Tutto comincia con una strana vicenda narrata da Erodoto, e relativa al faraone egiziano Psammetico. Si tratta in realtà di Psammetico III, incoronato nel 526 a. C. e rimasto in carica solo pochi mesi, perché sconfitto dai persiani di Cambise II. Ciò è avvenuto dapprima nella battaglia di Pelusio, poi definitivamente con la resa della città di Menfi. Secondo il racconto erodoteo, lo sfortunato faraone si era trovato a dover fronteggiare l’esercito persiano in una guerra iniziata già quando a capo dell’Egitto c’era suo padre Amasi. In ogni caso, dopo il lungo assedio di Menfi, Psammetico cade nelle mani dei nemici assieme alla sua famiglia.
……Il sovrano della Persia ha intenzione di umiliarlo e, nel contempo, di metterlo alla prova. Lo fa condurre in un sobborgo della città e sedere assieme ad altri prigionieri egiziani. Dopo di che, vengono fatte sfilare davanti al faraone, vestite in abito da schiave e costrette a recarsi ad attingere acqua, sua figlia e altre fanciulle di nobile famiglia. Gli egiziani presenti si lamentano a gran voce e piangono, ma il loro re riesce a dominare il dolore, limitandosi a chinare la testa. «Cambise, come seconda prova, gli mandò davanti il figlio insieme con altri duemila egiziani della stessa età, con una corda legata al collo e un morso in bocca. Venivano tratti a morte […]. Psammetico, avendoli visti passare e riconosciuto suo figlio che li guidava alla morte, mentre tutti gli altri egiziani che gli sedevano attorno scoppiavano in pianto e si disperavano, si comportò come aveva fatto al passaggio di sua figlia. Quando anche questi giovani furono passati, volle il caso che un uomo, piuttosto anziano, che un tempo era stato compagno di mensa del re, decaduto ora dalla fortuna e che nient’altro possedeva se non quanto possiede un mendico, mentre appunto chiedeva l’elemosina tra i soldati, passasse accanto a Psammetico, il figlio di Amasi, e gli altri Egiziani seduti nel sobborgo. Quando lo vide, Psammetico scoppiò in un pianto dirotto e, chiamando il vecchio compagno per nome, si batté con le mani sconsolato la testa. Allora, siccome presso di lui c’erano le guardie che riferivano a Cambise tutto quello che il re faceva ad ogni passaggio dei prigionieri, Cambise, stupito della sua condotta, per mezzo di un messo gli rivolse questa domanda: “O Psammetico, il tuo signore Cambise ti chiede perché mai al vedere la tua figliola oltraggiata e il tuo figlio che s’avviava alla morte non hai emesso né un grido né un gemito; mentre hai concesso questo onore a un pezzente che con te, a quanto gli riferiscono, non ha legame alcuno”. Questa fu la domanda che gli poneva, e quello rispose: “O figlio di Ciro, le sventure della mia famiglia erano troppo gravi perché io le potessi compiangere; ma degna, bensì, di lacrime, era la disgrazia del mio compagno, che, caduto da una condizione di grande ricchezza, è precipitato nella miseria, ormai alle soglie della vecchiaia”. Queste parole, quando le udirono, come erano riferite, parvero loro molto sagge e […] piangevano anche i persiani che assistevano. Cambise stesso fu preso da un senso di compassione»[1].
……Come si vede, benché il comportamento del faraone appaia a prima vista illogico, egli lo motiva, e la spiegazione da lui fornita viene ritenuta saggia e condivisibile persino dai suoi nemici. Più tardi, essa trova concorde nientemeno che Aristotele, il quale riprende l’aneddoto erodoteo, riferendolo però non a Psammetico bensì al faraone suo padre, Amasi. Scrive infatti nella Retorica: «Si prova compassione per chi si conosce, se non sia troppo vicino per parentela e nei suoi riguardi ci si dispone come se dovessimo patire noi stessi: pure per questo motivo, Amasi non pianse per il figlio condotto a morte, come dicono, ma si commosse per l’amico che chiedeva l’elemosina; infatti questo caso è da compatire, quell’altro invece è terribile. Il “terribile”, in effetti, è diverso dal “pietoso”, tende a escludere la compassione, ed è spesso utile a determinare uno stato d’animo opposto, perché non si prova compassione quando è ancora vicino ciò che è terribile»[2].
