Scrivere il viaggio

………..Elisabetta Brizio

…..SCRIVERE IL VIAGGIO
………Su Le cose del mondo
…………di Paolo Ruffilli

Leggendo Le cose del mondo di Paolo Ruffilli si sarebbe portati a credere che egli pensi, con Whitman in Song of Myself: «Very well then I contradict myself, / (I am large, I contain multitudes)». «Multànime», avrebbe detto D’Annunzio. Il poeta non può aggiogare la propria interiorità proteiforme agli schemi della logica ordinaria. E infatti «perlustrare il concreto mondo in cui si è venuta muovendo la mia esperienza, in un gioco di continui rimandi e rispondenze tra io e realtà esterna attraverso la pratica del linguaggio» (come Ruffilli scrive nel breve prologo) richiede un certo magistero poetico, un dispiegamento di strumenti espressivi complessi che rendano il senso dell’unità delle voci contrarie, che convoglino le sollecitazioni di una pressante configurazione musicale – «una ossessione mentale di tipo musicale mi trascina materializzando le parole come note in una partitura», dichiarava in una intervista. E se ci rimettiamo all’explicit della traduzione italiana del Contre Sainte-Beuve (astraendo dalle idee proustiane sul talento) le cose sembrano ulteriormente complicarsi: «nessuno conoscerà mai, nemmeno chi la sente, l’aria che ci perseguitava col suo ritmo inafferrabile e incantevole».

Io, mondo esterno, linguaggio: inseguire, quindi, e proferire, l’unità della propria storia, durante la quale e oltre la quale spunta il mistero, che nella linea di pensiero di Ruffilli è la promessa della vita – vacuità da colmare, densa oscurità da rischiarare –, consapevole egli, nell’atto del rischiarare, di innescare nuove contraddizioni e resistenze. Uscire dalla finitudine più ristretta e immediata, «porre tra e la vita / lo spazio necessario a contemplarla», come in Diario di Normandia (1990), è da un lato uscita da sé stessi benché soltanto nello spazio dell’immanenza. Ma dall’altro è intuizione dei limiti della individualità, che non può conoscere in modo assolutamente certo neppure se stessa, e ancora meno ciò che la eccede e che da essa deborda.

Una ricognizione previa. Per Ruffilli «poesia» non è rispecchiamento della realtà, semplice mimesi, magari schizomorfa immagine del mondo. È rifondazione e riorganizzazione del tempo in cui il vissuto si struttura e si dispiega. E ricostruzione dei processi semantici. Messa in questi termini potrebbe apparire una riproposizione della poetica novissima, o forse di quella, oggettiva e oggettuale, della linea lombarda, e ciò entrerebbe in conflitto con la settecentesca dolceamara cantabilità di Ruffilli. Siamo di fronte, invece, a un tertium datur, alla terza ipotesi esclusa dalla filosofia. Qualcosa può, insieme, essere e non essere, porsi al di là dello stesso principio di non contraddizione. Come nella ontologia quantistica o nella logique des ensembles flous, una logica sfumata, per cui tra vero e falso, reale e irreale, non c’è netta esclusione, bensì una gamma indefinita e potenzialmente illimitata di sfumature e gradazioni.

Ricreare per verba questa multanimità, quindi. Una delle difficoltà a riguardo è lo scontro con le leggi della logica, ma non a vantaggio di una radicalità extralogica. Diciamo allora: ricreare per verba una omologia di opposti in assenza di connessione logica, a partire dalla contraddizione – l’infinito, dal lato processuale – che riflette e traduce quell’elemento certo che è l’incoerenza delle cose, il solo orizzonte in cui le cose del mondo si rivelano. Anche la poesia è antilogica, ma spessissimo è alogica, cioè, inevitabilmente, analogica. La rappresentabilità del mondo elegge l’opposizione, che a sua volta si basa sulla complementarità con una implicita controparte e sui tratti contestuali delle cose. Oltre il dominio di questioni reciprocamente irriducibili, come nelle filosofie orientali, Ruffilli si muove nel campo di una unità dinamica, nella convergenza di fattori divergenti. Rimettendosi alla necessità dell’antitesi – tratto saliente del suo versificare, nella collocazione simmetrica degli elementi in contrasto –, o dell’antifrasi, come tempestivamente rilevava Roland Barthes – che nel 1978 ebbe modo di apprezzare una prima selezione di testi di Camera oscura (1992) dapprima usciti su rivista.

