Warburg e Agamben

Viana Conti

Il canto di Mnemosyne
per una Ninfa danzante.
Warburg e Agamben

……Ninfa. È il piede nudo, sollevato nel lieve incedere della fanciulla di un bassorilievo marmoreo trovato a Roma, quello che eccita il delirio erotico di Norbert Hanold, il giovane archeologo che ne chiede un calco al museo. Non cessando di contemplarlo, mentre la giovane avanza da tempi remoti, trattenendo, con grazia, le pieghe dell’ampio peplo bianco, Norbert le attribuisce il nome di Gradiva, «colei che risplende nel camminare». La figura di quell’archeologo nymphóleptos, posseduto dalla Ninfa, colto in un delirio feticistico, è protagonista del racconto di Wilhelm Jensen del 1903 intitolato Gradiva. Una fantasia pompeiana. L’indecidibile revenance dal passato di questo sembiante femminile precede l’eruzione del Vesuvio. Quando Freud legge la novella di Jensen, ripete il gesto dell’archeologo Norbert, procurandosi ai Musei Vaticani una copia del bassorilievo da unire alla sua collezione. Lavorando in studio, attorniato dalle sculture, Freud suole esclamare: «Le pietre parlano!», come ricorda l’artista Jane McAdam Freud, sua pronipote (nonché figlia del pittore Lucian Freud), in scritti e interviste. La presenza di quell’ulteriore, particolare “pietra”, nello studio dell’analista viennese non sarà priva di conseguenze, visto che nel 1906 Freud darà alle stampe Il delirio e i sogni nella «Gradiva» di Wilhelm Jensen, sua prima lettura psicoanalitica scaturita da un soggetto letterario. La duplice natura di spettro e di vitalità postuma, che determina la riapparizione di Gradiva all’archeologo, è quella condizione del ritorno del rimosso che più tardi indurrà Freud all’analisi del fenomeno del perturbante, nel saggio Das Unheimliche del 1919.
……Ecco attuarsi il Zum Bild das Wort («La parola all’immagine») teorizzato da quello storico dell’arte – nonché autore di «storie di fantasmi per adulti», come ama autodefinirsi – che è Aby Warburg. Se la frequentazione da parte di Freud della figura della Ninfa è verosimile, non lo è altrettanto la sua conoscenza degli scritti di questo geniale, perturbato esponente dell’alta borghesia di Amburgo, che invece cita il libro freudiano Totem e tabù negli appunti preparatori per la sua conferenza Il rituale del serpente. Tale conferenza, tardivo frutto di un viaggio d’iniziazione negli Stati Uniti, attraverso la regione degli indiani Pueblo nel Nuovo Messico e degli indiani Hopi nell’Arizona, era stata esposta nell’aprile del 1923 come discorso d’addio alla clinica svizzera di Kreuzlingen, nella quale era ricoverato dal 1921. La clinica Bellevue, infatti, era particolarmente predisposta ad accogliere un ricercatore come Warburg, non solo per la cura delle psicosi con una pratica di antropologia fenomenologica denominata Daseinsanalyse (analisi esistenziale), ma anche per i contatti che il suo direttore, lo psichiatra e psicologo Ludwig Binswanger, intratteneva con intellettuali come Jaspers, Husserl, Heidegger, Buber, Scheler, Ortega y Gasset.
……La figura inquietante di Gradiva rivela una stretta parentela con quella della Ninfa, di ascendenza classica, ossessivamente cartografata da Warburg nel suo monumentale-documentale Bilderatlas (atlante d’immagini) Mnemosyne, come elemento ricorsivo nella storia dell’arte rinascimentale, in cui assume ad esempio l’aspetto della canefora del Ghirlandaio o quello della Sefora di Botticelli. Ricorrenza verificata a vari livelli: storico, semantico-contestuale, estetico-cultuale, simbolico-allegorico. Piani, questi, a cui si aggiunge la dimensione inconscia del delirio onirico-allucinatorio elaborata nel citato saggio di Freud del 1906. Sarà poi Jean-François Lyotard a individuare, nel 1970, un ulteriore piano della dimensione figurale della Ninfa, nella potenzialità energetico-dinamica espressa dai suoi abiti scomposti, come sollevati da un colpo di vento di oscura provenienza. Da non dimenticare che una Ninfa è Aretusa, trasformatasi in fonte per sfuggire ad Alfeo, dio fluviale, perdutamente innamorato di lei dopo averla vista bagnarsi, discinta, nelle sue acque. Inseparabili, Fanciulla-Ninfa-Sposa sono, in greco antico, il senso, i sensi, di una stessa figura in un’unica parola: νύμϕη. Una vitalità liquida associa Nympha e lympha. Non è forse di Gertrud Bing, l’insostituibile assistente di Warburg alla Kulturwissenschaftliche Bibliothek (Biblioteca di scienza della cultura) prima ad Amburgo e poi a Londra, la formula secondo cui «la melancholia dovrebbe dare linfa alla sacra insoddisfazione dell’intellettuale»? Mai venuta meno, non essendo mai nata all’«essere per la morte» della cultura occidentale, la Ninfa (che ha il suo prototipo nelle Menadi e nelle Baccanti raffigurate nei sarcofagi e nei vasi antichi) rimane insepolta, illimitatamente sopravvissuta, e rediviva se richiamata alla presenza dal sommovimento di un ricordo.
