Tempo fa ho dedicato uno scritto a Jorge Luis Borges, Ferdinando Scianna e Leonardo Sciascia; oggi, per ricordare lo scrittore di Racalmuto, ne ripropongo un estratto.
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Può darsi che Jorge Luis Borges sia un riflesso della nostra immaginazione; noi lettori il riflesso della sua.
Ferdinando Scianna fotografa lo scrittore seduto dietro la vetrata (o ivi riflesso?) – lo accoglie Palermo, città visionaria. Borges è, in quel momento, un’invenzione della mente. E una sorta di nume tutelare per chiunque ami il piacere della divagazione e dell’immaginazione.
Sciascia, nell’ultimo saggio di Cronachette (Palermo, Sellerio, 1985), discute con leggiadra ironia proprio il tema dell’inesistenza di Borges, confutando l’ipotesi avanzata a fini sensazionalistici da una rivista argentina, secondo la quale Borges non esista, ma sia invenzione di un gruppo di scrittori e l’uomo chiamato Borges un attore pagato per interpretare quel ruolo (un certo Aquiles Scatamacchia – “Achille Scatamacchia: che nome da commedia dell’arte!” commenta lo stesso Sciascia). Lo scrittore di Racalmuto sottolinea il carattere così profondamente “borgesiano” dell’ipotesi: “La notizia dell’inesistenza di Borges è una invenzione che sta nell’ordine delle invenzioni di Borges, un portato e un completamento dell’universo borgesiano, il punto di saldatura della circolarità borgesiana, del sistema” (op. cit. pag. 84).
Sciascia incontra e intervista Borges a Roma nell’estate del 1980 e solletica l’immaginazione di noi lettori l’interesse dello scrittore siciliano per il collega argentino – si tratta di due scrittori apparentemente lontani che, però, trovano molti punti di convergenza, non ultimo l’uso della scrittura quale grimaldello per scardinare i punti in cui la realtà sembra oscura, indecifrabile, enigmatica o proprio per, dentro quell’enigmaticità e indecifrabilità, addentrarsi.
La Sicilia (come tutte le terre mediterranee) in apparente paradosso è, sotto la luce abbagliante e totalizzante, luogo in cui l’enigma e il mistero s’offre all’indagine della mente e della scrittura. E va a Sciascia il merito di aver capito tra i primi che il cosiddetto “romanzo giallo” o “poliziesco” poteva compiere un salto da letteratura di genere a genere letterario capace d’indagare e descrivere proprio gli aspetti oscuri e caotici del reale. L’interesse per il genere era condiviso da Borges e dal grande amico di questi, Bioy Adolfo Casares.
“Qualche anno fa ho definito Borges un teologo ateo. È da aggiungere che è un teologo che ha fatto confluire la teologia nell’estetica, che nel problema estetico ha assorbito e consumato il problema teologico, che ha fatto diventare il “discorso su Dio” un “discorso sulla letteratura”. Non Dio ha creato il mondo, ma sono i libri che lo creano. E la creazione è in atto: in magma, in caos. Tutti i libri vanno verso “il” libro: l’unico, l’assoluto. (…) Un libro non è che la somma dei punti di vista sul libro, delle interpretazioni. La somma dei libri, comprensiva di quei punti di vista, di quelle interpretazioni, sarà il libro” (Cronachette, op. cit., pagg. 86 e 87).
E davanti allo sguardo di Scianna c’è spesso Leonardo Sciascia: nella Chiesa “Matrice” di Racalmuto, per esempio, il Cristo morto alle sue spalle e due bimbe del popolo davanti a lui. Oppure Leonardo Sciascia che spilla il vino dalla botte: non mi stanco mai di guardare questa foto perché lì c’è tutto il senso dello scrivere e del riconoscersi appartenente a una determinata civiltà. Le radici contadine generano uno scrittore perfettamente consapevole della modernità (industriale e prevalentemente urbana) cui egli pure appartiene; la bellezza e l’emozione risiedono anche nell’atto fisico, concreto, di spillare il vino, così come di scrivere o di passeggiare – Sciascia si ritira a scrivere in una stanza di monacale eleganza nella casa in contrada “La Noce”: da lì l’Europa è vicinissima, presente, dialogante.