Contestualità delle cose, acquisizione di senso nella prossimità incongruente, intersettorialità: i vari gradi e le forme dell’essere (inanimate, animate, parti di noi, e noi, privati di ogni sublimità) non vanno inquadrati settorialmente. In linea con tale premessa, Le cose del mondo (Mondadori, «Lo Specchio», 2020, nota di Maurizio Cucchi) si presenta come un composto, l’attuazione di un progetto unificante. Dopo l’eclissi dell’homo interior in Natura morta (2012) – ma eravamo già abituati alla ellissi della complicità protagonistica per una poesia più estroversa, latamente impegnata –, con Le cose del mondo rientrano, senza mai declamarsi, il locutore e la sua dimensione personale, che tuttavia tornano a sgretolarsi già dalla terza sezione dell’opera (La notte bianca, da Jurij Živago: «la notte bianca che tante cose ha rivelato», traduzione dello stesso Ruffilli) per la qualità plurale di assunti inerenti a un destino unanime, cui meglio si attaglia un anonimato che enfatizzi l’aura contemplativa, la condizione riflessiva della poesia esito di meditazioni nella notte.

Nel viaggio attraverso la propria scrittura Ruffilli configura un arduo amalgama di anni, temi, stilemi. Configura l’interna coesione dell’opera nella trasposizione del discordante in simultaneità, come uno è il corpo qui diviso in sottosistemi che rinviano a una totalità complessa. È da notare l’azzeramento di ogni residua descrizione di atmosfere in dissolvenza, così come un distanziamento dalle seduzioni della memoria, salvo in alcuni punti delle prime due sezioni. La destinazione del viaggio è arrivare a designare le cose del mondo, e farlo senza temere stridenze e disfemismi. «In poesia le sillabe fanno l’amore», fu detto. E nel paradigmatico Affari di cuore (2011) l’amore è sì coinvolgimento, nodo che avvince, forse destino. Ma anche insidia, sviamento, sindrome amorosa, souffrance. Un sentimento di cui non vengono risparmiati gli aspetti più scabri, come, appunto, nella poesia di Ruffilli in generale.

Ma questo viaggio non disegna una deriva, e non è senza nostos. Là dove esso termina, e cioè nel ritorno a casa, inizia il viaggio di scrittura, l’itinerario di nominazione. Tuttavia, dire «scrittura» riferito a Ruffilli può sembrare elusivo e riduttivo. Sono esclusi dal suo orizzonte proclami di autoterapia o di autobiografia. Inoltre, non si tratta qui di mettere in sillabe le nostre solitudini, al plurale («la vita è fatta di piccole solitudini», senza enfasi Barthes diceva alla prima pagina della Chambre claire), né di constatare e contrastare la nostra finitezza affidandoci a lettori a venire. Anche alla domanda ultima, sulla morte, risponderebbe che è un incontro con la domanda sul recondito senso o sulla insensatezza della vita. Esclusa anche l’urgenza di uno schermo, scrivere per Ruffilli è qualcosa di più esigente, selettivo, impegnativo. È misurarsi con la realtà – mai assunta come patria lontana – per intercettare quelle «parole sciolte via dal laccio / che le lega nel più profondo strette, / assetate sempre di libertà e di arbitrio». Scrivere è nominare, cioè «riplasmare in lettere una essenza». E alla radice del nominare si situa l’immaginare metodico, che in accezione ruffilliana abolisce la distanza dalla vita e dalla realtà, dirada le forme di dogmatismo e punta al quintessenziale: nel suo esito precipuo, il fingere, il dare forma a verità altrimenti inintelligibili. L’immaginazione quale fonte di intelligibilità è il criterio di base, se disatteso le cose non oltrepasserebbero lo stadio intrasparente e stratiforme del quasi essere, che in una gerarchia di gradi di essere costituisce qualcosa di impensabile tanto quanto il non essere.