……Così scrive Roland Recht nel saggio introduttivo all’edizione francese dell’atlante Mnemosyne: «Il motivo della Ninfa, questa figura di donna con i capelli e l’abito agitati dal vento, è trattato come un tutto indissociabile, fatto di un corpo, un abito e un movimento […]. Il movimento non equivale soltanto allo spostarsi di un corpo nello spazio, è la risultante di un impulso […], è l’apparire all’esterno di un moto interiore: l’emozione». Nel saggio di Recht, l’idea di movimento in Warburg viene interpretata come una polarità, una perpetua oscillazione tra demonico e razionale, dionisiaco e apollineo. Le figure di Ninfa, nel Bilderatlas, sono il conflittuale affioramento pagano della tradizione classica nell’arte di un Rinascimento che si pretende cristiano.

……Danza. La musica, il canto, la danza, accompagnano l’apparizione delle Ninfe, così come la caccia, la guarigione, le orge. Lo spirito dionisiaco di Warburg, e delle ninfe che lo seducono, illumina la sua oscurità demonica al risuonare delle parole di Nietzsche, uno dei suoi profeti: «Bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante».
……Domenico da Piacenza, detto Domenichino, celebre coreografo quattrocentesco, maestro di danza alla corte degli Sforza a Milano e dei Gonzaga a Ferrara nonché autore del trattato De la arte di ballare et danzare, insegnava a danzare «per fantasmata», intendendo per «fantasma», come spiega Giorgio Agamben nel libro Ninfe del 2007, «un arresto improvviso fra due movimenti, tale da contrarre virtualmente nella propria tensione interna la misura e la memoria dell’intera serie coreografica». Il riferimento è alla «teoria aristotelica della memoria, compendiata nel breve trattato Sulla memoria e la reminiscenza, che aveva esercitato un’influenza determinante sulla psicologia medievale e rinascimentale». In quel trattato, Aristotele «affermava che “solo gli esseri che percepiscono il tempo ricordano, e con la stessa facoltà con cui avvertono il tempo”, cioè con l’immaginazione. La memoria non è, infatti, possibile senza un’immagine (phantasma), la quale è un’affezione, un pathos della sensazione o del pensiero. […] La danza è dunque, per Domenichino, essenzialmente un’operazione condotta sulla memoria, una composizione dei fantasmi in una serie temporalmente e spazialmente ordinata. Il vero luogo del danzatore non è nel corpo e nel suo movimento, bensì nell’immagine come “capo di medusa”, come pausa non immobile, ma carica, insieme, di memoria e di energia dinamica. Ma ciò significa che l’essenza della danza non è più il movimento – è il tempo».

