L’arte, frammento

Jean-Luc Nancy

Il saggio L’art, fragment è apparso dapprima, in traduzione italiana e inglese, nel catalogo della mostra Frammenti Interfacce Intervalli. Paradigmi della frammentazione nell’arte svizzera, a cura di Viana Conti, Genova, Costa & Nolan, 1992, poi in francese, e con varie modifiche, nel volume di Jean-Luc Nancy Le Sens du monde, Paris, Galilée, 1993 (tr. it. Il senso del mondo, Milano, Lanfranchi, 1997). La versione italiana del 1992, che qui si ripropone, era stata condotta a partire dal dattiloscritto, con correzioni autografe, del filosofo. [N. d. T.]

L’arte, frammento

……Ormai, senza dubbio, la frammentazione, la spaziatura, lo spezzettamento, l’esaurimento raggiungono i loro estremi. Abbiamo tanto fratturato, sfrangiato, sgualcito, spiegazzato, frazionato, fragilizzato, fracassato… Lo si può dire con un tono accorato, reattivo e revanscistico. Si fa allora intendere che la nostra arte, il nostro pensiero, il nostro testo sono in rovina, e ci si richiama a un rinnovamento. Come sempre in casi del genere, in questo non vi è altro che una fuga davanti all’evento e alla sua verità.
……Senza dubbio, si può ragionevolmente pensare che un ciclo debba compiersi, un’epoca sospendersi, come fanno una dopo l’altra tutte le epoche. (Ma un’epoca, nel suo senso proprio, è un’interruzione, una frammentazione.) E senza dubbio qualcosa di simile sta per aver luogo. C’è più di un segno in tal senso (per esempio, certi ritorni alla “pittura”, al “quadro”, anzi al “grande quadro”, ecc.).
……Tuttavia nulla si ripete, nulla torna mai indietro. (Se non forse la venuta stessa, ciò che non cessa di venire senza compiersi, senza sedimentarsi, la frantumazione molteplice dell’eternità nel suo eterno ritorno: l’istante, l’instabile, l’imminenza già divisa, il frammento. Così, il ritorno stesso sarebbe frammento, e mai quel nostos il cui desiderio sfinisce l’Occidente.) Ciò che è stato frammentato non sarà riappiccicato, ricostituito o rigenerato – se non da coloro per cui l’“arte” non ha nulla a che fare con l’esistenza presente né con l’evento reale della storia degli uomini. (E ancora non si può parlare in questi termini che a condizione di ammettere che ci sia stato qualcosa prima del frammento, una “bella totalità” – ed è precisamente tale condizione che potrebbe finire col rivelarsi insostenibile.)
……Ciò che è stato frammentato – supponiamo, una certa configurazione dell’arte e dell’opera, o ancora una certa “bellezza” e un certo “sublime” –, non è semplicemente scomparso nei suoi frantumi. Occorrerebbe innanzitutto sapere ciò che resta nei frantumi, nella misura in cui sono “i suoi”: dov’è il bello nei frantumi del bello? come si frantuma? Oppure, altra formulazione della stessa domanda, e supponendo che non resti nulla, che la frammentazione abbia propriamente dislocato l’essenza su cui ha agito, occorrerebbe chiedersi se quest’“essenza” non si sia da se stessa consegnata, gettata e progettata, offerta come ciò che si potrebbe chiamare un’“essenza frattale”, se il paradosso espressivo non fosse al limite del sostenibile.

