Yves Bergeret
Grandi calligrafie del dialogo (2)
Grandes calligraphies du dialogue (2)
Tratto da Carnet de la langue-espace.
Traduzione di Francesco Marotta
(Continua da qui)
In compagnia di Belco
Belco canta con grandissimo senso di responsabilità le parole rituali di due passaggi fondamentali dell’esistenza: il momento del viaggio dello spirito fuori dal corpo umano durante la sepoltura e il momento della formazione del nuovo circonciso. Quest’ultimo riceve attraverso due voci gemelle, quella di Dembo e la sua, tutta la conoscenza rituale utile alla sua vita adulta. Questa trasmissione iniziatica dura due mesi, in ragione di un lungo canto iniziatico ogni sera. Belco e Dembo sono gli attori essenziali della permanenza temporale e della continuità spaziale del mondo e della vita. Sono gli unici due attori investiti di questa funzione al villaggio. Si ricordi che, secondo il popolo Toro nomu, la sostanza stessa della vita e del mondo è la parola. A questo proposito, rimando al mio libro Il Tratto che nomina.
Durante la stagione secca, da settembre a giugno, quando l’acqua portata dalla pioggia è completamente assente nei torrenti e nelle cascate sulla loro montagna di arenaria, lo spazio e il tempo si allungano crudelmente ma sempre pacificamente. La parola non è più fluidamente feconda; ha bisogno di essere alimentata, agitata, irrigata, rigirata (come un terreno coltivabile) dal sacro Canto notturno delle donne anziane sul “ghiérin”, la piazza centrale del villaggio.
Febbraio 2004: da cinque anni lavoriamo insieme, i sei “posatori di segni” grafici ed io, che sono il “posatore” delle lettere alfabetiche della parola poetica: insieme, sullo stesso tessuto o sulla stessa carta, attraverso l’atto di creazione in dialogo di un “poema-pittura”, attiviamo la parola che in questa stagione aridissima chiaramente si irrigidisce, per mancanza di acqua piovana, ma senza mai morire. Si potrebbe pensare che la scomparsa della pioggia allenti e addirittura spezzi la continuità dello spazio. Ebbene, non è così.
Il 25 febbraio 2004 Belco mi mostra le pietre lisce e ovali vicino alla lastra rocciosa bruciata dal sole su cui stiamo per dipingere. “Yves, guarda queste pietre, la parola non si ferma mai. Tegu dumno abada. La pioggia è scomparsa da settembre. Noi diremo come la parola si concentri in questi mesi: trova i termini per posare il tuo “poema” e poi io dipingerò dopo di te”. Stendo un grandissimo foglio da calligrafia, di 150 cm di altezza per 96 cm. Per far fronte all’azione del vento, sistemo sui bordi delle piccole pietre. Scrivo, calligrafando: “Ogni pietra ha mangiato un pezzo di cielo”. Perché queste pietre dalla forma ovale così perfetta sono la concrezione più densa della parola: come perle sul fondo di un qualche oceano minerale. Sono parola, vivono. Respirano. Parlano, ad esempio con Ogo Ban, l’antenato di mezzo millennio fa. Organismo vivente, ogni pietra nella stagione secca si nutre della rarefatta fluidità della parola e “mangia”, sì, mangia, un pezzetto di cielo. Perché il cielo è l’acqua futura, infinitesime goccioline che in quattro mesi il vento, ausiliario della parola, accumulerà in famiglie di goccioline e poi in masse di goccioline fino a creare la nuvola e la nuvola darà l’acqua. Nella parte inferiore del foglio, Belco raffigura la pietra come un essere vivente policromo che allunga tre mani per afferrare un po’ di cielo o fa spuntare tre strane piante oppure emette l’alito umido di tre parole.
Invece, “in alto” sul foglio, Belco traccia due rettangoli chiusi su sé stessi, in rosa evidenziati in rosso. Due porzioni di cielo, due sezioni di cielo, la più piccola delle quali racchiude un uccello. Ricordo la funzione dell’aruspice romano, che prima traccia un rettangolo sacro nel cielo e poi esamina cosa gli indica il volo degli uccelli che entrano in quello spazio o lo attraversano. Allo stesso modo i Toro Nomu sono particolarmente attenti, poco prima della stagione delle piogge, all’arrivo della prima gru migratrice che, scegliendo quel particolare ramo di un determinato albero nel villaggio, indica, quando proprio non decide, l’intensità delle piogge e quindi dei raccolti: chiamano questo uccello quasi profeta Ogo saï.
Tra le due sezioni di cielo Belco raffigura la luna e una stella, un “segno” già classico, tra i tanti che i sei “posatori di segni” dipingono, per designare il cielo.
E non mi stupirei affatto se il rosso che rafforza le due parti di cielo così come la grossa pietra in basso fosse la traccia del sangue benefico del sacrificio, sempre necessario, almeno nel pensiero dei “posatori di segni”, per rimettere insieme costantemente quello che nella turbolenza del mondo potrebbe allentarsi o addirittura separarsi e, quindi, deperire, proprio perché frammentato.
“Stendi un secondo foglio sulla lastra”, mi dice Belco. Continuiamo”.
