nutrica

Elio Grasso

Nota di lettura a:
Daìta Martinez
nutrica
Faloppio (CO), Lietocolle, 2019

Ampio e fecondo lavoro in quest’ultimo libro di Daìta Martinez, dopo aver dato alle stampe alcune plaquette lungo i recenti anni fatti di ricerca e letture rivelate, letture che le hanno concepito una prospettiva più ampia. Le fonti sono state molte. I destini, ascoltati dopo l’inarrestabile perseveranza, ancora di più. Prose e poesie nutrici, giunte dal vasto mondo della mente umana: dove la scrittura affonda nella psiche, vi si arrotola fino a smascherarne le recondite pieghe. Inutile, dunque, sciogliere le vischiosità metafisiche. Chi l’ha fatto, in passato, si è solamente appagato di qualche euforia. Poi più nulla.
A nutrica importa del resto del mondo, quello che le sta attorno, almeno quanto la Bibbia sconvolge gli usuali termini terrestri. I versi al suo interno, presi come un teatro, s’incuneano nelle esistenze, e si sa quanto il teatro della parola abbia spinto su rotte tanto vitali quanto rischiose. Tuttora lo fa, in certe regioni sconosciute ai più. Ma qualcuno s’interroga ancora. Fra l’esistente e la speranza di un futuro migliore. Fra questi, Daìta fonda e fionda la propria ricerca restando ferma nella sua isola, la Sicilia, non casualmente limitrofa ai territori dove un tempo la civiltà ha trovato la culla. E dove mistici e profeti hanno camminato, parlato, e avvisato chi stava loro intorno. Poi tutto è sbiadito. L’isola per secoli si è addormentata. Ma c’era chi riavvolgeva il nastro, senza farsi turbare dalle sciocchezze digitali.
Versi? Non proprio, almeno non soltanto. Se mai partiture posate a terra come sassi da un’autrice ideologicamente stretta al suo credo, al suo vivere negli antri della città, nei vicoli stretti che energicamente resistono insieme alla loro figlia. Nessun filtro che s’illuda di correggere la realtà, la sua crudezza. Vi sono mammelle capaci di nutrire in mezzo al deserto, anche se la sete risulta l’unica voluttà ancora concessa. Il senso della sete, in quei luoghi, è identico al senso del ristoro. Pudore e corpi necessari, impulsivi, si affrettano a parlare dentro questo libro, pieno di durissima realtà, e sostanza vocale emessa in molteplici toni e volumi. Martinez lega il suo dire, il senso da lei rincorso e agguantato, alla materia in cui vive, alle persone amate e a tutto ciò che sia capace di offrire parola. L’offerta fa sopravvivere, soprattutto nei tempi bui. Forse per la prima volta nelle pagine dell’autrice ritroviamo una condizione sensuale più vivida. Potrebbe trattarsi di una prospettiva ulteriore, una visione di competenza ereditata finalmente da un passato ambizioso, pur nei fatti luttuosi che ci sono giunti attraverso gli antichi scritti. Il corpo attuale diventa ripetibile nell’accadimento poetico.
I corpi nella Bibbia hanno così tanta presenza, e rilevanza, che perfino l’entità divina ha dovuto ritrovarsi nella corporeità nel Cristo. E dunque, perché non pensare a questo remoto statuto nell’ambito della ricerca proposta da nutrica? Può sembrare strano offrirsi all’esperienza poetica in modo perfino irriverente, ma una poesia così concreta deve per forza aspirare a classici che disorientino, non addomesticati perché creduti merce non fruibile, o lontana, o dispersa nelle sabbie del deserto.
Per altre sabbie, non troppo diverse, Martinez è giunta fin qui, dalla sua Palermo “yemenita”, facendo tesoro di una radicalità congenita, e di un carattere opposto e discorde. A chi o cosa è facile capirlo. Ma ci sono spazi di tenerezza anche in un libro come nutrica: si sente il respiro della madre, della madre bella e concreta, della madre dolorosa che non è certo avversaria della poesia. È in questi spazi ad aprirsi la città, e al suo interno la casa nutriente e da sempre culla. Lì dentro sta il gesto instancabile, il dialetto originario che spesso emerge e rende più aguzza la lingua. Già, la lingua: fuori dal pregiudizio e dalle false tregue goffamente rincorse oggi.
Il sud non è mai sguarnito nei libri di Martinez, il sud parla per sé e sa sempre come trovare figli adeguati e robusti. Nessuna smania d’originalità attraversa nutrica, ancor meno rispetto ai precedenti libri. Dicevamo: in un luogo di burrasca, venti, fughe, amori eroici e cibi dirompenti, la lingua di Martinez niente ha più del distacco passato, ma la folle ed esplosiva competenza dell’anima biblica immersa nella complicata situazione dei corpi. Dovuta all’epoca, e alle strategie necessarie a contrastarla.

