Giuseppe Zuccarino
Archivi per la memoria. Simon e Novelli
……È ben nota la passione di Claude Simon per le arti visive, che emerge in vari modi nelle sue opere. Del resto, da giovane lo scrittore si è cimentato in prima persona, per un certo periodo, con la pittura[1]. È vero che più tardi ha guardato con distacco ironico a tale esperienza: non ha esitato infatti a descriversi come un maldestro allievo che «seguendo le lezioni del professore dell’accademia cubista cercava di stendere i colori su quelli che chiamava (o cercava di convincersi che si potessero chiamare) dei quadri»[2]. Tuttavia è rimasto nostalgico riguardo all’idea della produzione pittorica; così, in un’intervista del 1967, quando gli viene chiesto se ha sempre saputo che sarebbe diventato scrittore, Simon risponde: «No. Avrei voluto essere pittore», aggiungendo che quella offerta dalla scrittura è solo «una gioia indiretta, un piacere di secondo grado», e pertanto «non è paragonabile alla gioia immediata, sensoriale, di deporre sulla tela del rosso o del verde»[3]. Ma senza dubbio è lecito dire che, fra i letterati del secolo scorso, egli si è dimostrato uno dei massimi virtuosi nel «dipingere con le parole», sia ricorrendo in maniera originale ed efficace alla tecnica dell’ecfrasi, in rapporto a quadri classici o moderni, sia usando certe opere d’arte come stimoli per autonome invenzioni narrative. Per limitarci ai pittori novecenteschi, si può pensare al ruolo ispiratore giocato dai lavori di Miró in La chevelure de Bérénice, o da quelli di Delvaux, Dubuffet e Bacon in Triptyque[4].
……Gli artisti contemporanei che Simon predilige sono caratterizzati dal ricorso alla tecnica del collage o, più in generale, del montaggio. Capita allo scrittore stesso di praticarla, sia pure in rare occasioni: «Bricolage, in francese, vuol dire qualcuno che fabbrica un oggetto, così, prendendo quel che ha sottomano, cercando di mettere assieme, ed è esattamente ciò che faccio io. Un esempio […] sono i collage che, quando ho tempo, mi diverto a fare con elementi ritagliati dai giornali o dalle riviste d’arte»[5]. Ma occorre soprattutto ricordare che anche nei propri libri egli introduce spesso brani tratti dai documenti più diversi, compresi quelli (lettere, cartoline, taccuini) che appartengono al suo archivio di famiglia. Più in generale, le opere letterarie simoniane sono spesso costruite alternando con grande abilità passi riconducibili a sequenze narrative, contestuali e temporali diverse. Non sorprende dunque che il procedimento del montaggio lo affascini quando gli capita di ritrovarlo nelle opere dei pittori: «È una forma d’arte che mi seduce in maniera particolare. Innanzitutto perché obbliga a un grandissimo rigore nella composizione. E poi per la sua “presenza”»[6], ossia in quanto produce un effetto di realtà.
……Tra gli artisti da lui preferiti ce ne sono alcuni che hanno impiegato questa tecnica, e più in generale non hanno esitato a utilizzare elementi, anche tridimensionali, prelevati dal mondo esterno: «Ammiro enormemente Rauschenberg […]. Mi piace molto anche Schwitters, da cui Rauschenberg ha imparato parecchio. Nello stesso spirito, le sculture di Louise Nevelson, fatte con pezzi di mobili, modanature, piedi di tavoli e altri materiali dello stesso tipo»[7]. Questi e altri nomi ritornano quando, per Simon, si tratta di elencare gli artisti novecenteschi a cui si sente più vicino, per via del loro ricorso da un lato ai graffiti e dall’altro al recupero di oggetti umili e logori: «Un po’ ovunque pittori e scultori (in Italia il mio amico Gastone Novelli, ahimè scomparso troppo giovane, in Francia Dubuffet, in Spagna Tàpies, negli Stati Uniti Rauschenberg, Nevelson…) cercavano di prendere appoggio sul primordiale, il concreto, riferendosi ai muri, ai graffiti, agli scarabocchi, ripudiando il trompe-l’œil, la rappresentazione, a vantaggio di un’interrogazione sulla materia stessa e di un ritorno al segno (segno perlopiù ambiguo, incerto), mentre altri elaboravano composizioni, sculture, con assemblaggi di materiali bruti, rottami di mobili, tessuti strappati o sporchi, vecchie fotografie, rifiuti come quelli che si possono trovare fra le macerie»[8].
