Yves Bergeret
Grandi calligrafie del dialogo (1)
Grandes calligraphies du dialogue (1)
Tratto da Carnet de la langue-espace.
Traduzione di Francesco Marotta
2004: è il quinto anno che nel corso dei miei lunghi soggiorni in questa regione del sud del Sahara percorro le montagne di arenaria e le pianure di sabbia che le circondano. Le forme delle montagne, tabulari e isolate, sono lineari, geometriche, falesie verticali e lisce, qualche cima frastagliata; spesso fenditure molto profonde, anche delle gole dove una vegetazione bassa, nodosa e spinosa ostacola ogni passaggio, tranne quello dell’acqua nei due mesi della stagione delle piogge. Riesco a leggere, con buona approssimazione, una montagna nella sua struttura geologica e climatica. So, fin dalla mia giovinezza di alpinista molto avventuroso, individuare le “linee di percorso” di una montagna, di una falesia, di una sporgenza o di una cresta: da lontano posso stimare se, come si dice, “si può fare” e, in scalata, con quale livello di difficoltà tecnica.
Porto in me la conoscenza e i ricordi dei miei antenati alpini; questa conoscenza e questi ricordi mi permettono di sapere in anticipo che una montagna non è uno stadio di atletica destinato al profitto di un produttore di coloratissimi articoli sportivi, ma è un villaggio verticale di energie sacre e di volontà animistiche che in certi giorni i riti ammansiscono. Sono un poeta e, quindi, so ascoltare quello che dice la montagna, che ha abbastanza forza da mandare all’aria con una spallata ben assestata i gingilli degli abiti sportivi all’ultima moda. Scrivo da decenni il poema della montagna. Un poema particolarmente denso e attivo su quelle montagne del deserto, laggiù, nella profusione di lingue che, per chi ci vive, parlano e dicono il deserto.
E’ il quinto anno che imparo ad ascoltare e poi a comprendere cosa dicono queste montagne di arenaria. Nessun occidentale ci va. Mi sono presentato agli abitanti dei luoghi, sedentari o nomadi, dicendo sempre che ero venuto per provare ad ascoltare la parola particolarmente intensa di queste montagne così singolari, perché è il mio mestiere ascoltare, cercare di capire e scrivere quello che sento.
Dunque, nato tra queste montagne deserte, uno conosce la parola che esse dicono, è senza scrittura e la conserva scrupolosamente nella memoria. Conserva con estrema cura i riti del dialogo con lei. A volte, al riparo di una tettoia rocciosa, sul muro di terra di fronte alla piccola porta di casa, dipinge un segno, due segni, tre. Segni, non esattamente tali, solo l’abbozzo di una prima giovanile e ardita nominazione.
Con sei “posatori di segni” di un villaggio in cima a una montagna tabulare, un villaggio al quale si può accedere solo in arrampicata, per cinque anni ho percorso la loro montagna e poi un po’ alla volta le montagne vicine. Non sarei mai andato da solo sull’altopiano impregnato di riti e della presenza perpetua di mitici antenati; ho sempre aspettato che i “posatori di segni” mi conducessero dove avevano deciso; e mi hanno portato sempre più lontano. “Vieni, oggi andiamo a Xxxx passando sul bordo della immane voragine dove il responsabile dei riti fondamentali è l’unico a poter scendere; dopo cinque anni che sei qui, puoi accedere senza pericolo, né per te né per noi, al margine di questo abisso verde e bruno. Gli spiriti non si adireranno per la tua venuta”.
Dembo, uno dei sei “posatori di segni”, mi comunica stamattina, 13 agosto 2004, che dopo la nostra lunghissima marcia degli ultimi due giorni, dopo la scalata di due montagne, dopo due traversate della pianura sabbiosa, dopo la notte sotto le stelle sulla sabbia davanti alla casa di Yacouba nel villaggio degli “schiavi” dei Peul in pianura, desidera dire con me “il nostro grande viaggio”. Mi chiede di inventare in primo luogo il breve poema, poi di dirlo ad alta voce e subito dopo scriverlo: in modo che egli possa a sua volta porre i propri segni nati da questo stesso “grande viaggio”. Dal mio zaino tiro fuori un grande foglio di carta cinese per calligrafia (148 cm di altezza per 93 cm), lo dispiego sulla sabbia che abbiamo accuratamente appiattito. Contro le raffiche del vento cocente sistemo alcune pietre sui bordi della carta. Ci mettiamo al lavoro. Scrivo: “Camminando dall’alba alla sera ho attraversato generazioni e città fino alla punta della parola”; calligrafo tracciando sulla superficie del foglio due colonne di parole nel bordo in alto a sinistra e poi nel bordo inferiore, in basso. L’aforisma racchiude esattamente il senso della mia vita, non solo tra queste montagne desertiche, ma anche negli spazi più lontani dell’Europa, dell’Africa e dell’America Latina.