 

Testi

 

poc’anzi l’attesa
il chiarore corso
giù dai tetti d’un
sonante tremore

;

quest’ora cruda
un via vai le urla
assordate di una
donna c’è vento

;

un filo e un viso
profuma il cielo
la pietà l’angelo
la grotta piccina

 

*

 

chiasso notturno
attende sfogliata
ai rami l’assedio
lentissimo copre
angelica il covo
brigante passato
batticuore l’aria
rivolta sofferma
clemenza oh dèi

 

*

 

potrebbe quindi aprirsi il cielo

un istante di vetro azzurro è il
suo carnale accento alla paura
nella soffice alba di un sorriso

orla il sorgere del cuore dopo
il vino bianco la vernice degli
zoccoli la ruggine della sedia
e tutto il resto solo a tarda ora

potrebbe allora aprirsi il tondo
del ventre l’incerto della voce
tornata sull’abisso della chiesa

che serrava il silenzio dal viso

canti circoncisi alla lotta degli
avverbi e l’uomo in mezzo di
nuovo e di scatto questa linea
seguita dal sogno ci mangiava

 

*

 

a fili ha un filo la paura quando non scende e grida la fronte austera del convento d’istinto la scarpa cede questa volta sospesa a domani la luce naufragata di schiena sulla porta spinta nell’indietro della bocca la ragazza d’ogni ora dietro il vetro affaticato sulla piazza del mercato e il tendone rosso a vuotare dagli scarti il sole coi pomodori troppo pieni per pudore d’appetito e il copione numero q lasciato passare l’inchiostro nell’indietro della bocca la ragazza d’ogni ora coi gerani addormentati di lenzuola e i ricordi ‘72 e il rosario a piccole noci sulla punta delle ciglia affusolate alle voci di taverna azzurra melanconia dal mare hai partorito la fontana sui tavolini del pesce e un briciolo da arrostire ancora di fumo durante questo tempo a fili ché : ha un filo la memoria spettinata sul davanzale dei piedi rosicchiati allo stupore del canto ambulante nell’indietro della bocca la ragazza d’ogni ora nasconde lo strappo della gonna inciampata sul paniere dei limoni o una scorza di campane all’angolo di una culla tra gomiti a sera rattoppati più in basso da quella tenerezza masticata in un attimo nell’incarto improvviso del grembo quasi di pioggia fa silenzio rosmarino l’odore capovolto a fili dove : ha un filo l’onda lieve dello scialle mentre ascolta spaccarsi il fiato dalla lunga treccia in un piattino a righe di frutta martorana come succede d’isola arrossata dentro i muri delle case e uno sbadiglio d’aiuola nell’indietro della bocca la ragazza d’ogni ora sparecchia lo sguardo nel tegame di rame e una lacrima si fodera d’aria alle ginocchia dure delle balate fiorite a tratti da una pozzanghera e un certo gradino d’alga all’ombra della prima madre dimenticando la stagione antica di zibibbo nell’indietro della bocca la ragazza d’ogni ora pizzica l’ombelico della difesa di pezza e siede truccata d’infanzia la fatica conserta del seno davanti agli avanzi in processione di una lettera muta

 