***

……Un’“essenza” frattale non si confonderebbe con la frammentazione sedimentata in frammenti. Questa frammentazione è una certa condizione, ormai riconosciuta, accettata, stabilita perfino, di distacco e isolamento dei frantumi. La sua estremità, la sua fine, si situa là dove il frammento si raccoglie su se stesso, ripiega o ritrae i suoi bordi sfrangiati e fragili sulla propria consistenza di frantume, e su un nuovo genere di autonomia. La disrupzione, qui, si trasforma in un raccogliersi su di sé del pezzo rotto. Esso converte la propria finitezza – interruzione, incompletezza – in finitura. In questa finitura sono la dispersione stessa, e la frattura, a fare della loro contingenza o della loro deriva erratica una posizione d’assoluto (oppure, il che è lo stesso, ad ab-solversi dal loro carattere frattale).
……Questo modo di recuperarsi, nel relativo, come un assoluto, e nell’allontanamento come un’intimità, è programmato nel pensiero romantico del frammento. Quando Friedrich Schlegel paragonava il frammento ad un “riccio”, lo faceva con l’intento di conferirgli e di affidargli tutta l’autonomia, tutta la finitura e tutta l’aura della “piccola opera d’arte”. Solo il piccolo, per finire, stabilisce qui la differenza tra un’arte del frammento e un’arte dell’opera (della “grande” opera).
……Perché il piccolo? Questo, beninteso, richiede una riflessione. C’è, dietro tutta la storia dell’arte contemporanea (quella che comincia col Romanticismo), un’ansia di grande, di monumentale, di arte a dimensione cosmogonica, teogonica, di “grande stile” e di arte “sovrana”. Quest’ansia è un desiderio che finisce, in un modo o nell’altro, nel disastro (o il desiderio è infinitamente deluso, come per Nietzsche nei riguardi di Wagner, oppure esso si sperimenta da sé come disastroso, da Rimbaud a Bataille). A questo disastro avrebbe corrisposto il “piccolo”, il frantume di meteorite strappato alla caduta siderale. (Il senso osceno del “piccolo” in Bataille appartiene anch’esso a tale configurazione, come dimostrano, ad esempio, queste righe di Le petit: “Il ‘piccolo’: irradiazione di agonia, della morte, irradiazione di una stella morta, splendore del cielo che annuncia la morte – bellezza del giorno al crepuscolo…”).
……Tuttavia, lo si voglia o no, il piccolo fa coppia col grande. Non cessa di rinviarvi. In questa misura, l’estremo del frammentario si raggiunge qui come uno sfinimento, un’agonia, cioè anche come una lotta sfiancante del piccolo contro il grande e per essere lui stesso il grande. Il frammento diventa nel contempo una fine (il proprio limite, la propria frattura) e una finitura (l’annullamento della frattura, i bordi lacerati ripiegati nella dolcezza di una piccola palla, un microcosmo).
……Le cose vanno in tutt’altro modo con un’“essenza frattale”, o con ciò che io indico provvisoriamente con questa espressione. Piuttosto che della fine ambigua del frammento, si tratta allora della sua apertura. Si tratta dell’accesso aperto a una presentazione, a una venuta alla presenza – o tramite questa venuta –, poiché ciò che è in gioco non si lascia più misurare (o dis-misurare) a una cosmogonia, a una teogonia o a un’antropogonia, poiché cioè quello che fa “mondo”, e “senso”, e “soggetto” non si lascia più ascrivere a una presenza data, compiuta e “finita”, ma si confonde con una venuta, con l’infinito di una venuta alla presenza, o di un e-venire.
……L’evento non è l’“aver-luogo”: è l’incommensurabilità della venuta a ogni aver-luogo, o l’incommensurabilità della spaziatura, dell’apertura, a ogni spazio disposto nel presente di una presentazione. Ma si potrebbe anche dire, dando alla parola tutta la sua forza attiva, transitiva e, precisamente, frattale, che è la presentazione stessa, distinta questa volta da ciò che bisognerebbe chiamare la “presentità” di una presenza. L’evento, sarebbe la presentazione come gesto o come mozione, anzi come emozione, frattale: la presentazione come frammentazione.
……Ci sarebbero dunque due estremità del frammento: nell’inaridirsi e nella finitura, nell’evento e nella presentazione. Ciò non vuol dire che i frammenti effettivamente prodotti, le opere o i documenti frammentari, si lascino semplicemente classificare sull’uno o sull’altro versante. Ogni frammento, senza dubbio, si lascia prendere in entrambi i modi. Ma la domanda è questa: una volta superate le estetiche della totalità e del frammento, una volta esaurite tanto la “piccola” quanto la “grande” arte, resta qualcosa dell’arte, o per l’arte, con questa venuta che nessuna presenza potrebbe portare a compimento? L’“happening” o la “performance”, e tutto ciò che, dell’arte contemporanea, avrà gravitato intorno al motivo dell’evento (per esempio la polaroid, il video, o in modo più generale il macchinico innestato sull’aleatorio, il residuale, l’imbrattatura, l’interruzione, ecc.) – tutto questo sembra o aver semplicemente prolungato l’una o l’altra delle posture (“grandi” o “piccole”) dell’arte e dell’opera, oppure non aver cessato di ridurre e distruggere l’arte. Del resto, i due gesti non sono contraddittori, e sulla base di molti segni sarebbe possibile dire che l’arte si pietrifica e si decompone nella postura della propria fine. L’ironia romantica, che per Hegel raffigurava l’elemento stesso di questa fine, raggiungerebbe così il proprio estremo. Per la “venuta”, per l’apertura di un altro senso, non bisognerebbe più contare sull’arte. Tuttavia, diversi in questo, e forse solo in questo, da Hegel, noi non potremmo neppure chiamare “filosofia” l’elemento di questa apertura. Né d’altronde dargli alcun altro nome.