……Si sarà notato che, degli artisti che evoca, l’unico con cui Simon dichiara di aver avuto un rapporto di amicizia è Gastone Novelli. La conoscenza fra i due risale al 1961, anno in cui Novelli ha modo di soggiornare a Parigi e di frequentare Simon e altri autori di rilievo come Beckett, Bataille e Klossowski. Più precisamente, Simon «conobbe Gastone Novelli alla fine del ’61, a una sua personale alla Galérie du Fleuve a Parigi»[9]. La frequentazione si trasforma subito in amicizia, durata fino alla morte precoce dell’artista nel 1968. L’interesse suscitato nello scrittore francese dai quadri di Novelli dev’essere stato notevole, visto che già l’anno successivo al loro primo incontro egli dedica ad essi un saggio, in occasione di una mostra alla Alan Gallery di New York[10].
……Simon comincia subito col cogliere un aspetto importante quando scrive che, «se un dipinto di Novelli, con la sua spessa materia cremosa, le sottili modulazioni di toni e le coloriture splendenti, viene in un’infima frazione di secondo interamente afferrato, colto (o meglio: ci afferra, ci coglie), esso può per contro essere “conosciuto” soltanto dopo una lunga investigazione, un lungo inventario nel corso del quale l’occhio deve percorrere l’intera superficie, alla scoperta degli elementi che vi sono raccolti e che compongono il quadro»[11]. In effetti le opere dell’artista, suggestive già al primo sguardo, a un esame ravvicinato si rivelano come un insieme di segni, colori, parole, che dovrebbe essere esaminato e decifrato in modo attento e paziente, poiché dall’interazione fra gli elementi che lo compongono «deriva una risultante attraverso la quale l’uomo si definisce: il linguaggio, irriducibile compromesso fra l’innominabile e il nominato, l’informe e il formulato»[12].
……A giudizio dello scrittore, ciò risponde a una necessità storica: infatti il problema del linguaggio si pone in maniera particolare per il fatto che «la nostra epoca e gli eventi che hanno sconvolto il mondo hanno rimesso in questione l’intero ordine sociale e le nozioni stabilite»[13]. Simon pensa alle vicende del secondo conflitto mondiale, che hanno toccato personalmente sia lui che Novelli. L’uno le ha vissute come soldato prima di rievocarle in molti suoi libri, mentre l’altro (così crede Simon) è «scampato all’inferno kafkiano di Mauthausen»[14]. Si tratta di una notizia inesatta, ma è vero che il pittore ha subito un’esperienza non meno traumatica di quella che lo scrittore gli attribuisce. In effetti Novelli, nel 1943, «partecipa alla Resistenza nel gruppo di Saverio Arcurio. Arrestato durante un agguato in cui perde la vita il suo compagno Carlo Menarini, viene torturato e incarcerato il 24 ottobre. Condannato a morte, la pena viene commutata in carcere a vita grazie all’intervento della madre e viene liberato all’ingresso delle truppe alleate a Roma il 4 giugno 1944»[15].