……Tuttavia, col passare dei secoli, cominciano a sorgere dei dubbi riguardo alle vere ragioni del contegno del faraone, e dunque anche sulla motivazione da lui fornita. La vicenda cessa di apparire chiara ed univoca, e proprio questo alimenta nei lettori il desiderio di spiegarla diversamente. Un chiaro segno di tale mutato orientamento viene offerto da Michel de Montagne, che quasi all’inizio dei suoi Essais, in un capitolo sul tema della tristezza, racconta a sua volta l’aneddoto su Psammetico. La narrazione è fedele ad Erodoto, ma l’interpretazione si distacca da quella che appariva convincente ai greci. Montaigne prende spunto da un fatto storico assai meno remoto, accaduto al cardinale Carlo di Guisa, «il quale, avuta notizia a Trento, dove si trovava, della morte del suo fratello maggiore, e un fratello che era il sostegno e l’onore di tutta la sua casata, e poco dopo di quella di un cadetto, sua seconda speranza, sostenne questi due colpi con fermezza esemplare; ma quando, alcuni giorni dopo, uno del suo seguito venne a morte, si lasciò sopraffare da quest’ultima disgrazia e, deposta la sua imperturbabilità, si abbandonò al dolore e all’afflizione, sicché alcuni ne trassero la conclusione che era stato toccato sul vivo solo da quest’ultimo colpo. Ma in verità avvenne che, essendo egli già pieno e gonfio di tristezza, la minima aggiunta spezzò le barriere della sopportazione»[3]. Montaigne ritiene che anche a Psammetico possa essere accaduta la stessa cosa.
……La fortuna dell’aneddoto relativo al faraone prosegue anche nel secolo scorso, e a ciò ha contribuito Walter Benjamin, che lo ha commentato e ha indotto a farlo anche i propri amici. Nel 1933 il filosofo scrive una breve serie di brani, Piccoli pezzi di arte, rimasti inediti durante la sua vita e pubblicati postumi. Uno di essi reca il titolo L’arte di raccontare. Benjamin vi sostiene che, mentre l’odierna informazione di tipo giornalistico offre i fatti già corredati da un’interpretazione, la narrazione autentica ha, o per meglio dire aveva, il merito di «mantenere libera da spiegazioni una storia mentre la si racconta. In questo gli antichi erano maestri, primo tra tutti Erodoto»[4]. Dopo aver riassunto l’aneddoto del faraone così come lo si trova nelle pagine dello storico greco, Benjamin richiama il punto di vista di Montaigne. Pur riconoscendo che esso è del tutto legittimo, aggiunge che nondimeno la storia si presta pure ad altre interpretazioni. Ne cita alcune avanzate dai suoi amici – sulle quali torneremo più oltre – e conclude elogiando Erodoto in quanto, non fornendo una motivazione del contegno di Psammetico (anche se in verità, come si è visto, nel testo erodoteo la motivazione esiste), ha dimostrato la propria capacità di lasciare intatta e viva la vicenda narrata. Benjamin lo sostiene con l’ausilio di una stupenda immagine: «Ecco perché a distanza di millenni questa storia dell’antico Egitto è ancora in grado di scatenare meraviglia e riflessioni. Assomiglia a quei semi rinchiusi per migliaia d’anni senz’aria nelle camere delle piramidi, che hanno mantenuto il loro potere di germinazione sino al giorno d’oggi»[5]. Tutto ciò si ritrova, più tardi, in un saggio famoso, quello dedicato alla figura del narratore (esemplificata soprattutto tramite il riferimento ai racconti dello scrittore russo Leskov), figura che a giudizio di Benjamin, per un complesso insieme di ragioni, sta scomparendo nel mondo contemporaneo[6].