……Pathosformel. In tal modo comincia a delinearsi la nozione warburghiana di Pathosformel, la «formula di pathos», pensata come «vita postuma dell’antico» (Nachleben der Antike), nella cui pratica interagiscono strumenti d’indagine archeologica e genealogica. In Warburg, precisa Agamben, «il concetto di Pathosformel compare per la prima volta nel saggio del 1905 su Dürer e l’antichità italiana, che riconduce il tema iconografico di un’incisione düreriana al “linguaggio gestuale patetico” dell’arte antica». Il filosofo aggiunge: «Warburg non scrive, come pure sarebbe stato possibile, Pathosform, ma Pathosformel, formula di pathos, sottolineando l’aspetto stereotipo e ripetitivo del tema immaginale con cui l’artista ogni volta si misurava per dare espressione alla “vita in movimento”». Tanto la Gradiva di Jensen e di Freud quanto la Ninfa di Warburg agiscono, nel tempo, come fantasmi che non cessano di elargire i loro torbidi segni di vitalità. Quelli che Warburg designa come «accessori in movimento» (Bewegtes Beiwerk) sono i veli svolazzanti sulle morbide curve della Ninfa, le chiome scomposte, i piedi cinti da morbidi calzari che incedono sulla scena, inarcandosi sul terreno, non cessando di suscitare il desiderio dell’uomo. Riferendosi a una tavola di Mnemosyne in cui vengono proposte ventisei immagini della Ninfa, Agamben sostiene che «si fraintende la lettura dell’Atlante se si cerca tra di esse qualcosa come un archetipo o un originale da cui le altre deriverebbero. Nessuna delle immagini è l’originale, nessuna è semplicemente una copia. […] La ninfa è un indiscernibile di originarietà e ripetizione, di forma e materia. Ma un essere la cui forma coincide puntualmente con la materia e la cui origine è indiscernibile dal suo divenire». L’archeologo e storico dell’arte italiano Salvatore Settis sostiene che la Pathosformel, in direzione antimimetica, è leggibile anche nella messa in scena teatrale. Spetta alla memoria l’inaugurazione di uno spazio in cui la Ninfa ferma il suo passo nella danza – come teorizzava Domenichino –, in cui l’immagine rediviva si immobilizza in un cristallo visuale di tempo, in cui l’artefice (sia egli artista o filosofo) crea una distanza, per far spazio all’accadere del pensiero.

……Denkraum. Nella schizofrenica cultura occidentale, la malinconia non cessa di accadere sotto il segno di Eros e dei suoi fantasmi, che deprivano il poeta e l’artista dell’accesso alla conoscenza tramite la contemplazione concettuale, deprivano il filosofo e l’uomo di scienza dell’accesso al godimento tramite la comprensione immaginativa. Tra la contemplazione apatica e lo scatenamento orgiastico si colloca, come teorizza Warburg nel suo Bilderatlas, quello «spazio intermedio» (Zwischenraum) che è anche «spazio di pensiero» (Denkraum). La figura dello spazio intermedio, dello slittamento in divenire tra le polarità del sensibile e dell’intelligibile, del corpo e di sophrosyne, non cessa di prendere consistenza tanto nel Warburg interprete della vitalità postuma delle immagini, quanto nell’Agamben teorico di un’archeologia che prenda in esame, foucaultianamente, le condizioni di possibilità di una pratica discorsiva e che, nel contempo, dia la parola alle zone in ombra di un non-detto. Il metodo sarà quello che guarda alle cose e all’archivio dei saperi da una lontana prossimità, diagnosticando le discontinuità del presente a partire da quelle del passato e viceversa. Sia presso il ricercatore di Amburgo che presso il filosofo italiano, è nell’oscillazione e reversibilità tra i due poli dello Zwischenraum che il pensiero trova e abita una contrada. In quello stesso «tra» (zwischen) accade anche il farsi luogo dell’opera. Lo storico dell’arte e filosofo Georges Didi-Huberman ci racconta che Warburg, l’ostinato Wanderer delle tradizioni colte e selvagge, rappresentava la sopravvivenza del pathos disponendo, al pari delle immagini, anche i fogli con le proprie annotazioni su pannelli neri nella biblioteca da lui fondata. Il tema della distanza e del suo annullamento ritorna nella conferenza Il rituale del serpente, tenuta nella clinica Bellevue di Kreuzlingen il 21 aprile 1923 e poi pubblicata nel 1939. Alla fine del testo warburghiano si legge: «Il fulmine imprigionato nel filo – l’elettricità catturata – ha prodotto una civiltà che fa piazza pulita del paganesimo. Ma che cosa mette al suo posto? Le forze della natura non sono più concepite come entità biomorfe o antropomorfe, ma come onde infinite che obbediscono docili al comando dell’uomo. In questo modo la civiltà delle macchine distrugge ciò che la scienza naturale derivata dal mito aveva faticosamente conquistato: lo spazio per la preghiera, poi trasformatosi in spazio per il pensiero. Il moderno Prometeo e il moderno Icaro, Franklin e i fratelli Wright, inventori dell’aeroplano: sono loro quei funesti distruttori del senso della distanza che minacciano di far ripiombare il mondo nel caos. Il telegrafo e il telefono distruggono il cosmo. Il pensiero mitico e il pensiero simbolico, nel loro sforzo per spiritualizzare il rapporto fra l’uomo e il mondo circostante, creano lo spazio per la preghiera o per il pensiero, che il contatto elettrico istantaneo uccide».