……Simon è convinto che l’amico, al termine del conflitto, abbia avuto la sensazione di un esaurimento storico, del fallimento di un’intera civiltà, avvertendo dunque il bisogno di ricominciare da zero[16]. E ciò tanto sul piano esistenziale (da qui il trasferimento in Brasile), quanto su quello artistico. Infatti, a un periodo di ricerche cromatiche e lineari subentrano «quadri di fattura e spirito totalmente diversi, come se Novelli fosse bruscamente passato da un polo all’altro: i colori, tinte unite geometriche e nettamente delimitate, vengono sostituiti dai grigi, dai bianchi calcinati, spessi, in cui si distinguono macchie incerte, forme cancellate a metà. Muri su cui la calce si sbriciola, su cui graffiti, geroglifici elementari, iscrizioni, scarabocchi, si confondono in un disordine anarchico, si sovrappongono, si cancellano» [17].
……Tuttavia l’artista opera poi una sintesi delle esperienze pittoriche che ha compiuto fino a quel momento, e ciò avviene con quadri come Prima sala del museo e Seconda sala del museo[18]. Entrambi presentano una parte dominata dai grigi e dai bianchi e un’altra con inserti colorati. Nel più recente dei due, la zona sinistra «è riempita come da una scacchiera o ammattonato dai colori vivaci (rosa elettrico, nero, rosa-rossetto per labbra, verde oliva, verde smeraldo, giallo limone, blu reale, lilla), nei comparti della quale si vede apparire una sorta di alfabeto, di repertorio di forme, frammenti o elementi di corpi perlopiù femminili (busti, seni, cosce)»[19]. Altre caselle comprendono dei testi scritti, ampiamente presenti anche nella zona destra, «in cui, nella grisaille e disordinatamente, semicancellati, dispersi sotto l’intonaco e le ripassature, compaiono lembi di forme e di iscrizioni poco distinte. […] Non esiste la chiave per leggere e farsi strada in questo meraviglioso e abbagliante labirinto di segni»[20].
……La presenza della scrittura nei dipinti è dovuta all’idea che vi sia un nesso strettissimo fra il disegno, le singole lettere alfabetiche, le parole e i suoni. Simon ricorda in proposito che «verso la fine della sua vita Joyce aveva immaginato una tipografia su misura, non potendo ammettere che lo stesso disegno della lettera S, per esempio, potesse essere usato per scrivere Serpente, Sacrestano, Sirena o Stracotto. Tutti sanno […] a che punto l’immagine sonora e grafica di una parola finisce (o comincia) per essere tutt’uno con l’oggetto che designa»[21]. Queste frasi rispecchiano con precisione il pensiero di Novelli, che non a caso le cita in due suoi testi[22]. Anche per il pittore, infatti, la maniera in cui un segno viene tracciato ne modifica il senso: «Un segno può essere organico (curve sessuali, grovigli vegetali, cerchio deformato), inorganico (segmenti, angoli acuti, fulmine); le lettere dell’alfabeto possono tornare ad essere strumenti referenziali (Rimbaud e le vocali-colore) se usate nella loro forma originaria di segno-suono, in cui il segno è allusivo ma libero e il suono convenzionale»[23].
……A questo ritorno alle radici del linguaggio ha contribuito anche l’esperienza brasiliana: Novelli ha trascorso un lungo periodo nella foresta amazzonica, dapprima in quasi totale solitudine, poi entrando in contatto con le tribù locali e imparando la loro lingua, cosa che avrà qualche influsso sulla sua pittura: «Gli indiani, che finisce per conoscere, si esprimevano mediante la sola lunga modulazione della stessa vocale. Su alcune sue tele, lunghe file di A (la prima lettera, il primo suono, il primo grido) si allineano, ondeggiano, ora diventano piccole, ora si ingrandiscono»[24]. Simon è affascinato dai dipinti dell’amico, in cui coesistono elementi in apparenza contrastanti: il senso di impotenza e la necessità di espressione, il disegno e la parola, il bianco e i colori vivaci, l’incertezza e la sapienza nel tracciare i segni. Egli riassume questi dati evidenziando nel contempo l’attitudine (umana, e non soltanto artistica) di Novelli, che palesemente condivide: «Assistiamo, credo, ad una delle più sorprendenti e ricche ricerche pittoriche e grafiche. Disegnare l’innominabile e nello stesso tempo sapere che è un’illusione, che esso non si lascia mai immobilizzare, rinchiudere, congelare. Tentare, essendo perfettamente coscienti della vanità del tentativo, del fallimento, tentare di imprigionare in queste scacchiere i cui colori splendenti ricordano le piume degli uccelli tropicali con cui gli indiani confezionano i loro costumi, tentare dunque di captare il mondo attraverso questa collezione di segni, questo alfabeto di “cose amate” […]. Il linguaggio non è che folgorazione, breve sfolgorio, briciole captate. Il mondo splendido, appena afferrato, si sottrae, sfugge, si riforma, senza posa ricominciato, senza posa pronto a ricominciare»[25].