……Se nel brano su L’arte di raccontare, i pareri delle persone a lui vicine alle quali il filosofo ha chiesto di provare a spiegare la storia del faraone vengono riportati in forma anonima, e lo stesso Benjamin non si pronuncia ancora in proposito, a tali lacune consentono di ovviare due annotazioni pubblicate postume. Vale la pena di citarle almeno in parte, benché siano simili fra loro. La prima è relativa a Piccoli pezzi d’arte: «Interpretazione di Franz Hessel: il re non è toccato dal destino dei re, perché è il suo proprio. Interpretazione di Walter Benjamin: il dolore si innesca più facilmente per uno spunto meno importante del motivo che l’ha causato. È un coperchio grande su un piccolo recipiente. O addirittura evita lo spunto e preferisce una spinta. Così la spinta che causa le prime lacrime negli occhi di Proust dopo la morte dell’amata nonna, è il gesto con cui si china a legarsi il laccio della scarpa. Interpretazione di Asja Lacis: sulla scena veniamo toccati da molte cose che nella vita non ci toccano; questo vecchio è solo un attore nel ruolo del re»[7]. La seconda è reperibile tra gli appunti per il saggio Il narratore: «1) Montaigne: è la goccia che fa traboccare il vaso. 2) Franz Hessel e io: il destino dei reali non commuove il re. Esso infatti è il suo proprio. 3) Asja: a teatro ci commuovono molte cose che nella vita non ci toccano, e questo servitore del suo seguito per il re è solo un attore. 4) Io: il dolore non sopravviene mai quando dovrebbe; è un coperchio o un cappello che non è mai della misura giusta»[8].
……In effetti, tutte le spiegazioni proposte sono degne di nota. Secondo lo scrittore e saggista Franz Hessel[9], Psammetico prova più pietà per una persona estranea alla famiglia che per i propri figli poiché di questi ultimi condivide appieno il destino. Diversa è l’interpretazione avanzata da Asja Lacis, amica e amante del filosofo tedesco[10]. Essendo lei per professione attrice e regista teatrale, è portata a privilegiare un’interpretazione in quella chiave: nota infatti che, quando guardiamo una scena commovente recitata a teatro, può capitare che essa ci tocchi maggiormente di quanto accadrebbe se assistessimo alla medesima scena nella vita reale. È questo a far sì il faraone, nell’osservare l’anziano compagno impoverito (ma a distanza, come se si trattasse di un attore), si impietosisca in maniera particolare.
……L’interpretazione di Benjamin è la più elaborata. A suo avviso, il dolore che proviamo a causa di un determinato evento non sempre si manifesta in maniera istantanea; talvolta lo coviamo a lungo all’interno di noi, finché esplode di colpo, magari innescato da «uno spunto meno importante del motivo che l’ha causato»[11]. E ciò vale non in quanto, come sosteneva Montaigne, tale spunto venga semplicemente ad aggiungersi ai dolori più grandi che lo hanno preceduto, al modo in cui una goccia basta a far traboccare un vaso già colmo. Non è in causa una questione di ordine quantitativo, bensì uno specifico effetto del dolore, che può anche agire celatamente in profondità per erompere poi, a sorpresa, in un momento del tempo diverso rispetto a quello che lo aveva originato. Se le metafore del coperchio più grande della pentola e del cappello più largo della testa non illustrano con chiarezza tale fenomeno, vale l’opposto per il richiamo proustiano, che risulta invece particolarmente perspicuo. Benjamin allude a un episodio della Recherche in cui il narratore (dunque non l’autore Proust, bensì il personaggio principale del romanzo) subisce una strana esperienza. Quando era morta sua nonna, a cui era unito da un forte legame affettivo, si era sorpreso e rimproverato per il fatto di provare scarso rimpianto per lei. Ma a distanza di tempo, in una circostanza quasi casuale, mentre nella sua stanza d’albergo si sta chinando con cautela per togliersi le scarpe – cautela dovuta al fatto che soffre di problemi cardiaci –, all’improvviso scoppia a piangere. Gli è tornato alla mente il ricordo di quando era la nonna, come sempre tenera e premurosa nei suoi confronti, a chinarsi per aiutarlo a compiere quel gesto. Con grande stupore, recupera dunque di lei, «in un ricordo pieno e involontario, la realtà viva […]; e così, in un folle desiderio di balzare fra le sue braccia, da un attimo soltanto – più di un anno dopo ch’era stata sepolta, a causa di quell’anacronismo che tanto spesso impedisce al calendario dei fatti di coincidere con quello dei sentimenti – io avevo appreso che era morta»[12]. L’asincronia fra un evento, in questo caso doloroso, e lo stato d’animo che ad esso corrisponde (ma con un ritardo imprevisto) in chi lo ha vissuto viene definita dal personaggio narrante con una celebre formula, «le intermittenze del cuore»[13].