……Φωνή. In due aforismi di Aby Warburg, «La parola all’immagine» (Zum Bild das Wort) e «La parola al suono» (Zum Klang das Wort), si annuncia la doppia opposizione scrittura/icona e scrittura/voce. Che Aristotele sia un referente significativo per l’ideatore del concetto di Pathosformel (Warburg) come per l’autore del sintagma nuda vita (Agamben) trova, anche su questo terreno, una possibile conferma. Luogo di convergenza per entrambi è una radicata pratica dell’archeologia. La relazione che la parola intrattiene, nella ricerca dello storico tedesco, con il linguaggio vocale e gestuale, è testimoniata da Gertrud Bing, inesausta collaboratrice della Biblioteca per la scienza della cultura. La storica descrive, compiaciuta, le seducenti doti mimetiche che Warburg esibiva nell’evocare enfaticamente la dizione degli autori che citava nelle conferenze. Non minore importanza egli era solito dare alla mise en scène e al posto destinato all’oratore all’interno della sala. Uno stilema caratteristico di Warburg consiste nel giocare, scambiandoli, con termini dalla stessa radice, come, ad esempio, griff e greif. Parola, suono, voce, immagine, danza, intervallo, enérgheia, dynamis, memoria, sono tutte figure per le quali sia lo studioso amburghese che il pensatore italiano trovano un riferimento teorico in Aristotele. Secondo Agamben, Warburg coglie nell’immagine una tensione interna, una bipolarità attiva, che restituisce alla vita ciò che la storiografia consegna, inerte, alla memoria.
……Didi-Huberman, da parte sua, dà testimonianza di un altro factum loquendi in Warburg, che, «quando è in conferenza assume un atteggiamento ludico, concedendosi rime, assonanze, giochi retorici, licenze poetiche, senza privarsi, perfino, di un tono profetico». È ancora l’autore di L’image survivante a richiamare Binswanger, lo psichiatra dello studioso amburghese, quando descrive il flusso discorsivo di Warburg come «fuga delle idee»(Ideenflucht) o quando cita lo stesso Warburg, che allude al proprio stile definendolo «zuppa di anguille» (Aalsuppe). Per restare in un’area vocale-gestuale, ricordiamo che nelle sue conferenze con proiezioni di diapositive, Warburg mette in opera delle transcodificazioni, passando dalla parola all’immagine, dalla parola al suono, articolando così nel discorso la scrittura, la voce e la vista.
……Il problema filosofico, inteso come problema del linguaggio che espone se stesso, si ritrova nella ricerca archeologica della voce in Giorgio Agamben. Quando egli afferma che la lingua si costruisce nella voce, ossia che proprio nei suoni emessi dalla voce (ta en tē phōnē) essa diviene intelligibile, sta riprendendo la lezione di Aristotele. È nella voce che il vivente e il parlante coinciderebbero, inaugurando il fenomeno «uomo», quella figura che Michel Foucault definiva «un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima». Come il soggetto uomo, nell’ipotesi archeo-genealogica di Agamben, verrebbe incluso nella biopolitica della modernità tramite la sua esclusione nella forma della nuda vita, così il linguaggio umano si fonderebbe tramite un processo di inclusione-esclusione della voce nel logos. In tal modo Agamben, facendosi interprete della riduzione della coppia duale semiotica-semantica di Benveniste alla coppia duale lingua-parola di Saussure, lascia aperta la questione di un uomo che parla rispetto a quella di un uomo che coglie la funzione del linguaggio negandosi nell’atto della voce. Quanto alla comprensione del visibile, inteso come differimento dell’invisibile, essa è consona non tanto ai filosofi quanto piuttosto agli artisti e ai poeti, che operano con l’immaginazione.

……Κίνημα. Osserva Agamben in Ninfe che «l’interesse di Warburg per la rappresentazione del corpo in movimento […] non rispondeva tanto a ragioni di ordine tecnico-scientifico o estetico, quanto alla sua ossessione per quella che si potrebbe chiamare la “vita delle immagini”. Questo tema definisce – da Klages a Benjamin, dal futurismo a Focillon – una corrente non secondaria nel pensiero e nella poetica (e, forse, nella politica) del primo Novecento, il cui rapporto col cinema resta ancora da indagare. La prossimità fra le ricerche warburghiane e la nascita del cinema acquista, in questa prospettiva, un nuovo senso». Infatti, se i primi strumenti precursori del cinema si basavano sul principio della persistenza dell’immagine retinica, Warburg, da parte sua, unisce a ciò il «Nachleben storico delle immagini, legato al persistere della loro carica mnestica».