……Nel momento in cui scrive il suo saggio, Simon non può certo immaginare che l’amico morirà presto, a soli quarantatré anni, per un collasso postoperatorio. Tuttavia la forte impressione che ha ricevuto dall’arte e dalla persona di Novelli rimarrà intatta, come dimostra la ricomparsa delle vicende e dei quadri del pittore in un’opera narrativa simoniana pubblicata decenni dopo, Le Jardin des Plantes[26]. Si tratta di un volume ampio e complesso, nel quale l’autore cerca, tramite l’alternanza di brani su temi eterogenei, di suggerire l’idea della confusa abbondanza di ricordi (sia personali che storici) di cui dispone un uomo già anziano. Ciò vale tanto più se quest’uomo, nel corso della vita, è passato attraverso numerose esperienze e situazioni, dalla guerra civile spagnola al secondo conflitto mondiale, dalla prigionia alla malattia, fino ai viaggi compiuti in vari continenti, talvolta in occasione di incontri culturali (specie dopo che, avendo ricevuto nel 1985 il Premio Nobel, è divenuto un intellettuale noto anche oltre l’Europa occidentale). In un’intervista, Simon ha spiegato qual era il suo intento nel redigere Le Jardin des Plantes: «Ho cercato di dare un’immagine dell’interconnessione dei ricordi fra loro. Si potrebbe dire che il libro è costruito come il ritratto di una memoria, con le sue circonvoluzioni, associazioni, ritorni su se stessa, ecc. La difficoltà della cosa è che la scrittura consente di presentare solo l’uno dopo l’altro gli eventi, le azioni o le immagini che si urtano e si embricano in tal modo. Ho tentato un assemblaggio di questi “pezzetti” che ci costituiscono»[27].
……Sempre al fine di suggerire la compresenza di elementi diversi, Simon adotta, nella parte iniziale del volume, una configurazione grafica inattesa, disponendo le parole in blocchi situati in punti diversi della pagina, oppure in colonne parallele, o separati da una striscia bianca obliqua. E già qui si affaccia il ricordo del modo in cui Novelli collocava le parole nei propri quadri. Osserva Brigitte Ferrato-Combe: «Questa particolare impaginazione è stata suscitata, a detta dell’autore, dalla visione di certi suoi manoscritti in cui il testo scritto a destra, in una colonna che si restringe verso il basso, è raddoppiato dalle correzioni e aggiunte marginali, che formano come un secondo testo giustapposto al primo. […] Ma è soprattutto in riferimento, e in omaggio, alla “composizione a scacchiera” di certe tele di Gastone Novelli che queste pagine sembrano essere state scritte»[28].