Dembo vive nel densissimo spessore rituale e ancestrale dello spazio del suo popolo, i Toro nomu; le responsabilità alle quali è stato iniziato e che esercita sono tanto più grandi dal momento che egli stabilizza e rifonda, con i suoi canti di grande bellezza melodica e ritmica, questo spazio animista nei momenti critici in cui tutto potrebbe crollare e allora non ci sarebbe altro che caos mortale, non la permanenza della dinamica animista: quello che Dembo canta sono i canti della sepoltura e della circoncisione, passaggi pericolosi che gli esseri attraversano, dalla vita corporale all’altro stato della vita che è la morte, e dall’età asessuata all’età della maturità sessuale maschile. Guardo Dembo posare i suoi segni in grigio scuro e rosa. Dipinge a terra, accovacciato o stando in piedi chinato. Si tende verso il suolo. Guarda il foglio dall’alto. In Europa, il cavalletto e l’esposizione alle pareti di un museo ingenerano la sensazione che i dipinti siano verticali. Qui le cose stanno diversamente.
All’inizio Dembo dipinge in rosa. Per cominciare introduce “dal fondo” (espressione europea) del foglio, tra le due colonne di parole, l’ampia forma dotata di tentacoli interni, strozzata ad istmo e poi provvista di un busto, di un collo ed infine di un testa complessa con un unico enorme occhio. Ma non è così, la mia descrizione qui evoca l’antropomorfismo e la forma di una figura verticale! Riprendo: io e Dembo abbiamo camminato e scalato negli ultimi due giorni; lui è il sacro custode dei movimenti di transizione e metamorfosi della vita e il loro organizzatore. Guardando dall’alto il microcosmo del foglio steso per terra, egli annota il doppio ritmo del cammino, il suo e il mio, più o meno vicini sulla sabbia e sulla roccia nel corso delle ore, partiti dal medesimo luogo e arrivati insieme nei pressi di quello che io in un primo momento avevo scambiato per un occhio ciclopico e che si rivela, invece, un ombelico del pensiero condiviso o una bocca che canterà a due voci, all’unisono, il canto del nostro “grande viaggio”. Due voci: il dispiegarsi del segno grafico e la successione delle lettere; il canto: l’opera visiva, il poema-pittura su carta che vi presento qui.
Poi Dembo inserisce nell’angolo “in alto a destra” del foglio delle forme più piccole e chiuse su sé stesse, nelle quali, grazie a parecchi altri suoi disegni, sono abituato a riconoscere una sorta di mappa, vista dal cielo, delle montagne circostanti. Poi “cala” una linea di pittura rosa sulla piega mediana del foglio, la tende in alto di quindici centimetri a sinistra e poi, cinque centimetri ancora più a sinistra, fa ridiscendere la linea rosa a zig zag in modo che si chiuda su se stessa.
Infine Dembo prende il colore grigio scuro e lo distende lungo le linee del colore rosa. Dembo non copre mai il rosa con il grigio. Li lascia affiancati. Camminano insieme anche sul microcosmo del foglio, così come lui ed io abbiamo camminato insieme nel deserto. Il “canto” del nostro “grande viaggio” è più chiaro e deciso, più performante se pronunciato nell’eco di se stesso, nella certezza della sua gemellanza.
***
In quegli stessi giorni di quindici anni fa, dopo aver tanto camminato, scalato, e ancora camminato, una sera ci siamo fermati su un ripiano non pericoloso per sdraiarci e dormire. Anche Yacouba era con noi. All’alba successiva, il 15 agosto 2004, Yacouba mi comunica che desidera “dire con me il movimento della notte”. Perché essa non è l’immobilizzazione nell’oscurità né la letargia del sonno. La notte smuove un po’ tutto: fuori dallo stretto controllo dei riti, strani e potenti esseri invisibili rimodellano il volto del mondo. Guai a chi si ritrova travolto dall’energia delle gigantesche dita del movimento: le sue ossa si spezzeranno, la sua anima fuggirà e, se il suo corpo rimane in piedi, non sarà altro che un relitto errante e privo di parola. Di notte, insistono Yacouba e tutti i “posatori di segni”, il pericolo è grandissimo, si evita di muoversi, ci si sdraia gli uni accanto agli altri per proteggersi mentre si dorme. Di notte si lascia campo libero al tumulto degli spiriti voraci.
Yacouba, però, concorda con me sul fatto che la notte è anche bella e che aprirvi gli occhi ogni tanto non solo stupisce ma forse permette di elaborare anche un patto che ammansisce l’oscura violenza delle cose. “Ecco, mi dice Yacouba, sì, è esattamente così. Yves, distendi un grande foglio di carta (140 cm di altezza per 68 cm) e cominciamo a raccontare insieme il movimento della notte scorsa. Inizia tu, con le parole del tuo poema”. Ho ripartito con inchiostro di china, ritmicamente sulla superficie bianca che ha quasi la statura di un corpo umano addormentato con le ginocchia un po’ ripiegate, le parole dell’aforisma che creo: “La notte cresce, la montagna si distende e la falesia risplende ridendo”. Sì, la luna distorce e ricompone le forme; sì, il cielo stellato viaggia molto più lontano del cielo diurno; sì, la falesia di arenaria diventa di colore grigio argentato; sì, l’acqua della sua cascata brilla di gioia mentre cade. E forse niente cade veramente, perché la notte è essa stessa il potentissimo genio che solleva ogni cosa nel palmo della sua mano e non è dato sapere se la risata è quella del genio, quella del chiarore lunare sulla falesia, quella dello scintillio della cascata o tutto questo contemporaneamente.
