Riflessi (sette inediti di Gianluca D’Andrea)

Ho l’impressione che, con la coerenza che ne contraddistingue la scrittura, Gianluca D’Andrea stia cercando di andare oltre la cronaca e oltre la storia (presenti e affrontati in maniera convincente in tutti i suoi libri più recenti) per approdare a una visione capace di fondare e, in qualche modo, spiegare il presente e il contingente: il ductus poetico rimane quello di Transito all’ombra (Milano, Marcos y Marcos, 2016), sempre saldo e affidato a una sintassi articolata e sorvegliatissima perché D’Andrea mai ha perso la fiducia nella capacità raziocinante della mente e sempre ha cercato nel linguaggio quegli strumenti capaci di dire con lucidità – le questioni di riferimento possono essere rintracciate, humus fertile, in Postille (Forlì, L’Arcolaio, 2017) e in Forme del tempo (Osimo, Arcipelago Itaca Edizioni, 2019).


Per eliminare allora il rischio del cronachismo e del facile riferimento all’attualità, tenendo ferma l’esigenza e la volontà di non evadere in eteree regioni per anime belle e delicate, determinato a dire fratture, conflitti, catastrofi, l’autore di questi inediti compone testi che paiono porsi in un tempo oltre il tempo del nostro presente comune per attingere a una mitologia sì, ma oscura, non fondativa né tanto meno eroica, capace bensì di spiegare le catastrofi contemporanee vedendone come in trasparenza ingranaggi e attuazioni, moventi e delittuoso farsi.
Significativo è allora che proprio il capostipite mitico dei poeti, Orfeo, nulla o ben poco abbia a che fare con l’Orpheus (malgrado il nome alla latina) di D’Andrea il quale ultimo non ricorre all’ironia o alla parodia come potrebbe accadere (ed è accaduto) di fare a molti poeti degli ultimi decenni, ma fa di Orfeo un viandante tutto avvinghiato a una terrestrità che, se non garantisce il trionfo sulla morte o il suo superamento, lo spinge a continuare ad andare e a porgere orecchio ai richiami, ai sussurri, alle piccole voci che abitano la terra.
L’Africa e la navigazione, ma anche un sentore di apocalisse avvenuta, il colore bianco, muri fessurati e detriti costituiscono così non i simboli o le metafore, ma le presenze concrete di quanto lo sguardo fermo di una lingua poetica asciutta e chiara vede addentrandosi in un paesaggio che è, contemporaneamente, il nostro presente e sta al di là del nostro presente, unendo nella scansione del verso il ritmo dei suoni e lo scandaglio conoscitivo.

 

 

 

Da una mitologia oscura

In sospensione sulla radura
evitavamo le biglie di sterco,
dopo aver rifiatato si apriva
un orizzonte e una caduta.
– “Al forte, al forte!”, per finire
d’immaginare l’ultimo giorno
e la sua scomparsa prima
del ritorno ai nostri rifugi,
uno accanto all’altro
sentendoci insieme nel desiderio
di dire la nostra visione.
Il mito senza fuoco
che esorcizza la paura
rifluisce nell’aneddoto
e nella contingenza della storia
comune e abnorme
degli eventi immaginati.

 

 

 

Orpheus

I suoi sensi erano divisi
come se i passi non fossero usciti
dal sentiero. Continuando a strisciare
sotto un cielo di pioggia, con le mani
sottili, si voltò infine e vide
la radice. Tra i passi annacquati
sentì come una piccola voce,
un sussurro, un reclamo. Reclamava
la radice, un fuoco, il calore
perché tutta l’acqua sussurrava
………………………………………………………..Chi?
E lui si voltò nello scatto rappreso
e accolse i rami silenziosi, i frassini
spogli e sparsi sugli argini. Il vento
lo spingeva lontano, dove i passi
divisi si separarono fatalmente
dal sentiero, sotto un cielo di pioggia
senza stelle.

