai cittadini illustri caduti in stato di miseria.
La legge Bacchelli mandava in bestia pure mia zia che dopo una vita a fare le faccende a casa degli altri e in albergo o a spiumare polli o surgelare merluzzi in fabbrica, non ne voleva sapere di artisti scialacquatori che avevano perso delle fortune gigantesche (prima fra tutte, sosteneva lei, quella di fare arte – ma sarà proprio una fortuna?), riducendosi alla canna del gas per i vizi che non avevano saputo anche solo contenere: “Ah, ti sei fatto i cazzi tuoi tutta la vita… hai sperperato a tuo piacimento… vizi, donne, la dddroga, l’alcol, ville e via discorrendo e mò vieni a chiedere i soldi allo Stato? Che fa, ti devo pagare io che ho sempre lavorato? Ennò, bello mio! Ennò! Vai a fare le scarpe pure tu, prego! Ci stanno le scale da pulire! Accomodati! Ti fai il culo e campi come tutti! Sei un artista? E ‘sti cazzi! Ci dovevi pensare prima…”.
E dopo questo, attaccavano con la favola pedagogica della cicala e della formica che non ho mai sopportato da fanciullo, figuriamoci mo da uomo (s)fatto. Che poi, mi sarebbe piaciuto dire, anche quella favola col tempo era cambiata, e secondo un autore moderno ora faceva così:
Rivoluzione
……Ho visto una formica
……in un giorno freddo e triste
……donare alla cicala
……metà delle sue provviste.
……Tutto cambia: le nuvole,
……le favole, le persone…..
……La formica si fa generosa…..
……E’ una rivoluzione.
……Quella sera, con una scusa, presi e me ne andai, lasciando a metà perfino la coppa fior di latte e fragole. La mia accoppiata preferita.
***
……La seconda volta che sentii parlare della legge Bacchelli fu a casa nostra.
Non è passato molto tempo.
Era uscita da poco una bella intervista nella quale l’attore Flavio Bucci, con quel volto incredibile da morto svivente, aveva detto che si era mangiato tutti i soldi in cocaina e puttane.
Mio fratello l’ingegnere non so se avesse letto l’intervista, ma ne dubito, così come credo non sapesse nulla di Flavio Bucci.
Sapeva dell’intervista il cugino di mio padre, quello che veniva ogni tanto a casa per trovare mio nonno. Il cugino di mio padre appena arrivava, cancello aperto e tutto, parcheggiava la macchina nello spiazzo fuori casa, scendeva, faceva i suoi slalom portentosi tra gatti e cani, si portava quindi veloce alla porta, entrava appena appena da mettere il naso dentro e urlava: “Seligneriiiiii!”, un po’ come un apache prima di assaltare qualche fortino federale. Per lui era un orgoglio portare quel cognome e ne menava vanto con tutti, come se ce l’avesse solo lui, un cognome. Ogni anno, poco prima di Natale, probabilmente per avere del nuovo materiale di cui discutere durante le visite ai parenti nelle settimane dopo, si metteva a fare le ricerche genealogiche. Andava avanti fino a giungere puntualmente allo stesso punto degli anni precedenti, ovvero all’epoca napoleonica, quando un’alluvione aveva annacquato gli archivi comunali e chi si è visto si è visto.
“Veniamo tutti da una femmina – diceva sospirando – una ricca proprietaria terriera che aveva sposato ‘nu bastard’ che stava in collegio. Mi sa uno che veniva da fuori. Uno slavo!”.
Seligneriiiii!