Il nuovo foglio è dello stesso formato del precedente. Vi scrivo, calligrafando interamente sul bordo sinistro, tranne l’ultima parola: “Se devo dubitare di te, la montagna arretra”. Un aneddoto quasi insignificante: pochi giorni fa, nella pianura sabbiosa, un uomo che non appartiene al popolo dei Toro Nomu aveva davanti a noi ironizzato sul nostro gruppo, sui “posatori di segni” e me. Il suo movente era oscuro, gelosia, discordia, semplice stupidità, non lo so… Ma proprio come la scomparsa della pioggia inaridisce apparentemente il reale, col rischio, inesistente, di scomporlo, questa insolita presa in giro avrebbe potuto rompere la nostra intesa e destabilizzare il nostro piccolo “baïlo” (“gruppo di parola”; rimando ancora al Tratto che nomina). Ma nella concezione toro nomu della realtà, la cui sostanza appartiene totalmente alla parola, anche la specie umana è della parola: la sua funzione è quella di essere i “giardinieri della parola”. E la specie animale, domestica o selvaggia, lassù tra le rocce dell’altopiano di arenaria, è costituita da “aiutanti dei giardinieri della parola”. Si tratta ovviamente di una parola chiara, stabile, fondatrice e unitaria. I Toro nomu non dubitano mai l’uno dell’altro, ma sono sempre consapevoli e rispettosi del livello di ognuno nel percorso di iniziazione alla parola. La menzogna è sconosciuta, lo stesso vale per l’inganno; quando succede, si inciampa unicamente per immaturità. Poiché la dinamica della parola è ovunque al lavoro e costituisce ogni cosa, il reale non si disgrega mai. Tranne nella pianura, dove l’arenaria si sgretola in sabbia e dove la specie umana subisce la violenza feudale imposta dai padroni nomadi sui loro numerosi schiavi quasi del tutto muti. Ma Belco ed io, i “posatori di segni” toro nomu ed io, il poeta, lavoriamo insieme sulla dinamica della parola che continuamente rivitalizziamo attraverso la creazione di “poemi-pitture”; proprio come il piccolo “bailo” delle Donne Anziane canta-danza la liturgia della parola-cuore del reale in certe notti della stagione secca.
Se qualche dubbio si insinua tra noi, è perché la parola si sta disgregando e la montagna rischia di disintegrarsi in una massa sabbiosa.
Belco rappresenta il dubbio con le sue linee di pittura verde. Che egli accresce con tratti deliberatamente esitanti di pittura rossa. Il cerchio in alto a destra indica il “ghiérin“, il luogo del Canto notturno delle Donne anziane. Di solito sono otto, qui due volte meno, e trascurano la metà inferiore della loro “orchestra” (“ghiérin“). A sinistra Belco disegna il grande tamburo rituale, un rettangolo che appare deformato e con tratti interni irregolari, forse perché si sono allentati i tensori della pelle da battere ritmicamente.
In basso Belco traccia una forma, forse architettonica, che faccio fatica a inquadrare. Direi che si tratta di una montagna in via di disgregazione, con tre forme quasi rettangoli che si dispongono ognuna su un diverso lato; i piccoli cerchi rossi sono le radici-parole di cui una delle tre montagne sta diventando priva, mentre le altre due sono già silenziose.
Eppure la forza grafica di questo “poema-pittura” è così accurata e così percettibile (la precisione delle tre grandi forme tracciate da Belco, il ritmo delle piccole e grandi lettere dell’aforisma poetico) che nel suo insieme cerca di eliminare il dubbio trasformandolo in un mormorio appena udibile dietro l’orizzonte su cui danza il ritmo aereo dei segni.
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I Toro nomu (nomu, popolo / di toro, ovvero l’accidentato pendio della montagna, dove sgorga l’acqua di rarissime sorgenti) parlano il Toro tégu (tégu, parola; del toro: del pendio fertile, perché umido, della montagna ). Il Toro tégu è il legame di comprensione, di solidarietà e di comunicazione tra i Toro nomu. Il Toro tégu, lingua non scritta, è la vibrazione sonora della parola (tégu) che è in profondità la sostanza attiva del reale. Il Toro tégu è la pelle della parola. Forse anche il soffio umido che alimenta la parola.
Il reale è costante e permanente; la sua dinamica animista, sacra, visibile e invisibile, esclude ogni separazione e ogni rottura del legame. Il reale, e quindi lo spazio, sono percepiti soprattutto come tattili, prima che visivi.
La lingua Toro Tégu ha un’espressione particolarmente pregnante: ghiro ka. Può essere tradotta come: davanti. Ma è composta da ghiro, che significa occhio e ka che significa bocca e anche, di conseguenza, in questo sistema di pensiero e di percezione sensibile del mondo, porta, vale a dire l’apertura unica della casa-corpo per vedere, bere il mondo e nutrirsene. Se un Toro nomu mi dice “cammina ghiro ka“, mi dice “cammina verso ciò che la bocca del tuo occhio sente, umetta, annusa, lecca, succhia, mangerà”; ma nella mia lingua europea, quasi priva del senso della tattilità, traduco: “cammina davanti a te”. Se mi dice “guarda ghiro ka“, mi dice “cerca di capire ciò che la bocca del tuo occhio percepisce, umetta, annusa, lecca, bacia, forse mangerà”, ma io traduco “guarda davanti a te”, creando una distanza tra colui che guarda e ciò che viene guardato. L’osservatore europeo, modellato da due millenni e mezzo di idealismo platonico e dalle più svariate trascendenze che ne sono seguite, se vuole vedere da vicino, strabuzza gli occhi e vede in modo confuso o addirittura non vede niente.
Sì, ogni pietra ha mangiato un pezzetto di cielo: lo ha osservato così bene questo lembo di cielo che è acqua piovana in un futuro non molto lontano, l’ha assimilato e bevuto e digerito e l’ha fatto espandere, parola in continua crescita.
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