Un gruppo di motivi tipicamente ruffilliani concorrono all’intensità dell’avvio della prima sezione, Nell’atto di partire, combinati con il paradigma letterario del viaggio – orizzontale, qui rivisitato nell’ottica dell’esplorazione, dell’esperienza o dell’evasione, non in quella classica e cupa di una catabasi, né come vago nomadismo dello spirito. Lo sguardo del viaggiatore è sintonizzato sul ritorno già prima di partire, perché il viaggio induce comunque a una verifica condotta sui luoghi già noti, e il confronto è sempre in perdita per l’io presente che dovrà lavorare sul negativo. Quindi, non la destinazione, ma la propria identità («Di corsa, inseguendo se stessi, / la propria figura smarrita»), il racconto del proprio cambiamento e delle proprie spoglie («in questo / spreco di sé nel mondo fuggendo, intanto mutando in gara infinita /– intravista e perduta – la vita»), il fare luce sul proprio mondo adesso costituiscono il fulcro della sezione liminare dell’opera. Alcuni motivi, allora: «L’imprevisto che è legato al moto»; il movimento che relativizza e inverte ogni prospettiva; la necessità di «perdersi / per  potersi davvero ritrovare»; gli incontri non cercati e mancati – «fugitive beauté», come la passante di Baudelaire, «ignoro dove fuggi, né tu sai dove io vado» –, «ombre che fuggono di scena», balenamenti del nesso tra imprevedibilità e destino, della necessità del caso, della casualità dell’incontro – Proust diceva – «fortuito e inevitabile»: ma qui fermo al condizionale; il motivo già leopardiano e pascoliano «che più si va e meno si trova / e non  si arriva da nessuna parte»; la vita come «inseguimento di sé stessi»; gli effetti della distanza; l’asintotico senso delle cose, «perduto prima / di averlo conquistato». E lo squallore delle stanze di albergo, l’odore stantio dei corridoi per accedervi, «nel cono di polvere / che sale con la luce nebulosa», la stessa stazione quale luogo di isolamento per troppa vicinanza, di assenza di tensioni proprio nel suo essere l’acme delle tensioni rivestono quasi una funzione correlativa: la vita è un «moto inerte», a conti fatti è sradicamento, estraneità. Benché «tutti quanti insieme in corsa», come in treno. Oppure, come Virgilio morente: «ciascuno è circondato da una foresta di voci, ciascuno vi cammina smarrito per tutta la vita, cammina e cammina e tuttavia è immobile nell’impenetrabilità della selva delle voci» (Hermann Broch, La morte di Virgilio, 1945, nella traduzione di Aurelio Ciacchi).

Nel lungo lavoro di Ruffilli Le cose del mondo profilano una prospettiva lustrale. Disperse le scorie adulteranti e inarmoniche, i titoli intermedi non piú significanti, i passaggi non obbligati, l’opera – l’autore dice – vuole essere «unitaria, come costruzione poematica, ed è l’esito di una lunga elaborazione, di un lavoro piú che quarantennale». Dove rileviamo un progressivo illimpidimento del lessico e dei fatti di stile, insieme a una crescente complessità dei contenuti del pensiero fingente. Stilizzata in eccesso, immagine certa e aleatoria, non rassegnata all’evanescenza, la vita si complica in una versificazione esteriormente lineare, serrata e tendente a culminare in chiuse nette e categoriche, talora in epifonema. In formulazioni imperative anch’esse tese a ridurre al minimo i margini di dissolvenze allusive, così intensificando quella organicità strutturale che distingue complessivamente l’opera di Ruffilli. Tuttavia, questa conclusività che si compie sulla pagina non sembra sciogliere il nodo del doppio campo dell’esistere, dell’ambitissimo luogo istantaneo, il punctum temporis in cui si attua la reductio ad unum delle antinomie, anzi la ripropone come orizzonte critico, specchio non di una concezione privata, ma della condizione sovraindividuale dell’esistenza: se insomma il modulo dell’incisività e della ellissi, accentuato dall’epilogarsi ultimativo di svariati testi poetici, rende l’impressione di un sistema definitorio, contestualmente non fa che riproblematizzare e amplificare la complessità di un enunciato in sospeso per quanto teso alla sintesi. E il sospeso, lo vedremo tra un istante, può riemergere nel testo immediatamente successivo, oppure in opere discoste negli anni: per ostentare il suo superamento, o al contrario per certificarsi quale irrisolto – di una incompiutezza compiuta – confronto e conflitto con la vita e con l’arte verbale.

Tra i lati costanti della ispirazione di Ruffilli c’è l’assunzione delle cose del mondo – e l’umano con esse – nei loro differenti livelli di esistenza: dalla dimensione oggettuale costitutivamente irridente verso l’umano e la sua impermanenza, al materiale empirico, alle relazioni familiari, alla morale per la figlia, a un consuntivo sulla vita e al conto aperto con essa, alla nominazione della autorità del corpo – senza che alcun misticismo del corpo o allusioni al nesso soma-sema interferiscano. L’ultima sezione, pur incrementandosi con interrogativi-asserzioni, e in ultima istanza con il senso stesso dell’interrogare, sigla la più che consolidata visione dell’essere, della vita e dell’estetica di Ruffilli consegnataci con Natura morta.