……Quando arrivava, mio fratello correva ad accoglierlo, come alla fin fine accoglieva anche tutti gli altri. Era sempre lui l’accogliente di casa. Mio fratello è quello che tiene di più a mantenere i rapporti con i nostri parenti, che rimbrotta me e mia sorella per le nostre mancanze sociali, che ci sprona a essere più larghi di sorriso e più puntuali. Serio e disciplinato, vive la sua vita incuneandosi tra strettoie di ogni tipo, facendosi delle volte più lungo, delle volte più largo, disegnando e inseguendo accanitamente delle geometrie perfette dentro le cui linee prova a tenere in piedi un po’ di tutto: amore, affetto, devozione, ammirazione, doveri. È un tipo socievole, che sa stare al mondo, sa stare “in commercio”, come soleva dire la nonna poetessa. Sa che il mondo è un posto faticosissimo dove vivere ma ne affronta i disagi di petto. Sa pure che ci sono tante e tante regole non scritte che si fa fatica anche solo a leggerle (ché per forza, non sono scritte), ma se poco poco hai imparato a decifrarne qualcuna, ti rendi conto che non sono regole difficili: sono sfiancanti, ma non difficili. Per questo motivo, se ne rispetti anche solo la metà sei abbastanza in regola. Non rispettarne nemmeno una, però, espone a dei seri rischi, il primo dei quali (da cui poi a cascata tutti gli altri) è beccarti la nomea di sciancato sociale, disadattato, inaffidabile, squilibrato – sembrano dirti: “Basta così poco… tu non fai nemmeno quello… ‘zzo vai trovando”. E niente, che vai trovando? forse solo un po’ di pace.
……E niente, poco dopo, visto che il cugino di mio padre era uno dei pochi parenti che trovassi simpatico, uscivo pure io e ci mettevamo tutti a dire qualcosa sui melmosi argomenti del giorno, sorseggiando il pessimo caffè alla moca di mio fratello.
Il cugino di mio padre aveva sempre un occhio sull’attualità perché ogni mattina si faceva la rassegna stampa dal giornalaio, e non gli era sfuggita la sparata di Bucci.
Bucci non aveva mica preteso di avere soldi dallo Stato per continuare a condurre la sua vita libera e amareggiata, solo che essendo artista… il cugino di mio padre, subodorando che quello poteva essere il primo scalino verso l’impietosimento generale per richiedere poi il sussidio, cominciò pure lui a dire peste e corna della legge Bacchelli.
Io zitto, non mi esprimevo. Facevo avanti e indietro con gli occhi, ripensando a Bucci nei panni del dottor Ingravallo o accerchiato dal boia sopra al patibolo mentre pronunciava quel memorabile discorso ai romani e sottosotto agli italiani impersonando il prete eretico Don Bastiano.
“Io sono stato consacrato prete e prete rimango fino alla morte… e voi massa di pecoroni invigliacchiti, sempre pronti a inginocchiarvi, a chinare la testa davanti ai potenti! Adesso inginocchiatevi, e chinate la testa davanti a uno che la testa non l’ha chinata mai, se non davanti a questo strummolo qua [la ghigliottina]!
Inginocchiatevi, forza! E fatevi il segno della croce! E ricordatevi che pure Nostro Signore Gesù Cristo è morto da infame, sul patibolo, che è diventato poi il simbolo della redenzione! Inginocchiatevi, tutti quanti! E segnatevi, avanti! E adesso pure io posso perdonare a chi mi ha fatto male.
In primis, al Papa, che si crede il padrone del Cielo.
In secundis, a Napulione, che si crede il padrone della Terra.
E per ultimo al boia, qua, che si crede il padrone della Morte.
Ma soprattutto, posso perdonare a voi, figli miei, che non siete padroni di un cazzo!
E adesso, boia, mandami pure all’altro mondo, da quel Dio Onnipotente, Lui sì padrone del Cielo e della Terra, al quale – al posto dell’altra guancia – io porgo… tutta la capoccia!”.
……Mio fratello, più concreto, dava retta al cugino di mio padre, ché in cantiere ci vogliono le palle quadrate, sosteneva, no le cicalate degli artisti.