……In effetti, nel corso del libro, il pittore viene evocato a più riprese. Le informazioni fornite su di lui sono quasi le stesse contenute nel saggio del 1962, ma stavolta lo stile è quello del Simon narratore, caratterizzato da un flusso verbale con pochi segni d’interpunzione: «Arrestato dai tedeschi Gastone N… fu inviato al campo di sterminio di Dachau e torturato Disse che dopo non soltanto non poteva più sopportare la vista di un tedesco o di un’uniforme ma persino quella di un essere cosiddetto civilizzato Partì dunque per il Brasile dove nel bacino del Rio delle Amazzoni intraprese la ricerca di diamanti (o d’oro?) Abbandonato in piena foresta vergine dalla sua guida indiana riuscì a farsi amica una tribù primitiva di cui studiò la lingua Tornato più tardi in Europa si rimise a dipingere»[29]. Come si vede, il ritratto mescola elementi biograficamente verificabili ad altri più incerti (o erronei, come il riferimento al Lager, in questo caso Dachau), probabilmente inventati o rielaborati a partire dalle conversazioni che l’autore ha avuto con l’amico. Conviene dunque non confondere il personaggio del romanzo con la persona reale di Novelli, per quanto molti dati li accomunino.
……Simon passa poi a una breve descrizione generale dei lavori dell’artista (dei quali elenca, a più riprese, numerosi titoli): si tratta di «dipinti quasi tutti costruiti su un sistema di orizzontali e verticali che formano qualcosa come una scacchiera con le linee che si discostano o si avvicinano come il fondo piastrellato del bacino di una piscina la cui superficie sia percorsa da ondulazioni che si deformano»[30]. Lo scrittore si sofferma in particolare su un quadro del 1961, Archivio per la memoria[31]. Esso presenta in alto una zona con numerosi seni femminili e al centro una serie di rettangoli sovrapposti, che lo scrittore interpreta come se formassero un grande fallo stilizzato. Inoltre, «qua e là si trovano serie di lettere o di cifre senz’ordine, tracciate come da una di quelle mani insicure che abbozzano iscrizioni sull’intonaco dei muri con l’aiuto di una punta o di un chiodo, i tratti più o meno ravvicinati e ondulati, i caratteri sommariamente incisi»[32]. Simon cerca perfino di riprodurre visivamente, nel romanzo, il modo in cui il pittore traccia determinate scritte in alcuni suoi quadri[33]. Ma in altri passi ricorda i momenti che ha trascorso con Novelli a Roma, nell’atelier di Via del Babuino, a pranzo in trattoria, oppure sulla spiaggia di Ostia, sempre in compagnia di due giovani donne. Presenta l’amico come un uomo di bell’aspetto, dal fisico atletico, disinvolto nei modi e spiritoso nel parlare. Ma accenna anche al fatto che, incidentalmente, l’artista gli ha confidato «che a Dachau lo si era appeso per i polsi fino a che svenisse»[34]. E sappiamo che, per quanto non in un un campo di concentramento, l’artista era stato in effetti picchiato e torturato più volte dai fascisti durante la sua detenzione carceraria.
……Come aveva già fatto nel saggio del 1962, Simon sostiene che, dopo le esperienze subite, Novelli ha deciso di allontanarsi dalla civiltà europea e recarsi in Sudamerica a cercare diamanti, o forse oro[35]. In realtà, le cose sono andate diversamente: è solo nel febbraio del 1948 che il pittore si reca in Brasile, dove «compie alcuni viaggi nell’interno del paese (Rio Xingu, Serra do Roncador, Rio das Mortes), che costituiscono la premessa alla successiva ricerca di un linguaggio originario […]. Entra in contatto con alcune tribù di indios, come gli Xavantes, che Novelli definisce nella didascalia di una delle foto riferibili a questa spedizione “gli ultimi indiani completamente selvaggi…”. Frutto di questa esperienza il progetto di un dizionario della lingua Guaraní»[36]. È dunque assai improbabile che egli sognasse di arricchirsi, in quelle zone inesplorate, grazie alla scoperta di diamanti o metalli preziosi. Tuttavia, poiché del soggiorno nella giungla amazzonica l’artista non parla mai nei suoi scritti pubblicati, il margine di incertezza riguardo alle avventure da lui vissute laggiù rimane ampio, sicché le confidenze che Simon ha ricevuto dalla voce dell’amico potrebbero anche essere, almeno in parte, riferite fedelmente nel romanzo.