 

 

 

Riflesso

Avremmo affrontato la navigazione,
l’acqua alta e le ondulazioni,
per questo ci adagiammo sullo scafo
a faccia in su a guardare la raggiera
inconsistente delle stelle, con le caviglie
su battagliole inconsistenti e lievi,
distanti e bravi a cadere nell’occhio
uragano dei like. E tutto questo
niente sarà tuo finalmente, mia rovina
che sorgi e ti spoltrisci e fili
scivolando fuori scia a nuovi scogli,
t’incagli e sciupi finché scroscia
un necessario approdo, un rifugio.
A quell’angoscia che sale un pertugio
al derelitto che perde il relitto
l’ausilio tiepido e il troppo calore
che appiccica il sudore come cera
e trasforma i lineamenti, i colori
nostri e altrui in un mare surriscaldato.
Sul mascone intanto nulla, il rollio
fa intuire impossibile un approdo
se non la vasca intima e schermata
che mutò la nostra gente mutata
nella mente che non fu mai vista.
E dagli schermi tralucono stelle
che scrollano secoli come onde
che cadono su noi distesi. Quando
rimbalzarono sul ponte gli odori
fummo investiti dal fiato del mare
aperto, dimentico dei nomi
e del cammino, dall’area magnetica
del cielo chiusa sopra noi, reclusa.

 

 

 

Trasfigurazione

Un tremolio di troppa luce tutto
rende vago, ma la vita è completa
se abbraccia gli spettri, se la speranza
è una ghirlanda notturna di semi.

Nei giorni lunari i muri agonizzano,
le pietre cadono, restare sospesi
è difficile. Cosa dovrebbe esserci
di sacro sul dirupo sciolta l’illusione?

Alcune raffiche decompongono i muri
che sputano veleno da un cantuccio
del deserto. Splendori e requie del vento
s’impongono fiammeggiando nella notte bianca.

 

 

 

Françafrique/Apocalisse adesso

Crateri nell’asfalto a metà strada
mentre nasce il silenzio tra Gao
e Timbuctù l’immagine del mondo
ha un aspetto funereo. Le rane
nascono dalla terra, le mine
nascono nella terra, ma non vidi
il Niger, sembrava un villaggio annegato
in campi sterminati d’immondizia
e coltan. I bambini crescono bene,
seminudi ma bene e cenciosi
come animali bicefali, una testa
piena di niente, l’altra di tecnica
e desiderosa di una doppia natura.
Nube di polvere e sterpi, mondo
mandragora, uomini-albero, bambini
pietra, mostri di Bungoma
i liberatori in autoblinde
d’epidermide nera brillante
densa, avorio ed ebano, un’avanguardia
che ha disintegrato la periferia,
il margine più o meno esposto
di una difformità che ha già abbracciato
il centro. Eppure l’ira di uomini
sabbia, ircocervi, enti invisibili
si affaccia esile come una betulla
dal territorio bestiale, da un’era
di attesa furiosa, schiava, moribonda.

 

 

 

Chi osservava

C’era chi osservava con sconforto
la natura pietrificata.
La vita nel deserto
(Africa campo di battaglia)
una percezione fratturata
di raggi espansi che esasperavano
lo sguardo, raggi incandescenti
che sfumavano e cancellavano
erba, alberi, muri. Raggi smorti
che increspavano l’alba al tintinno
di un vento smorto. L’aria
vacillante che s’insinuava
nei cunicoli come vena
nella sua dissoluzione.
Infine il respiro, messaggero
di un mondo immiserito
in cui tutto rinasceva ma come
un lamento o una radice,
un mondo distrutto in cui rimanevano
monti e fiori e detriti corrosi.
Chi osservava sapeva che qualcosa
era e poteva non essere più.

 

 

 

Ombra. Parabola

………………………………il tempo questa droga genetica
……………………………………………Durs Grünbein

Prima si erano avuti prodigi
anelli e incroci
uomini a testa bassa
il selciato colpito da un sole basso.
Attorno a noi cose di cui non dico
anche se a una luce alzai lo sguardo,
il bianco pesante dell’aria
si tramutò in piccole catastrofi
nel susseguirsi degli anni.
Chi rimaneva guardò gli occhi del compagno,
e trovava allegro restare sulla linea
orizzontale della perdita.
Ancora adesso continuo a guardare in alto,
come assuefatto alla scomparsa delle ore,
in un tempo che scandisce
sguardi e ricordi.

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