Ma che sia lo studio di Elvira Sellerio in Via Siracusa a Palermo, la tavola imbandita con gli amici attorno o le seggiole di ferro in giardino insieme con Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo, e i tre che ridono a crepapelle, sempre c’è questo stare con gli altri, questo cercare gli altri e quest’arguzia nello sguardo.
Chinarsi a spillare il vino dalla botte, probabilmente per offrirlo agli ospiti – Sciascia, si sa, amava cucinare per i propri ospiti e in quest’atto c’è tutto il senso di un prendersi cura e di un ospitare che affonda le proprie radici nella cultura più antica del Mediterraneo. E, similmente, mi vien fatto di pensare, faceva con i libri altrui quando scriveva quei suoi inarrivabili risvolti di copertina o sceglieva (con cura, appunto) le illustrazioni (era un sapiente amateur d’estampes, tra l’altro).
Stare a tavola a conversare: con-versare, cioè andare e venire, muoversi col e nel discorso.
(E, sempre a Palermo, c’è un luogo di fascinazione tra i tanti sparsi nell’Isola: amo immaginare Leonardo Sciascia concedersi un’ora d’ozio tra i viali dell’Orto Botanico, la sua Benson tra le dita, ripercorrere quegli spazi che gli avranno ricordato anche le Tuileries – era stato l’architetto francese Léon Dufourny, rivoluzionario e repubblicano, a progettare i tre edifici all’ingresso dell’Orto e la porzione cosiddetta linneana dell’Orto stesso, esercitando così nella Palermo in cui da poco era stata abolita l’Inquisizione i princìpi anche costruttivi e architettonici dell’Illuminismo; questo po’ di Francia nella capitale della Sicilia avrà portato lo scrittore a passeggiare rimuginando sui prediletti Voltaire e Diderot ed egli, davanti alla meravigliante ficus magnoloides, avrà considerato la compresenza, in questa terra mediterranea, dell’esuberanza di una natura mai arresa e di un accecamento perpetrato contro la razionalità – el sueño de la razón – ma la Serra Carolina, così elegante, luminosa e nel contempo dedicata alla ricerca scientifica, testimonia d’un luogo in cui la ragione s’ostina a difendere e ampliare i luoghi di conoscenza).
Claude Ambroise era l’apprezzatissimo traduttore francese delle opere di Sciascia, amico personale dello scrittore e del fotografo; Scianna li riprende assieme a Parigi mentre risalgono dal livello della Senna verso il quai – la Francia e la Spagna, luoghi d’elezione, Parigi, capitale interiore. Lì cercare i Maestri grazie ai quali coltivare la passione dell’intelligenza, della speculazione.
Sempre corre, tra lo sguardo di Scianna che fotografa e Sciascia che viene fotografato, corrente d’amicizia. E sempre altre persone, altri luoghi: Francesco Rosi e Leonardo Sciascia bevono un espresso in un bar di Napoli, poi escono in strada a continuare la loro infervorata discussione.
Molte volte Scianna fotografa Sciascia per strada, in movimento, anche quando lo scrittore, minato dalla malattia, dovrà appoggiarsi al bastone – e sarà ancora un ostinato itinerario attraverso la scrittura, ma anche attraverso il dolore personale e un amore pervicace alla vita.
Sciascia è stato una ri•scoperta per me. Grazie per questo post.
Bellissime queste storie che si intrecciano nell’alveo della letteratura e nell’arte in generale.
Scrittura e fotografia “parlano” la stessa lingua, raccontano letteralmente e visivamente il quotidiano, fermano l’attimo.
Il particolare (la foto) e l’universale (lo scritto)…s’incontrano e conversano
…che bella storia