……Non sorprende l’adesione del filosofo alle idee espresse nel romanzo, visto il particolare rapporto che egli aveva con l’opera dell’autore francese. A ragguagliarci in proposito è una testimonianza di Adorno: «Benjamin mi disse una volta che non voleva più leggere una parola di Proust, a eccezione di quelle che doveva tradurre di volta in volta, perché altrimenti avrebbe finito per cadere in una situazione di dipendenza che gli avrebbe impedito […] una produzione personale»[14]. L’accenno adorniano al tradurre va riferito al fatto che proprio a Benjamin si deve la versione tedesca (condotta in collaborazione con Franz Hessel) di due dei volumi della Recherche[15].
……Solo in apparenza, tra gli amici consultati per interpretare la vicenda del faraone ne manca uno, che pure di storie era particolarmente ghiotto: ci riferiamo a Ernst Bloch. Con questo pensatore Benjamin avvertiva una notevole prossimità, ma nel contempo nutriva il timore che Bloch potesse appropriarsi delle idee che gli capitava di esporre durante i loro dialoghi, avvenuti specialmente nel corso degli anni Venti[16]. Giustificata o meno che fosse la diffidenza benjaminiana, in effetti i due si sono trovati più volte a commentare nei loro scritti le medesime storie[17]. E ciò vale anche nel caso di quella risalente ad Erodoto. Nel volume Tracce, Bloch la racconta e dichiara di averne discusso con «un amico un tantino suscettibile»[18]. Avanza poi varie spiegazioni delle lacrime di Psammetico. La prima è facilmente riconoscibile come quella proposta da Montaigne, che pure non viene nominato. La seconda – la più originale e interessante – ipotizza che, se il dolore del sovrano si manifesta così tardi, ciò possa dipendere dal fatto che «è bloccato, bloccato dall’orgoglio. Nell’uomo orgoglioso il lasso di tempo normale che passa tra lo stimolo doloroso, la percezione del dolore e infine la sua esplosione, si dilata in maniera rilevante. […] Così, solo all’apparire del servo il figlio sorge all’improvviso nella mente e la musica del dolore cambia ritmo e prorompe senza freni»[19]. La terza spiegazione si avvicina molto a quella di Franz Hessel, che Benjamin, in una delle sue annotazioni, dichiara di condividere: «Il faraone, sua figlia e ancor più suo figlio, più vicino a lui in quanto erede al trono, sono legati intimamente, sono il vissuto immediato e di conseguenza si trovano in una zona di silenzio, ma il servo, che fa parte di un’esperienza del tutto lontana, puramente estranea e tuttavia collegata, rompe il blocco, e il faraone grida»[20].
……È curioso il fatto che un altro filosofo, sia pure all’interno di un’opera letteraria, abbia avanzato un’interpretazione della storia che appare prossima a quella di Bloch relativa all’orgoglio. Si tratta di Jean-Paul Sartre, che nel romanzo La nausée scrive: «Ecco una storia che mi aveva colpito molto quando andavo a scuola. C’era un re che aveva perso una battaglia, ed era stato fatto prigioniero. Era là, in un angolo, nel campo del vincitore. Vede passare suo figlio e sua figlia in catene e non piange, non dice niente. Poi vede passare, anche lui in catene, uno dei suoi servi e allora s’è messo a gemere e a strapparsi i capelli. […] Vi sono casi in cui non si deve piangere, altrimenti si è immondi. Ma se ci si lascia cadere un ceppo su un piede, si può fare ciò che si vuole, gemere, singhiozzare, saltare sull’altro piede. La cosa sciocca sarebbe quella di essere sempre stoici: ci si sfiancherebbe per niente»[21].