Yacouba afferra il pennello e depone il grigio scuro sul foglio steso a terra, con molta attenzione. Senza la minima esitazione. Anche lui parte dal “basso” del foglio, a sinistra, e traccia una curva in alto a destra del terzo membro della mia frase. Quindi il pennello risale, da solo nel bianco disponibile e calmo. Poi un angolo ottuso, ed ecco una lunga diagonale fino a un triangolo che egli disegna, tutto nella parte “in alto” del foglio. Nel lessico dei segni grafici che Yacouba si sta inventando in questi mesi, sono abituato a sentirlo che mi “legge” questo segno o come una capanna di paglia di uno “schiavo dei Peul” nel deserto o come la montagna isolata e appuntita che tutti ci affascina, a una trentina di chilometri più a sud, che si chiama Yuna Koyo. Siamo riusciti a salire fin lì e a compiere un sacrificio, poi a creare poemi-pitture su pietre che abbiamo sollevato sulla cima e proprio in quel momento si è scatenato su di noi uno spaventoso uragano. A destra del triangolo della capanna o della montagna spaventosa, l’ombra di queste. Quindi la linea grigia ridiscende dal centro del foglio e va in diagonale verso destra, prima di piegare in basso per raggiungere il punto di partenza e completare, anch’essa, il nostro “grande viaggio”.
Poi Yacouba disegna tre linee grigie, rigorosamente parallele, su alcune pieghe del foglio. Sembrano compartimentare lo spazio delimitato dal grande tracciato grigio. Sembrano evidenziare queste pieghe, come se dovessero materialmente accompagnare, approvare e sacralizzare il viaggio che, ripiegato nel mio zaino, il foglio del poema-pittura si accinge a fare per essere esposto in Europa. Sembrano, se guardo l’opera disposta verticalmente sul muro di un museo, i pioli di una gigantesca scala che dà accesso, dopo le parole “risplende ridendo”, alla montagna dell’uragano o alla capanna dello “schiavo” nel deserto.
Ma chi è che si inerpica lungo la scala, chi sale verso il bozzolo della sua vita o verso la pericolosa montagna sacrificale? Yacouba, che cammina senza posa e come Sisifo vuole credersi felice? oppure io, che di tappa in tappa, di soggiorno in soggiorno, attraverso varie prove di iniziazione, conquisto il cuore dell’identità di un uomo del deserto, e/o la sacra montagna sacrificale dove il fulmine della tempesta va a divorare il mio fegato all’infinito? Perché, da poeta, io rubo al cielo il suo fuoco per gli uomini e le donne e lo trasformo in pensiero creativo e ribelle per tutte le donne e gli uomini; perché Yacouba, fatto ardito dall’atto demiurgico di porre i segni, si rivela anche lui un Prometeo ladro di fuoco e liberatore sia dell’umanità che della sua stessa persona fuori da ogni brutale asservimento feudale?
Yacouba lava il pennello e subito prende dell’ocra, per raddoppiare, molto più discretamente di quanto abbia fatto Dembo, le sue linee grigie; ma soprattutto per apporre dei piccoli cerchi molto regolari che vanno quasi tutti per due: tracce dei suoi passi nel deserto? gemellanza dei nostri passi, suoi e miei, tra le rocce e le sabbie? gemellanza delle nostre lingue? gemellanza del tracciato grafico e della metafora poetica?
Proprio al centro della pianura striata dai nostri doppi percorsi o a metà della scala Yacouba traccia una misteriosa forma ocra, tanto modesta quanto sensibile: un lungo naso e due occhi di un viso, probabilmente no… un indicatore della superficie sabbiosa e rocciosa che abbiamo percorso in questi giorni, non credo… un profondo burrone che avremmo costeggiato in cima a una montagna, non ne sono sicuro … Sento piuttosto che Yacouba ha reso visibile qui la premonizione, a metà del tragitto, di quello che saranno la montagna sacrificale e/o la capanna della vita raffigurate in grigio scuro proprio “in alto”: perché tutto è gemellanza, tutto si prepara, è la ripetizione drammaturgica di un atto fondamentale. Questo atto fondamentale è, nella fluidità della parola in dialogo, l’accoglienza dell’altro nella casa originaria e/o sulla cima di questa montagna sacrificale dove la persona umana trova nel fuoco del cielo lo strumento della sua libertà.
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