(…) Le persone che stanno dietro ai versi di Raffaela Fazio sono “vittime”: morti violentemente a seguito di un attentato terroristico, di un incidente, di una rappresaglia, di un’impresa al limite, di un femminicidio. Sono morti nell’atto di difendere o salvare altri. Dietro alle tenebre cognitive che ci sono nel rimanere vittima di fattori esterni, il poeta cerca le parole per nominare quel misterioso attraversamento del limite, la “tensione di rottura” che appunto accompagna la divisione della vita dalla morte. Singolare angolazione questa, scelta dal poeta che chiede alle parole le ardue baluginanti illuminazioni di quel misterioso percorso che tende verso il buio, la misurazione di quel “vuoto che risucchia” a un tratto verso altri orizzonti magari, chissà, dischiusi di colpo ai morti ma serrati intanto ai vivi. La domanda non ha risposta: “Fin dove si risale / se il buio non ha uscita / ma solo una pendenza?” E l’altra, ancora più tagliente, anche questa senza risposta: “Cos’è che tiene a galla / se il nulla avvolge tutto?” Se le risposte non si trovano, che valga almeno l’ipotesi: “La morte è un tronco cavo / quasi un nido / intorno a cui resiste il verde. / Non si sopravvive / mai del tutto. / Né mai del tutto / ci si perde.” Approdo sapienziale, già di per sé significativo. L’indagine del poeta si fa ancora più penetrante nell’affrontare l’esperienza di quelle che possiamo chiamare “vittime consapevoli”, più o meno consapevoli insomma di offrire se stesse alla sopravvivenza di altri, per istinto materno, per sprezzo del pericolo, per generosità, per una spinta del profondo. Con mano leggera la poesia di Raffaela Fazio ci conduce dentro quegli attimi estremi in cui si consumano le speranze e le decisioni. Ed eccoci trascinati di fronte alla battaglia in corso, mirabilmente descritta: “Due forze in gioco: / la natura imparziale / e la scelta / dell’uomo che sposta /di tre quarti d’oncia”, cioè il peso dell’anima, “l’ago della bilancia.” Occasione sorprendente e coinvolgente per chi legge. (Paolo Ruffilli)
Raffaela Fazio Meccanica dei solidi Solid Mechanics Traduzione inglese di Patrick Williamson Prefazione di Paolo Ruffilli Postfazione di Giancarlo Pontiggia Pasturana (AL), puntoacapo editrice, 2021
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All’età di 76 anni, Liviu Librescu fu tra le 32 persone uccise durante la sparatoria del Virginia Polytechnic Institut, il 16 aprile 2007. Seung-Hui Cho entrò nel Norris Hall Engineering Building e aprì il fuoco nelle aule. Librescu, che teneva una lezione sulla meccanica dei solidi nell’aula 204, chiuse la porta della classe e si frappose col suo corpo, impedendo all’omicida di entrare. Permise così alla maggior parte dei suoi studenti di uscire dalla finestra. Lui fu colpito da cinque proiettili attraverso la porta; quello alla testa risultò fatale. Liviu Librescu, ebreo di origine rumena, era sopravvissuto alla Shoah.
Aula 204, Meccanica dei solidi La porta è attraversata dagli spari e il corpo non si stacca è viva barricata massa cosciente premuta contro il nulla. In cima a quello la carne adesso esplora un altro spazio: la forza che al buio sopravvisse ricava dall’interno una risposta che ha la forma di una finestra aperta nel muro della classe. (A questo è infine destinata la luce covata in lunghi anni?) Da lì si caleranno in ventidue. Non lui. Per lui, un quinto colpo. Si schianta nella testa l’ultimo tratto di filo spinato. E il carico scompare. Non si è sottratto né si è piegato all’attimo spurio. Cosa offre alla storia? Il perdono? Piuttosto ciò che al corpo è rimasto: (estrema, generosa) la sua sola tensione di rottura.