Non sfugge il paradigma del riuso di sé – riscrivere, riscriversi –, la riproposizione dislocata di brani poetici antecedenti. Qual è la ragione di quell’emblematico indice che è la replica? Che qui si definisce come «ripresa», cioè un prendere di nuovo, un nuovo inizio, e quindi anche un nuovo sguardo, dopo una sosta. Il che, anzitutto, empatizza il lettore all’altezza di correlare il già scritto con nuovi contesti. La ripetizione – la «compagna amata di cui non ci si stanca mai», come Kierkegaard la definiva – allontana lo spettro della staticità ed imita il dinamismo temporale dell’esistente, che nel suo divenire altro porta con sé tracce di anteriore. E il dinamismo è un elemento chiave di una poetica difficile perché fondata sulla metamorfosi. Se la metamorfosi è la misura del mondo, in poesia dà luogo a nuove attinenze e a improvvise disgiunzioni: «È proprio andando che si capisce / qual è il rovesciamento di ogni prospettiva». Il che dà la misura della inesaustività della ricerca di Ruffilli.

Con il nome ripetuto si tende a qualcosa, e questo qualcosa costituisce la base per una nuova ripetizione. Purché non ci si attenga letteralmente alla retorica, per cui la ripresa di un nome o di frasi mira al consolidamento di un concetto. Anche per la circostanza che quel concetto, distolto da quel tempo determinato e installatosi in un altro assetto, ora non c’è piú. È chiaro che in Ruffilli il modello retorico non è vincolante. Ciò che ritestualizzando si intende intensificare è forse un particolare dato di esperienza, qualcosa che non è andato definitivamente smarrito per avere piú di altro inciso in una maniera di essere. Ma Ruffilli guarda sempre in avanti (non è un caso che l’opera inizi con l’immagine, letterale ed emblematica, del treno, guardando dal finestrino: «Scoprendo che la vita ci precede / nel mentre stesso che rimane indietro»). E sul senso della Gjentagelsen l’appena richiamato Kierkegaard diceva: «ripetizione è un termine risolutivo per ciò che fu ‘reminiscenza’ presso i Greci», per i quali conoscere è ricordare. Fu Leibniz, secondo Kierkegaard, a focalizzare il discrimine tra ricordo e un diverso rapporto con il tempo: l’intera esistenza è una ripetizione, un ricordare seguitando. Diversamente Montale: «Altro comfort fa per noi ora, altro / sconforto» (L’Arno a Rovezzano). Mentre in Ruffilli il ricordo si svincola da legami e contingenze temporali, si differisce e si rinnova, si rimette al corrente con il tempo. Søren Kierkegaard, La ripetizione. Un esperimento filosofico (1843): «Ripetizione e ricordo sono lo stesso movimento, tranne che in senso opposto: l’oggetto del ricordo infatti è stato, viene ripetuto all’indietro, laddove la ripetizione propriamente detta ricorda il suo oggetto in avanti. Per questo la ripetizione, qualora sia possibile, rende felici, mentre il ricordo rende infelici» (come traduce Dario Borso).

E Ruffilli: «Nella felicità ci sfiora il tempo / senza lasciare tracce vere / e poi il ricordo, per quanto faccia, / non è capace di far rivivere il piacere». Può esserci allora una felicità meno labile, o diversamente labile, magari conseguita in regime di scrittura? Nel reperimento del nome confacente? Cioè l’integrale sintesi di contenente e contenuto, di incorporante e incorporato? Il più alto grado di essenzialità emblematica. Negli Appunti per una ipotesi di poetica (che seguono Natura morta) Ruffilli affermava di non guardare nostalgicamente al tempo irreversibile, il che comporterebbe vivere un presente imbrigliato in ciò che è stato. Amare il mutamento è piuttosto dimettere la persistenza che flirta con lo scetticismo e con la morte. Per lui, se da un lato non ha senso la nostalgia per ciò che con la metamorfosi costantemente si ricrea, non c’è cosa destinata all’estinzione (e questo è sempre stato uno dei suoi assunti più alti), dall’altro lato mostra di concepire la nostalgia come un sentimento dispersivo, che talora si combina con la voluptas del tempus edax e della caducità. Quello dello spostamento in avanti è un tratto nodale della sua ricerca, e quando il nome riesce a circoscrivere l’informe sfuggente, a stringere la cosa, se non di felicità, si può almeno parlare di felicità linguistica per il conseguimento del suo obiettivo supremo: scongiurare la landa poetica, fin dai lontani anni Settanta. Insisto sul motivo dello spostamento in avanti anche perché spesso la ripetizione chiama e chiede una verifica. Inoltre, l’iterazione legata al dinamismo è il contrario del ricordo che sbarra le vie di fuga e inibisce la durevolezza delle cose del mondo e, di conseguenza, spegne ogni nostra speranza. Così Ruffilli: «L’enigma si disvela nel linguaggio: / le cose vive hanno radici lunghe / che pescano sempre nelle cose morte. / Ciò che rinasce puro si trasforma, / prolungandosi, nella speranza del futuro». E il futuro è l’àmbito dell’agire, un passaggio quindi, non una meta.