……Quella narrata dallo scrittore è in ogni caso una storia avvincente[37]. Recatosi nella foresta con un compagno e una guida indiana, Novelli si era ritrovato di colpo abbandonato dalla guida (che era fuggita derubandolo) e con l’amico malato, inabile a camminare. Per sopravvivere, «costruì con l’aiuto di rami (disse che non c’erano pietre) una specie di diga che gli permetteva di prendere con le mani i pesci che risalivano (o discendevano?) la corrente. La vita – o piuttosto la sopravvivenza – era questa: l’altro che tremava con quaranta di febbre, lui occupato a catturare […] e a far cuocere sulla brace i pesci che riusciva a prendere»[38]. Risulta difficile accendere il fuoco, per via dell’habitat naturale intriso di umidità, come pure dormire di notte, a causa dei gridi degli animali della giungla.
……Ma i problemi non finiscono qui. Un mattino, mentre esce dalla tenda, Novelli scorge «quelli che scambiò dapprima per bastoni piantati verticalmente nel terreno a intervalli regolari, ogni tre metri circa, tutto attorno al loro accampamento, […] finché comprese che si trattava di frecce […], e nessun’altra manifestazione umana tranne quelle lunghe frecce piantate durante la notte da personaggi invisibili»[39]. Pur trovandosi di fronte a un minaccioso segnale, non si perde d’animo: dalle sue dure esperienze precedenti ha appreso infatti che, per sopravvivere in un ambiente ostile, occorre non mostrarsi troppo forti e neppure troppo deboli, poiché in entrambi i casi si rischia di venire uccisi. Continua dunque le abituali occupazioni giornaliere; poi, di sera, va a deporre un pezzetto di pesce cotto su ognuna delle impennature delle frecce, per far capire agli indios le proprie intenzioni pacifiche. Il messaggio viene recepito, come dimostra il fatto che il mattino dopo i pezzetti di pesce non ci sono più. Questo rituale propiziatorio si ripete per una decina di giorni, finché un mattino, mentre Novelli è intento a pescare, gli si mostra per la prima volta un indigeno, un uomo seminudo che lo prende di mira col suo arco. Sempre mantenendo la calma, l’italiano prova dapprima a comunicare con lui, poi, non riuscendoci, gli offre un pesce, che l’altro accetta. È il primo contatto con i componenti di una tribù che, superata l’iniziale diffidenza, si mostrano gentili e ospitali nei suoi confronti. Egli pure prova simpatia per loro e, come già detto, inizia a studiarne la lingua, basata soprattutto sulla modulazione delle vocali.
……Novelli, come pittore, terrà conto di questa particolarità, trasponendo però in variabilità segnica la variabilità fonetica che è tipica della lingua guaraní. A proposito di quest’ultima, dichiara infatti: «Mi ha affascinato notevolmente e allora ho applicato questo sistema alle cose che mi colpivano, cioè […] alle cose visibili! E ho pensato che potrebbe essere esattamente la stessa cosa con i colori e i disegni, e che anche quelle cose visibili diventavano modificabili»[40]. È indubbio quindi che il contatto con gli abitanti della foresta ha offerto uno stimolo al lavoro creativo di Novelli, che, pur essendo già molto esperto nell’ambito della grafica, inizia a dipingere proprio nel 1948. Emblematico, in tal senso, è il fatto che il primo dei suoi quadri repertoriati sia di ambientazione amazzonica[41].