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Lori Jackson, trentaduenne, è morta il 7 maggio 2014 a Oxford, nel Connecticut, uccisa dai proiettili di una calibro 38 impugnata dal marito, Scott Gellatly, che, nonostante l’accusa di aggressione e l’ordinanza restrittiva temporanea, era legittimo detentore dell’arma da fuoco. Scott fece irruzione nella casa della suocera, Merry Jackson, dove Lori si era trasferita con i suoi due gemelli di 18 mesi per sfuggire alle violenze domestiche. Vedendo che Scott aveva puntato la pistola contro la madre, Lori si gettò davanti a lei per proteggerla e fu colpita quattro volte, morendo sul colpo. Merry Jackson rimase ferita ma sopravvisse. Da questo fatto di cronaca ha preso avvio una campagna in favore di una legge federale che impedisca a chiunque abbia un’ordinanza restrittiva temporanea di accedere a un’arma da fuoco.
Una casa Una casa potrebbe contenere l’innesto della cura, il silenzio il gioco stagionale di buio e di primizie. La sua invece si è seccata. Lei l’ha recisa perché non si torcesse al collo dei suoi figli la radice. È scappata. È tornata alla casa materna dove il sangue dolente s’immette nel flusso accogliente. “Resti carne della mia carne”. Tra le due anche adesso c’è un unico corso un legame immune agli spari. Mentre il corpo si getta sul corpo che protegge la linfa pare scorra in senso inverso. La morte è un tronco cavo quasi un nido intorno a cui resiste il verde. Non si sopravvive mai del tutto. Né mai del tutto ci si perde.
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Muelmar Magallanes, muratore filippino di Baranguay Bagong Silangan, è morto diciottenne il 26 settembre 2009 durante un’inondazione provocata da una tempesta tropicale. Abile nuotatore, portò in salvo oltre trenta persone, fino a che, allo stremo delle forze, annegò sotto un muro di cemento crollatogli addosso.
Cantiere d’acqua La pioggia gonfia il fiume insistente più forte dei mattoni e dei tetti di lamiera. Così poco le basta per disfare un’intera giornata di lavoro. Batte e smantella. E lui lotta per sottrarle il cantiere di fango, di mani senza appiglio: sulle spalle porta un carico che cresce. Nuota e capisce che quell’opera è preziosa, la più urgente. Ritorna, non molla quando afferra. Per un istante – al muto crollo del muro di cemento – la pioggia incessante finisce.
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Durante la seconda guerra mondiale, Marianna Biernacka fu fucilata il 13 luglio 1943 a Naumowicz presso Grodno (attualmente in Bielorussia), dove era stata condotta dai tedeschi insieme al figlio Stanislaw, a seguito di un arresto di massa avvenuto tredici giorni prima a Lipsk, come rappresaglia per l’uccisione di un soldato tedesco. Marianna aveva chiesto di prendere il posto della nuora Anna, incinta di otto mesi e madre di una bambina di due anni. Lo scambio fu accettato. Marianna aveva 55 anni.
Lo scambio Scrivere, leggere, sa farlo appena. La terra però la conosce bene nella durezza, nelle stagioni. Contare, quanto basta. Ogni sottrazione l’ha appresa dalla sorte. Due figli rimasti, quattro morti. Ma ora si prende la rivalsa. C’è chi dice che la legge è questa proporzione uno a dieci. Allora lei contratta coi soldati. Bara e ci riesce: la sua vita vissuta per due ancora fresche. Davanti al drappello (come quando tastava le zolle) già sente che spunta qualcosa dal sangue – non solo da quello di chi, gridando, partorisce.
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Una donna, rimasta anonima nei mass media, ha perso la vita il 3 agosto 2018, soffocata dai fumi di un incendio divampato nell’appartamento in cui viveva, al quarto piano di una palazzina di Xuchang, in Cina. La donna aveva gettato due lenzuola dalla finestra e, dopo essersi assicurata che i vicini per strada le avessero afferrate, ha lanciato prima il figlio di nove anni e poi la figlia di tre. Subito dopo, la donna ha perso le forze. I vigili del fuoco l’hanno trovata svenuta, accanto alla finestra. All’ospedale, non è stato possibile rianimarla. Entrambi i figli si sono invece salvati.