……Proprio questo principio, oltre alla «regola del buon vicinato», presiede all’accostamento delle riproduzioni situate l’una accanto all’altra sulle tavole del Bilderatlas. La disposizione degli elementi icono-fotografici e dei documenti cartacei su pannelli neri procede infatti per nuclei tematici, magico-mimetici, visionari, visual-paratattici, in modo del tutto analogo a quello in cui, nella biblioteca warburghiana, i volumi sono collocati in base a un ordinamento originale e imprevisto. Come una sequenza di fotogrammi, la loro contiguità scenografica stimola immediatamente il visitatore della biblioteca a una percezione filmica. Si tratta anzi di percepire più cose in simultanea. Da qui il configurarsi, per Warburg, di una doppia persistenza delle immagini: quella fisiologico-retinica e quella storica.
……C’è un’ideale vicinanza tra le sue concezioni e quelle di Walter Benjamin. Entrambi non sono affatto interessati alla ricerca di archetipi metastorici. Benjamin, che a partire dalla metà degli anni Trenta è intento al suo Passagen-Werk e al saggio su Baudelaire, elabora l’idea di un’«immagine dialettica» la cui verità storica si compie nella morte dell’intentio (a differenza della fenomenologia intenzionale di Husserl). Agamben cita il seguente frammento benjaminiano: «Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma l’immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora (Jetzt) in una costellazione. In altre parole: l’immagine è dialettica in situazione di stallo». E il filosofo italiano aggiunge che «Stillstand non indica semplicemente un arresto, ma una soglia fra l’immobilità e il movimento». Ecco una conferma teorica del fatto che la danza «per fantasmata»di Domenico da Piacenza, apparentabile alla coreografia sintomatica delle Ninfe, non accade nel movimento né nell’immobilità, e neppure nella ripresa motoria, bensì in una polarità tensionale.

……Mnemosyne. Intitolando Mnemosyne il suo Bilderatlas, Warburg palesa l’aspirazione a formalizzare una propria teoria della memoria delle immagini, anche a livello di simboli e allegorie, a partire dalla loro sopravvivenza (Nachleben). Il suo interesse per la funzione della memoria, sia sul terreno dell’arte primitiva che civilizzata, lo avvicina alle idee del neurologo e biologo evoluzionista tedesco Richard Semon, autore nel 1904 del saggio scientifico Die Mneme, termine col quale egli designa la memoria organica. Semon è il teorico di quella traccia mnestica, iscritta nella materia cerebrale dalla reazione emotiva a un evento esterno, che prende in fase latente il nome di engramma, in fase attiva quello di dinamogramma. Non a caso quest’ultimo termine viene ripreso da Warburg, e appare collegabile a quella «formula dipathos» che funziona a partire dall’impatto con il segmento storico in cui si ricontestualizza e risemantizza.
……È opinione diffusa che, all’epoca del primo conflitto mondiale, dilagasse il terrore dell’amnesia, soprattutto tra intellettuali sensibili al patrimonio del pensiero, della cultura e dell’arte, come Freud, Proust, Husserl, Bergson, e lo stesso Warburg, il quale si proponeva di custodire la memoria sociale depositata nelle immagini. Nel saggio Note sul gesto (compreso nel volume Mezzi senza fine, del 1996), Agamben osserva che Warburg ha «trasformato l’immagine (che ancora per Jung fornirà il modello della sfera metastorica degli archetipi) in un elemento decisamente storico e dinamico. In questo senso, l’atlante Mnemosyne, che egli ha lasciato incompiuto, con le sue circa mille fotografie, non è un immobile repertorio di immagini, ma una rappresentazione in movimento virtuale dei gesti dell’umanità occidentale […]; all’interno di ogni sezione, le singole immagini vanno considerate piuttosto come fotogrammi di un film che come realtà autonome (almeno nello stesso senso in cui Benjamin ebbe una volta a paragonare l’immagine dialettica a quei quadernetti, precursori del cinematografo, che, sfogliati rapidamente, producono l’impressione del movimento)».