*

 

acqua

morbida a scendere perdonando
dai vicoli l’imperfetto del tempo

è sapore
la bocca

pigghia
lu core

bene mio

c’havi siti
a picciridda

e

li manuzze
teni araciu

pi

nun
rumpiri
l’incantu

r’accussì dilicatu
è lu ciatu ca si fa
scantu a sciusciare

sutta ‘a vistina
tremando noi

ancora di

quest’acqua facendomi ferita ché
ad occhi nudi ci nasci l’amuri e

d’assenza
a riempire

 

*

 

eppure non è facile contraddire gli anni creduti
crescere tra i fianchi un’ora sciupata a fumare
nell’acqua o un senso compiuto tra l’inguine e

il sogno la forma delle rose se l’hanno una forma

le rose degli armadi e la marina svicolata nella cantilena
delle comari a cuntare di la terra in quel toccarsi d’istante
r’accussì distante e delicatu ca s’affaccianu i capelli dalle

dita ‘ntrizzate di linzola fiorite a li balate ché dintra caminanu

gli antichi cortili coi pomodori cunzati di pudore e sulu nu ramuzzu
di pitrusinu comu a chistu ca c’haiu ccà mentri mi talìi scinniri ‘nfunnu
a li pinzeri pi stari a moddu a li tò vrazza ca spogghianu ‘u ciatu
e lassanu]
ca trasi la pagghia di l’avventu unni si china ‘a quartara appuiata a
la persiana]
di lu celu : eppuru unnè facile rammendare i frammenti o qualcosa
di più, persino[]

 

*

 

uno strappo fragile
ciliegio di fioritura acerba
ramoscello una coperta schiusa

e le parole per
dirlo tra i sassi

un amore
la finestra nascosta
una carezza piccina al nulla

e l’acqua
dentro l’

ovale della casa è buco
il cerchio imperfetto dov’
ero promessa nuda ché silenzio

 

*

 

s’è spento il miracolo
ai fiordi lisciati a sera
mania del portalettere
guance annacquate un
colorante il tentare mi
porti in collina ? poco
poco sfugge il piacere
la pietà un’inflessione

piccini lanciano sogni
mamme sgombrano la
tavola il cemento cade

lo sguardo la scissione
il gioco compresso per
abbracciarsi di spalle i
silenzi s’affollano nudi
a luce bassa mi porti in
collina ? poco poco un
rientro di cielo la croce
dagli alberi di te riposo

 

*

 

quella propria cura
o no tutte le mattine
dai vicoli sorti al campanile
il venire d’ombra e gli zoccoli
scuciti sul boccale delle ginocchia
sgusciate di spalla il cestino con le labbra
e uno sbadiglio tra le dita al primo sorriso

contrario l’affondo dei rami sul costato ha pietra

quella propria cura
o no per tutto il giorno
agnese s’accorcia lo scialle
e un gatto alla panchina dei limoni
disegna l’odore del basilico incolta
emorragia fa il mare a guardarlo dentro ai
rumori della casa le manie alla finestra suo

amante d’istinto le lenzuola al soffitto ha piegato

quella propria cura
o no minuto al minuto
il mormorio il tenue merletto la
tinozza una tenerezza dischiusa ai
capelli di palermo nei canti d’ulivo
s’apre vagabondo d’una culla il viso del mercato
abbrustolita è la pioggia sulla pancia del carretto

la faccenda del cuore che picchia gli argini a nudo

 

*

 

perdona la grazia indecente
il sorriso il grembo dissente
finanche l’anca d’un piccolo
fiore ha fronde rosse d’onde
sospesa ode notturno solco

;

che l’attimo scompone
e sentirti se esisti alba
inseguita promessa la
prossima inversa cade

;

guardami a un vicolo di seno
ritorna la canzone dei pastori
la bocca del melo risorta alla
fontana in un accento la sera

;

si fa bellissimo il tramonto
la bambina e il suo sorriso
una melanconica rincorsa
s’affonda l’affondo il corto
acconto dalle labbra nude

;

fragile d’un istante se dalle
ciglia così ancora un po’ tu
scopri le mani e la periferia
dei fiori in un sorriso s’ama
della luna il pubico candore

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