……Certo, in seguito le opere dell’artista si sono evolute passando attraverso fasi diverse. I quadri privilegiati da Simon corrispondono già alla maniera più caratteristica di Novelli, quella dei dipinti, spesso di grandi dimensioni, con uno sfondo biancastro, popolato però di linee, scritte e colori. Un’analoga ricchezza e varietà di temi e situazioni caratterizza Le Jardin des Plantes, cui dunque abbiamo fatto torto isolando i passi relativi a Novelli da quelli, di diverso argomento, che ad essi sono di continuo accostati e intersecati. Infatti – dichiara lo scrittore – «tutto il libro è fatto di questa sensazione violenta che io ho della simultaneità»[42]. Ma non è l’unico tratto ad accomunare il pittore e lo scrittore. Entrambi pensano che occorra partire dal poco per arrivare a composizioni ben più complesse, lasciando che siano gli stessi materiali (linguistici, segnici, memoriali) utilizzati a suggerire, nel corso dell’esecuzione dell’opera, nuove idee e nuove soluzioni stilistiche, così da giungere da ultimo a creare l’immagine di un mondo proliferante, multiforme, che non si finisce mai di esplorare[43].
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Note
[1] Cfr. Mireille Calle-Gruber, Claude Simon. Une vie à écrire, Paris, Éditions du Seuil, 2011, pp. 72-76.
[2] C. Simon, L’acacia (1989), in Œuvres, vol. II, Paris, Gallimard, 2013, p. 1113 (tr. it. L’acacia, Torino, Einaudi, 1994, p. 128; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche). L’insegnante a cui si allude era il pittore cubista André Lhote.
[3] Claude Simon: «Le roman se fait, je le fais, et il me fait», intervista di Josiane Duranteau, in «Les Lettres françaises», 1178, 1967; brano riportato in M. Calle Gruber, op. cit., pp. 73-74.
[4] Sul rapporto con la pittura in generale, cfr. Brigitte Ferrato-Combe, Écrire en peintre. Claude Simon et la peinture, Grenoble, ELLUG, 1998; sui casi specifici di La chevelure de Bérénice e Triptyque, le Notices di Alastair B. Duncan sui due testi, in C. Simon, Œuvres, vol. I, Paris, Gallimard, 2006, pp. 1362-1375 e 1420-1445.
[5] C. Simon, Trascription de l’entretien filmé, intervista di Peter Brugger (1974), in AA. VV., Les Triptyques de Claude Simon ou l’art du montage, a cura di M. Calle-Gruber, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle, 2008, p. 36. Come specimen dei collage realizzati dall’autore si può vedere il grande paravento (180 x 210 cm.), ricoperto per intero con immagini di varia provenienza, che viene riprodotto a colori in Patrick Longuet, Claude Simon, Paris, ADPF, 1998, p. 70.
[6] Claude Simon: une maturité rayonnante, intervista di Michel Nuridsany, in «Le Figaro», 4 settembre 1981; passo riportato in M. Calle Gruber, op. cit., p. 346.
[7] Ibidem.
[8] C. Simon, Problèmes que posent le roman et l’écriture (1989), in «Cahiers Claude Simon», 7, 2011, p. 224. Foto di opere di Nevelson, Dubuffet e Rauschenberg compaiono tra le illustrazioni del libro simoniano Orion aveugle, Genève, Skira, 1970, mentre Dubuffet, Tàpies e Novelli vengono citati dallo scrittore anche in un’intervista inedita (cfr. Alastair B. Duncan, Introduction, in Œuvres, vol. II, cit., p. XXVI).
[9] Andrea Cortellessa, nota introduttiva a C. Simon, Novelli e il problema del linguaggio, in «Alfabeta2» (www.alfabeta2.it), 15 novembre 2015.
[10] C. Simon, Novelli ou le problème du langage (1962), ora in G. Novelli, Voyage en Grèce, Lyon, Trente-trois morceaux, 2015, pp. 91-99. Come ricorda Cortellessa, il testo ha avuto una storia editoriale tortuosa: è stato pubblicato dapprima in inglese, nel catalogo della citata mostra americana, poi più volte in italiano (la prima in “Il Verri”, 7, 1963), infine – essendo andato perduto il testo originale – ritradotto in francese in «Les Temps modernes», 629, 2005.