……La bipolarità del dinamogramma, cui ricorre Warburg, agisce come campo di energia attivato da tensione pendolare progressiva e regressiva, inaugurando una fisica delle passioni in cui le manifestazioni del corpo e quelle della vita interiore interagiscono. La tensione si attiva sia nell’estasi che nel controllo, sia nel mythos che nel logos,nell’orientalismo demonico come nell’esoterismo astrologico, nella magia come nella scienza, sul versante saturnino come su quello olimpico. Lo dimostra la Ninfa botticelliana, distributrice di fiori prima, poi esibitrice, accanto al proprio volto, della testa mozzata di Oloferne. Warburg accosta fra loro opere di artisti diversi per stile ed epoca, ponendo gli dei e semidei del Giudizio di Paride di Marcantonio Raimondi accanto ai concerti campestri di Giorgione o Tiziano ripensati nel Déjeuner sur l’herbe di Manet. Le rispettive fotografie, infatti, si trovano fissate con graffette su un pannello nero nella tavola 55 del Bilderatlas. Ricordiamo che Mnemosyne è un’opera monumentale rimasta incompiuta per il sopraggiunto decesso del suo artefice, il quale aveva appassionatamente lavorato ad essa dal 1924 fino al 1929. Annunciato già l’anno successivo come libro di imminente pubblicazione, di fatto Mnemosyne verrà dato alle stampe assai più tardi, nel 1994.
……Roland Recht scrive: «L’unica impresa intellettuale paragonabile all’atlante di Warburg è il Passagen-Werk di Walter Benjamin. […] Il progetto, realizzato tra il 1927 e il 1940 e anche questo interrotto dalla morte dell’autore, di una “archeologia della modernità”, come lo definisce Adorno, porta Benjamin a raccogliere tutte le evocazioni della città moderna. […] Benjamin, come avrebbe potuto dire anche Warburg, voleva “nell’analisi del micro-momento isolato scoprire il cristallo del divenire globale”». Un’idea per certi versi simile si ritrova nella rinnovata figura dell’atlante messa in opera dall’artista contemporaneo tedesco Gerhard Richter che, a partire dagli anni Settanta del Novecento, tiene a distanza un pathos personale di traumatiche persecuzioni naziste raccogliendo, compulsivamente, reperti fotografici anonimi, privati e pubblici, ordinati su ottocento tavole, che immancabilmente riconducono a quelle del Bilderatlas di Warburg. Noto e apprezzato artista concettuale, pittore di grigi ritratti fotografici sfocati, di paesaggi al limite del dissolvimento, di composizioni astratte, di stratificazioni materiche di colore, Richter è il referente diretto, non sempre del tutto consenziente, del film Werk ohne Autor (Opera senza autore) del 2018, realizzato da Florian Henckel von Donnersmarck, regista anche dell’indimenticabile Das Leben der Anderen (Le vite degli altri) del 2006.
……Il formalizzarsi della memoria, figura protagonista del Bilderatlas warburghiano, impegna ancora tanti studiosi dell’immaginario collettivo, nella società odierna in cui domina un’immagine diffusa la cui realtà numerica è prevalentemente spettrale. Un fecondo contributo innovativoall’interpretazione dell’immagine, verificabile anche nelle testimonianze contemporanee, è in Warburg la ricerca del frammento significativo, sia esso figurale o scritturale, piuttosto che dell’intero contesto. In teoria, l’aura, protagonista nel saggio di Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, dovrebbe perdersi nella duplicazione fotografica dei documenti nell’atlante di Warburg, ma è indubbio che, in questo caso specifico, la copia risulta non meno auratica di un originale.

……Scienza senza nome. Il titolo di un saggio agambeniano, Aby Warburg e la scienza senza nome (ripreso nel libro La potenza del pensiero, del 2005), trae ispirazione da una battuta di Robert Klein, secondo cui Warburg sarebbe stato l’ideatore di una disciplina «che, al contrario di tante altre, esiste ma non ha nome». Dunque al grande studioso amburghese, nell’interpretazione di Agamben, viene riconosciuta la genialità di un gesto che spezza il formalismo e l’estetismo imperanti nei circoli accademici dell’epoca, per inaugurare un modo di fare storia dell’arte che ne supera gli stessi confini, per abbracciare il demone oscuro di una scienza innominata. Una scienza, però, che, a giudicare dall’attenzione che, nei più vari contesti interdisciplinari, le viene concessa, diventa, alla fine, identificabile proprio sulla base della sua stessa innominabilità.