***

……Ma questa stessa circostanza costituisce un’apertura, indica una venuta o si indica da sé quale venuta. L’esaurirsi del cosmo non è la fine del mondo, né dell’essere. Al contrario, l’essere stesso – o l’esistenza – si annuncia o insiste di nuovo, in maniera inaudita (e foss’anche “al di là dell’essere”, come si può dire in un certo linguaggio). C’è ormai una nascita, che non è una cosmogonia, né una teogonia, né un’antropogonia. Non si lascia assumere o sussumere nell’opera, né nella forma, in nessuna arte, grande o piccola che sia, né in alcuna finitura. La sua presentazione sarebbe piuttosto frammentazione (e la sua “arte” sembrerebbe non distinguersi più in nulla dall’ars, dall’“arte” di prima delle “belle arti”, cioè dalla téchne, per essenza infinitamente finita, esterna all’opera e alla finitura). Ma se essa è di “essenza frattale”, come situarla, come coglierla in rapporto alla profonda ambivalenza del frammento?
……In altri termini, la domanda sarebbe la seguente, ripresa a partire dall’arte stessa e dalla sua fine infinita (e questa domanda sarebbe allora quanto meno un aspetto della “questione della tecnica”): se resta qualcosa al di là di un’estetica del frammento, al di là delle molteplici estetiche della frammentazione che tutte quante avranno fatto eco al disastro e a quel desiderio della “grande arte” – a quel disastro e a quel desiderio attorno al quale si saranno articolate modernità e post-modernità –, se resta qualcosa come una frammentazione “più essenziale”, “più primitiva”, “più originale” e per conseguenza “più inaudita” e “più a venire” (ma anche, per ciò stesso, una frammentazione da cui procederebbero ugualmente, a loro modo, le opere dell’arte tutta intera, grande e piccola), e se questa frammentazione dovesse avere a che fare con quell’evento d’essere che si chiama anche esistenza, e nell’esistenza con il fatto che essa viene, ed essenzialmente non fa altro che venire (andare-e-venire) – se, dunque, c’è qualcosa di simile, e se c’è un luogo adatto per questo, un luogo in cui ciò si esponga come tale, questo luogo è ancora l’arte, di nuovo l’arte? Oppure: si può pensare l’arte, non come un’arte del frammento – che resta nell’obbedienza dell’opera in quanto finitura di una totalità –, ma come di per sé frammentale o frattale, l’arte come frammentazione, e la frammentazione come presentazione dell’essere (dell’esistenza)?