……Ogni lettore, dunque, così come modifica qualche particolare nel ripetere la vicenda narrata da Erodoto, introduce la propria personale visione dell’esistenza nella maniera di interpretarla. E anche questo finisce col confermare che Benjamin aveva ragione: la storia di Psammetico, al pari dei semi rimasti ermeticamente chiusi nelle piramidi, non ha perso, pur a distanza di millenni, il proprio potere di germinare.
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Note
[1] Erodoto, Storie, III, 14, tr. it. Milano, Mondadori,1988, pp. 269-271; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono a volte citati con lievi modifiche.
[2] Aristotele, Retorica, 1386a, tr. it. Milano, Bompiani, 2014, p. 205.
[3] Michel de Montaigne, Les Essais (1588), I, II, Paris-Bordeaux, Laffont-Mollat, 2019, p. 9 (tr. it. Saggi, Milano, Adelphi, 1966; 1992, pp. 12-13). Il fratello maggiore del cardinale, ossia il duca Francesco di Guisa, era stato assassinato nel febbraio 1565, mentre il minore, abate di Cluny, era morto il mese successivo.
[4] W. Benjamin, Piccoli pezzi di arte (1933), in Opere complete, tr. it. Torino, Einaudi, 2000-2014 (d’ora in poi abbreviato in O. C. e seguito dal numero del volume), vol. V, p. 536.
[5] Ibid., p. 537.
[6] Cfr. Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov (1936), in O. C., vol. VI, pp. 320-342 (e in particolare, per il riferimento alla storia del faraone, p. 326).
[7] Paralipomena, in O. C., vol. VIII, p. 331.
[8] Ibid., p. 402.
[9] Benjamin ha recensito varie sue opere: cfr. Franz Hessel (1926), in O. C., vol. II, pp. 464-465; Franz Hessel, «Berlino segreta» (1927), ibid., pp. 724-726; Il ritorno del «flâneur» (1929), in O. C., vol. III, pp. 379-383.
[10] Benjamin firma assieme ad Asja Lacis il testo Napoli (1924), in O. C., vol. II, pp. 37-46, le dedica il proprio libro Strada a senso unico (1926), ibid., pp. 409-463 e scrive per lei il Programma di un teatro proletario di bambini (1929), in O. C., vol. III, pp. 181-186.
[11] Paralipomena, cit., p. 331.
[12] Marcel Proust, Sodome et Gomorrhe (1921-22), in À la recherche du temps perdu, Paris, Gallimard, 1999, p. 1327 (tr. it. Sodoma e Gomorra, in Alla ricerca del tempo perduto, Torino, Einaudi, 2008, p. 1282).
[13] Ibidem.
[14] Theodor W. Adorno, cit. nelle note dei curatori in O. C., vol. III, p. 508. Cfr. il saggio Per un ritratto di Proust (1929), ibid., pp. 285-297, e gli appunti che si leggono alle pp. 298-315.
[15] Si tratta di À l’ombre des jeunes filles en fleurs (Im Schatten der jungen Mädchen, edito nel 1927) e Le côté de Guermantes (Die Herzogin von Guermantes, edito nel 1930). Una terza traduzione, quella di Sodome et Gomorrhe, è andata perduta.
[16] Si veda in proposito Laura Boella, Pensare e narrare, in E. Bloch, Tracce (1930), tr. it. Milano, Coliseum, 1989, pp. VIII-IX.
[17] Cfr. ibid., pp. LVII-LVIII.
[18] E. Bloch, Silenzio e specchio, in Tracce, cit., p. 109.
[19] Ibid., p. 110.
[20] Ibid., p. 111.
[21] J.-P. Sartre, La nausée, Paris, Gallimard, 1938; 2012, p. 211 (tr. it. La nausea, Torino, Einaudi, 1948; 1990, p. 200).