……Fatalmente, spetta al geniale ideatore di una scienza senza nome l’avvio di quella disciplina antiformalista che è l’iconologia, ripresa nel 1939 come iconografia da un suo collaboratore, lo storico dell’arte tedesco Erwin Panofsky. Prescindendo dalla storiografia positivista, purovisibilista, cronologico-lineare per stilemi, nonché dall’imperturbabile credo estetico, si inaugura così un metodo interpretativo multidisciplinare, volto a registrare e mappare ricorrenze figurali innervate in ambiti magico-religiosi, cosmologici, astrologici, filosofici, socio-politici, antropologici, poetico-letterari. Tutto ciò ha il suo luogo privilegiato nella Biblioteca di scienza della cultura, fondata da Warburg, ad Amburgo e poi, in conseguenza del secondo conflitto mondiale e delle possibili persecuzioni naziste, trasferita nel 1933 a Londra dal fedele collaboratore Fritz Saxl, costituendo così l’iniziale nucleo del Warburg Institute. E ricordiamo che alle attività e pubblicazioni di esso collaboreranno studiosi del calibro di Saxl, Wind, Cassirer, Wittkower, Gombrich e Panofsky.
……Il Bilderatlas scaturito dalla mente inquieta ma fertile di Aby Warburg, mette in opera una geografia (immaginale, scritturale, poetica) delle emozioni, incluse quelle che si accompagnano all’eccitazione dionisiaca. Palese in tal senso è l’influsso del Nietzsche della Nascita della tragedia, libro letto da Warburg nel 1905. Dal dispiegarsi del ventaglio tematico transdisciplinare s’irradiano fermenti emotivi, ricordi, impulsi energetici, che moltiplicano i campi d’indagine, gli stimoli cognitivi, le associazioni libere, provenienti da remote regioni del profondo. Restano, tuttavia, ancora in ombra zone dell’immaginario da cui la condizione del Nachleben lascerebbe affiorare frammenti di iscrizioni immaginali sepolti nel tempo, rimossi dalla psiche, tracciati, invece, nel sistema neuronale, ma che, non essendo sostanzialmente nati, non possono neppure configurarsi come definitivamente morti.
……Il Nachleben fa cenno, innanzitutto, alla continuità di un’eredità pagana nel contesto figurativo del Rinascimento, tema su cui l’autore amburghese ha lavorato in modo particolare. Scrive Agamben: «Se Warburg ha addirittura presentato il problema del Nachleben des Heidentums [sopravvivenza del paganesimo] come il proprio problema supremo di studioso, ciò è perché egli aveva compreso, con un sorprendente intuito antropologico, che quello della “trasmissione e della sopravvivenza” è il problema centrale di una società “calda” come quella occidentale, così ossessionata dalla storia da volerne fare il motore stesso del proprio sviluppo. Ancora una volta il metodo e i concetti di Warburg si illuminano se messi a confronto con le idee che guidarono Spitzer nelle sue ricerche di semantica storica, che lo portarono ad accentuare il carattere insieme “conservatore” e “progressista” della nostra tradizione culturale, nella quale […] i mutamenti in apparenza più grandi sono sempre in qualche modo connessi con l’eredità del passato». L’opposizione tra società “fredde” e “calde” proviene dal libro La pensée sauvage di Claude Lévi-Strauss, del 1962. Come ricorda Agamben, le illuminanti lezioni di Hermann Usener a Bonn avevano orientato Warburg verso «lo studioso italiano Tito Vignoli, che, nel suo libro Mito e scienza, aveva sostenuto la necessità di un approccio congiunto di antropologia, etnologia, mitologia, psicologia e biologia allo studio dei problemi dell’uomo». A differenza dell’interpretazione panofskiana dell’iconografia, che rischia sempre di far rientrare la ricerca nei ristretti confini estetici, l’«iconologia dell’intervallo» si fonda sul simbolo inteso come dinamogramma.
……Secondo Agamben, Mnemosyne di Warburg è un «atlante mnemotecnico-iniziatico della cultura occidentale, guardando il quale il “buon europeo” (come egli amava dire servendosi delle parole di Nietzsche) avrebbe potuto prendere coscienza della problematicità della propria tradizione culturale e riuscire forse, in questo modo, a guarire la propria schizofrenia e ad “autoeducarsi”». Quest’opera non va dunque confusa con un semplice repertorio di immagini, o peggio ancora con un lavoro che rechi i segni dei problemi psichici dell’autore. «Come non vedere, al contrario, che ciò che attraeva Warburg in questo cosciente e rischioso gioco di alienazione mentale era proprio la possibilità di afferrare qualcosa come la pura materia storica, del tutto analoga a quella che la fonologia indoeuropea aveva offerto alla più segreta malattia di Saussure?».