Mio nonno, ormai decrepito sulla sedia a rotelle, ogni tanto se ne usciva con un “ehhhhh” di indecifrabile orientamento, ma secondo me, se ho capito qualcosa dei tanti anni che ho vissuto con lui, mio nonno era a favore della legge Bacchelli… tanto, per lui, i soldi, tira e molla, molla e tira, erano tutti indistintamente del governo. E il governo faceva come cazzo gli pareva. E allora per quello che valeva, andava bene pure la Legge Bacchelli. Perché no?
Ehhhhhhhhhh.
***
……La notte dopo l’intervista di Bucci, feci un sogno. Ero un artista. Uno scrittore.
Ad un certo punto avevo iniziato a guadagnare molto, soprattutto grazie a un libro sulla mia famiglia, da cui era stato tratto un film straordinario, se non erro di Sorrentino o dei fratelli Piva – forse era un film talmente straordinario che i fratelli Piva si erano uniti a Sorrentino. Pure il cast degli attori era un cast straordinario con Flavio Bucci nei panni miei e altri attori incredibili tornati in vita solo per fare il film sul mio romanzo: Alida Valli, Ugo Tognazzi, Carlo Monni, Peter Falk, Franco Citti e la splendida Mariangela Melato – era tornato pure Massimo Troisi ma avevo preferito farlo stare assieme a me, dietro al regista, per scherzare, ridere e ragionare tra di noi.
Nel sogno ricordo che portavo a casa delle valigiate di soldi, cioè proprio delle valige con dentro i soldi, ma di quei soldi come ce n’erano in Italia dopo la guerra, che c’erano delle banconote di grosso taglio, grandi come dei fogli A4. Ma forse più grandi ancora, del perimetro di un tavolo da pranzo. E infatti ricordo che una banconota la dovevo ripiegare in tre, in quattro e non finivo mai di arrotolarle.
Siccome avevo fatto quei soldi sfruttando la mia famiglia e le sue impareggiabili risorse, tutti i parenti menzionati nel libro o che nel libro (ma penso avessero visto solo il film) si erano riconosciuti, vennero da me a bussare a denari, che ormai non abitavo più in Abruzzi ma nelle grandi capitali europee, e vollero che dividessi con loro una parte dei proventi (più il rimborso spese per il viaggio). Avevano ragione in fin dei conti. Non fosse stato per loro, che cosa avrei scritto? Anche mio zio e mia zia, approfittando di una mia vacanzina a Roma, presero la macchina e vennero a reclamare la loro quota. A tutti diedi una bella fetta dei miei proventi. Mi sentivo a posto con la coscienza, mi sentivo di essere nel giusto. Tuttavia, non bastava. I parenti tornavano. A rotazione. C’era la fila. Era come un’estorsione. Questa storia andò avanti finché non realizzai che ero un fesso totale, che dovevo ribellarmi e non gli diedi più niente. A quel punto, però, ero già rimasto con il culo per terra.
Provai a scrivere altre cose ma ormai la mia famiglia era spompata. Molti dei miei famigliari, raggiunto il benessere grazie a me, non erano più interessanti come prima. Io stesso, vestito bene, firmato, con il cellulare nuovo, le copertine dei settimanali, le donne così attorno, i vassoi pieni, mi sentivo di non avere più nulla da dire. Finii male. In breve, persi le case. Persi gli amici. Tornai in Abruzzi.
In Abruzzi mi vedevano tutti male.
Una mattina, il sogno si faceva meno nitido, presi i miei stracci e andai all’ufficio postale. Nel sogno si capisce che sto per andare a imbucare la richiesta per usufruire della legge Bacchelli.
Quando sono a un passo dall’impostazione, ecco che le mani della zia, dello zio, del cugino di mio padre e di mio fratello mi prendono e mi lanciano in mezzo alla strada. Hai voglia mio nonno a urlare “Ehhhhheheeheheheeeeeeeehh”. L’unico dalla mia parte era paralizzato da anni sulla sedia a rotelle!
I miei parenti presero la richiesta e la fecero in mille pezzi.
Non c’era niente da fare: volevano tutti disperatamente che soffrissi!… L’arte continuava a perseguitarmi.