Gravità Dopo il parto ogni madre allatta coi figli una piccola morte: li prepara a scordarla quel tanto che basta alla vita. Li cresce, li vuole leggeri più forti. Leggeri lo saranno abbastanza? Ora il fumo ha riempito la stanza. Il suo istinto le grida: sono i tuoi sono tutto non darli. Ma lei getta due lenzuoli di sotto e nel vuoto assoluto dopo il primo, il secondo dei corpi. Intervallo infinito. Poi il suo fiato si spezza. Resta sola là in alto per assenza di peso. L’ha sfinita quel salto che salva, il cordone reciso dall’ultima spinta con la quale l’amore inventa, diventa il suo estremo: violenza.
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Raffaela Fazio A grandezza naturale (2008-2018) Prefazione di Daniele Barbieri Osimo, Arcipelago itaca Edizioni, 2020
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I. Il senso e l’andatura
Controluce La vita appare a grandezza naturale se emerge il Fuoriposto e si fa ingombro come macchia scura contro il sole: risuscita i contorni nascosti fino allora nella dismisura della luce (cresce la forza grazie all’espansione di ciò che all’improvviso la confina) e nel momento in cui fa quasi male ci libera la vista sul reale. * Verbum loci Vieni e vedrai. Non potrai farlo prima da qui, dall’acquis col bordo a fiorami del pensiero che sporge solo un po’ dal davanzale. Scendi. Vieni. Vieni e dirai. Perché è la geografia della parola che l’invera. Lo spazio crea il verbo che gli è proprio (ricordi dove piano dissi “ti amo”?) come ogni spezia è tesa al suo profumo. * Emigrati Compiuto è il passo verso un di là, un altrove che sempre resta tale. E più lodiamo (a ragion veduta) il salto, il tanto il ricco corredo più si aggruma incongrua la voglia del grembo primordiale di un sapore piccolo e abissale, natio. Di avere ancora un Dio. * La memoria Come al salire il respiro si assottiglia e frana un poco il greto per quanto sia sicuro il passo così è l’inerpicarsi del pensiero in cima alla memoria. E quando sembra giunto invece è proprio là l’esile schianto dove non c’è muraglia se non quella del cielo. Il varco inesistente attraversato di colpo porta a valle nuovamente. Però senza rimpianto.
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II. Cento modi per chiamare o nessuno
Vuoto Vorrei avere tempo. Tempo da perdere. Vorrei un’anima. Un’anima a perdere. Vorrei che il fuori fosse pari al dentro. Che per le parole fosse il silenzio stampo. E che l’eterno colasse nello sfragis di un lampo. * Ars scribendi A volte è allo scoperto, di rimbalzo. A volte, nel fodero più ruvido nell’urto di due tempi o due misure. Ma è questo, sempre: un furto. E il suo bottino sopra un panchetto zoppo alla mercé del nulla è prova che lo scippo è solo per amore. * Esercizio Sono qui (come una volta a scuola) a scomporre il difficile in più innocue parti. E sbaglio. Invece di scindere il dettaglio arto per arto, dovrei scavalcare il cadavere riverso non prenderti parola per parola ma uscire incontro al fuoco saltando tutto il verso. * Ho cento modi per chiamare. Con un fiocco un neo un profumo di stagione. Gli uomini miei simili rispondono al mio cenno. Solo gli alberi del parco non lo fanno. Quando li chiamo – se chiamo e sono altrove – nulla si muove. Come fiutassero un vuoto, una finzione. * Dolore, ti riconosco dal volo circolare. Non mi importa da quali altezze provieni. Né voglio sfuggire al becco che si allunga verso la memoria. Si dice che da dentro, dal cuore la preda ti implora, che da dentro comincia la sfida. Ma è là dentro che ti lascio sfamare. E da fuori mi sforzo. È da fuori che inizio la lotta con la piega che taglia la bocca. Io la incurvo al sorriso. La esploro. E lo so, non mi sbaglio. Le mie labbra avranno la meglio.