……Lo studioso amburghese ha vissuto la propria “guarigione infinita” (di cui scrisse il suo terapeuta Binswanger) come specchio della schizofrenia dell’Occidente, in cui la figura della Ninfa, transitata dal paganesimo nel cristianesimo, esprime non tanto la divaricazione conflittuale quanto piuttosto l’oscillante polarità tra apollineo e dionisiaco. La malattia storica, che sempre slitta fra memoria e oblio, una volta indossate le vesti della Ninfa può tornare a sdraiarsi sul bordo di una limpida fonte, in attesa del suo malinconico dio fluviale.

……Rizoma. Il religamen tra Warburg e Agamben era in certo modo fatale. Non a caso, il filosofo italiano ha lavorato per un periodo presso il Warburg Institute di Londra, mentre scriveva alcuni dei saggi poi confluiti nel volume Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, del 1977. Ciò è stato possibile anche per intercessione di Frances Yates, storiografa interdisciplinare e saggista britannica che per oltre quarant’anni ha collaborato con l’Institute londinese, redigendo importanti studi su neoplatonismo, filosofia e occultismo nel Rinascimento.
……Se la nozione di origine, posta peraltro in contiguità con nomadismo, trasmigrazione, storia, ha un senso, può essere interessante far notare che tanto il filosofo italiano quanto l’autore amburghese sono stati in certo modo legati a una stessa città, Venezia. Questo è evidente nel caso di Agamben che, nativo di Roma, a Venezia ha risieduto e insegnato per alcuni anni (dal 2003 al 2009) presso l’Istituto Universitario di Architettura. Alla città, inoltre, egli ha dedicato un breve ed emblematico saggio dal titolo Dell’utilità e degli inconvenienti del vivere fra spettri (compreso nel volume Nudità del 2009). Più sorprendente è apprendere che il cognome ebraico Meshullam, di un avo di Warburg, si italianizzò in Del Banco a Venezia, città in cui Anselmo del Banco, agli inizi del Cinquecento, era noto come uno dei residenti più ricchi. Più tardi, nel corso di quel secolo, la famiglia si trasferì nella località tedesca da cui prese il nuovo cognome, mentre nel Seicento prese dimora presso Amburgo. Due secoli dopo, gli esponenti della famiglia di Aby Warburg (il cui nome anagrafico è Abraham Moritz Warburg) si divisero tra Germania e Stati Uniti, mantenendo però intatto il loro prestigio economico, legato in particolare all’attività di banchieri. Tutto ciò viene documentato dalla rivista on line «Engramma» (diretta da Monica Centanni, filologa classica attiva a sua volta presso l’Istituto Universitario di Architettura), che ha il merito di aver pubblicato molti testi interessanti di e su Warburg.
……Scoprire che lo studioso amburghese ha lontane radici veneziane getta forse una nuova luce sulla profonda motivazione, anche genealogico-rizomatica, delle sue ostinate, perduranti, ossessioni di fondazione, collocazione, trasmissione alla storia di un’opera e di un’istituzione indissociabili dal suo nome. Paradigmatica a questo riguardo è, in apertura dell’atlante Mnemosyne, la tavola A, che rappresenta le costellazioni, le rotte migratorie, gli alberi genealogici, gli influssi astrali, il luogo e la data di nascita, la classe sociale, e varie componenti relative all’uomo visto come soggetto protagonista del pianeta Terra. Che altro è tutto questo, per Warburg, se non già un’operazione di pensiero, che applica la dinamica delle Wanderungen ebraiche alle migrazioni delle immagini?
……«Storia, è storia di un trauma», afferma Giorgio Agamben, quel trauma che in Aby Warburg ha prodotto l’atlante Mnemosyne  o in Gerhard Richter l’Atlas come «opera senza autore». Ogni presente, secondo il filosofo italiano, contiene un non-vissuto e un non-dimenticato, che la storia custodisce nel tempo come possibile. Sia in Warburg che in Agamben, l’immagine viene sottratta a una dimensione cronologica per essere consegnata a un’iscrizione cairologica. L’arte è sempre contemporanea alla lettura che ne viene messa in opera, non alla sua storia. «La storia accade – teorizza Agamben – nell’inaccessibilità del suo aver luogo».

(Tratto da “Quaderni di RebStein”, XCIX, sett. 2020)

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