[11] Novelli ou le problème du langage, cit., p. 91.
[12] Ibidem.
[13] Ibidem.
[14] Ibid., p. 92.
[15] Maria Bonmassar, Biografia, in Gastone Novelli. Catalogo generale. 1. Pittura e scultura, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2011, p. 398. Cfr. le testimonianze dell’artista stesso in G. Novelli, Scritti ’43-’68, Roma, Nero, 2019, pp. 6-50.
[16] Sensazione sperimentata dallo scrittore stesso: cfr. al riguardo Lucien Dällenbach, Claude Simon, Paris, Éditions du Seuil, 1988, pp. 11-21.
[17] Novelli ou le problème du langage, cit., p. 93.
[18] Il titolo esatto di queste grandi tele del 1960 (per errore, Simon data la prima al 1959), è rispettivamente:Una delle sale del museo e II sala del museo. Le si veda in Gastone Novelli. Catalogo generale, cit., pp. 198 e 200.
[19] Novelli ou le problème du langage, cit., p. 94.
[20] Ibid., p. 95.
[21] Ibid., p. 96.
[22] Cfr. Pittura procedente da segni (1964) e L’uomo coyote (1962-1966), in Scritti, cit., pp. 153-154 e 236.
[23] Pittura procedente da segni, cit., p. 153 e, con minime varianti, L’uomo coyote, cit., p. 236. Per Arthur Rimbaud, il riferimento è alla celebre poesia Voyelles (1871), in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 2009, p. 167 (tr. it Vocali, in Opere, Milano, Mondadori, 1975, p. 113).
[24] Novelli ou le problème du langage, cit., p. 97.
[25] Ibid., pp. 98-99.
[26] Le Jardin des Plantes (1997), in Œuvres, vol. I, cit., pp. 903-1178.
[27] «Je me suis trouvé dans l’œil du cyclone», intervista di Antoine de Gaudemar, in «Libération», 18 settembre 1997; passo riportato in Œuvres, vol. I, cit., p. 1467.
[28] B. Ferrato-Combe, op. cit., p. 109.
[29] Le Jardin des Plantes, cit., p. 913.
[30] Ibid., p. 914.
[31] Il titolo esatto è Liuba; cfr. Gastone Novelli. Catalogo generale, cit., p. 215.
[32] Le Jardin des Plantes, cit., p. 917.
[33] Ad esempio alle pp. 919 e 985 di Le Jardin des Plantes Simon riprende (con piccole sviste) due iscrizioni presenti in Sankhaara, del 1961 (cfr. Gastone Novelli. Catalogo generale, cit., p. 215), mentre alle pp. 919, 962 e 1080 riproduce righe sovrapposte di lettere «A», quali si ritrovano in certi dipinti dei primi anni Sessanta.
[34] Le Jardin des Plantes, cit., p. 987.
[35] Cfr. ibid., p. 1073.
[36] M. Bonmassar, op. cit., p. 398.
[37] Simon la esponeva già, in forma succinta, in Novelli ou le problème du langage, cit., pp. 96-97.
[38] Le Jardin des Plantes, cit., p. 1074.
[39] Ibid., pp. 1074-1075.
[40] Una conversazione con il pittore (1964), in Scritti, cit., p. 158.
[41] Si tratta di Nudo di india; cfr. Gastone Novelli. Catalogo generale, cit., p. 100.
[42] C. Simon, «Parvenir peu à peu à écrire difficilement», intervista di Jean-Claude Lebrun, in «L’Humanité», 13 mars 1998; frase riportata in Œuvres, vol. I, cit., p. 1523.
[43] Un mondo multiforme è appunto il titolo di un quadro dell’artista, datato 1961; cfr. Gastone Novelli. Catalogo generale, cit., p. 207.