Le sezioni Le cose del mondo (eponima) e Atlante anatomico, oltre il loro posizionamento strategico prima dell’affondo finale, se condividono l’idea del catalogo, almeno per un verso ne divergono radicalmente: le cose non sensibili ci sopravvivranno. I nostri organi sono deperibili, mentre le cose hanno i requisiti per resistere al disfacimento. La loro dissoluzione ha tempi lunghissimi, e nessuno se ne avvede. Ma Ruffilli tende ad oltrepassare la mistificazione insita nell’evidenza, quindi suo obiettivo in entrambe le sezioni resta la tensione nominante: volta ad arrestare – senza la certezza di averlo sequestrato o nitidamente identificato, giacché il divenire è anche il fato del nome, come la modalità dell’iterare suggerisce – quell’istante, lo stabile nel fluttuante, quel rapporto essenziale, affrancato dal qui ed ora, tra le diverse proprietà della cosa (abbiamo frequenti incipit in elencazione ellittica, in particolare nella sezione La notte bianca: sono prove di nominazione? Di ricostruzione di processi, come dicevo all’inizio?) ben sapendo che quel quid può per lo più godere di una decisa pronuncia unicamente attimale, per poi impallidire, regredire al rango di accenno, di allusione, avvisaglia, tornare fuori campo nell’impercepito susseguirsi dei fonemi e dei geroglifici fuggevoli, ed essere ingoiato dall’indifferenziato fondo della realtà.

Quanto al catalogo delle parti anatomiche, il nominare incontra la difficoltà di superare la dualità degli «stranieri opposti maschile e femminile». Anche le parti del corpo vogliono essere rianimate attraverso parole scritte che le ravvivino strappandole al vuoto, cioè all’ancòra senza contenuto. Le parole, se profondamente incise, se fondanti una sinergia tra tempo e spazio, in virtù della loro forza di insinuazione nelle cose costituiscono un frammento di mondo, un àmbito sopradialettico e contratto, ed evocano una densità spaziale che dilata i nostri sensi e lambisce le questioni ultime.

Erede a suo modo – e oltre tutto estraneo a crisi autodistruttive – della rimbaudiana alchimie du verbe, o del noter l’inexprimable o del fixer des vertiges è il nominare. Il non rassegnarsi alla intrinseca insondabilità della cosa, per cui il nome è implicato nelle due condizioni della mutevolezza e della fissità nel proprio confine («reticolo», Ruffilli dice), e dal proprio confine escluso magari per tornare a sé più avveduto delle sue tensioni come dei suoi invalicabili eppure dilatabili margini. Nel nominare «È la ragione che si fa linguaggio / volto a spiegare perfino il sentimento». Ma il nome rende fedelmente l’originale che designa, senza adulterarlo o dimidiarne il senso? Siamo al solito dualismo: un conto è viaggiare, un altro è scrivere il viaggio. Qualora non si attinga la «visionaria immaginosa verità» di una parola che abbia incorporato le differenze di cui si compongono le cose. Che abbia sorpreso il loro rapporto omologico. Questo climax sulla nominabilità come plasmabilità di una essenza culmina nell’ultima sezione dell’opera, Lingua di fuoco: qui la parola scritta «emerge su dal fondo», «di colpo cessa di essere in procinto», «esonda», dà «corpo all’ombra», «forma al fantasma» e restituisce «forma contorni e consistenza» al retroscena del visibile.

Da qualsiasi lato lo si prenda, il metodo di Ruffilli comporta uno scatto in avanti che inevitabilmente smorza quel suo peculiare tono ultimativo: rimette continuamente in relazione i termini della sua ricerca, riprende nodi in forma di parole che si sciolgono nel corso del tempo e in corso d’opera, sicché ogni clausola non sarà mai, letteralmente, conclusiva. Come, per rubare una metafora alla musica (territorio ruffilliano di elezione), in una perpetua cadenza d’inganno, oppure in una wagneriana melodia infinita, in cui l’udito e l’anima, delusi dalla mancata quiete dell’obbligato ritorno alla tonica, della costante convergenza verso il centro di gravità dello spazio sonoro, sono ogni volta ridestati dalle nuove evoluzioni, dai sempre risorgenti arabeschi della melodia e dell’armonia.

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