***

……È chiaro che non si tratta di null’altro che del rapporto tra l’arte e il senso.
……La condizione del senso, per noi, è la sospensione o l’esaurimento di tutti i significati, se tale termine sta ad indicare le finiture del senso, i suoi compimenti e le sue emissioni in messaggi (narrazioni, filosofie, saggezze). A questa sospensione, e già in essa, fa seguito l’ingresso in un senso assente –se con ciò si intende esattamente quel che Blanchot formula così: “Senso assente (non assenza di senso, e nemmeno senso mancante o potenziale o latente)”. Se la sua “assenza” definisce il senso stesso di questo senso, e non la sua posizione o la sua modalità, è perché esso non è il senso dell’essere che per il fatto di non distinguersi in nulla dall’essere stesso, e di non offrire alcun messaggio “a suo riguardo”. Si tratta del senso in quanto non avviene che come l’esistenza di cui ha l’incarico di essere “il senso”: non potendo dunque più essere “il senso di…”, e perdendo così ogni significato assegnabile della parola “senso” – entrando con ciò nell’infinito della propria finitezza senza finitura.
……Che l’esistenza sia il suo proprio senso, ecco la posta in gioco, semplicissima, che costituisce tutto il nostro evento, evento ancora ampiamente a venire e tuttavia già ampiamente sopravvenuto, a nostra insaputa.
……Quel che si chiede dunque a proposito dell’arte, è se c’è qualcosa nell’arte – ma qualcosa di essenziale per essa – che la renderebbe adatta a disimpegnare in tal modo il senso, a disimpegnare in tal modo questo senso del senso: che l’esistenza è il senso, senz’altro significato?
……Evidentemente ci si chiede anche, con lo stesso movimento: se c’è qualcosa dell’arte, e di essenziale per l’arte, che la rende adatta a questo “disimpegno” del senso, questo “disimpegno” stesso (cioè questa esposizione, ma anche questa espulsione – un po’ nel senso che la parola ha negli sport del pallone –, e questo spossessamento) è, a sua volta, essenziale per l’esistenza?
……In altri termini, e per raccogliere le due domande in una: l’arte è necessaria a quell’articolazione del senso (assente) che è l’esistenza? Di conseguenza: abbiamo bisogno dell’arte? Se sì, di quale arte? Ovvero: dell’arte, ossia di che cosa? E qual è quel “noi” che avrebbe un tale bisogno?
……E ancora: se l’articolazione del senso sembra dipendere in linea di diritto dal pensiero, è possibile pensare senza arte o senza l’arte? L’arte è in qualche modo necessaria al pensiero?
……Perché e come, infine, tutte queste domande metterebbero in gioco la frammentazione?

***

……Queste domande sembreranno, sotto certi aspetti, molto grossolane, ingenue e rozze. Di una finalità o di una destinazione dell’arte, parrebbe dovessimo avere dei concetti più raffinati – oppure comprendere l’infondatezza di tali determinazioni. Quanto al senso dell’esistenza, non è forse assai triviale farne oggetto d’indagine? Non è già da qualche tempo che tale domanda è obsoleta, e che non conviene porsela (non avrebbe più senso…), o che ad essa tutta la modernità risponderebbe con uno spostamento che sostituisce al senso (inteso come verità) il “gioco” o del “gioco”?
……In questo modo, si sarebbero respinte le nostre domande per ritornare precisamente all’arte – o almeno a un’arte posta sotto il segno della non-verità, del ludico e della gratuità. Ma piuttosto che di arte, si tratta allora di estetismo. E proprio un estetismo sembra assillare tutta la modernità, considerata come lo spazio o l’epoca dei significati esauriti. Dal momento che non c’è più “visione”, né del mondo, né di un “altro mondo”, non vi sarebbero che giochi d’ottica, prismi, immagini, simulacri – compresi, del resto, i simulacri dell’arte medesima, un’arte che finirebbe per non cogliersi più se non come la propria derisione, o come la propria dissoluzione in commento di sé.
……(Dopotutto, è importante notare, almeno a guisa di parentesi, che questo estetismo, esso stesso indeciso o turbato, non ha valore nel nostro mondo che nei luoghi in cui non è in causa innanzitutto la sopravvivenza più urgente e bisognosa… E questi luoghi non costituiscono la maggior parte del mondo, tutt’altro. Nella maggior parte del mondo, è in questione una sopravvivenza che rende derisori tutti gli estetismi. E forse questa sta diventando la situazione di tutti, per gli uni riguardo alle condizioni materiali di vita, per gli altri riguardo a quelle condizioni che in passato si sarebbero dette “spirituali” – e cioè riguardo al senso. E tuttavia, per quanto indigente e poco sensata si dimostri l’umanità, non è sicuro che per essa possa mai trattarsi puramente e semplicemente di sopravvivenza. Anche là dove non si concede diritto alla vita come tale, l’esistenza, che non è la vita, fa valere dei diritti e delle esigenze irriducibili. Se occorre occuparsi, di nuovo, dell’arte, può essere solo a questo titolo.) […]

[Traduzione di Giuseppe Zuccarino e Viana Conti.
Il saggio di Jean-Luc Nancy sarà leggibile integralmente
in “Quaderni delle Officine”, vol. CI, sett. 2020.]

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