Oggi posso ben dire che l’impresa è giunta al suo termine: ho appena consegnato all’editore l’ultima versione interamente rivista del secondo volume che ospiterà la mia traduzione dell’opera poetica di Stefan George.
È stato un impegno lungo (almeno due anni), nient’affatto facile, ma entusiasmante e fecondo.
Come scrivo nell’introduzione al volume, l’intera traduzione è a servizio del testo originale, serve, umile ma completa, a proporre (o a ri-proporre) al lettore italiano un’opera poetica importante e ineludibile per bellezza d’impianto (ogni libro di Stefan George è stato minuziosamente studiato e architettato dal suo autore), per soluzioni formali (la lingua tedesca viene onorata e fatta vibrare nelle sue più intime bellezze come accade nei testi di Goethe, di Hölderlin, di Heine per citare tre Grandi precedenti a George), per tensione speculativa.
È stato l’incontro con un autore che non amavo – e che non riesco a tutt’oggi ad amare, ma del quale ammiro la bravura di “miglior fabbro nel parlar materno” e la bellezza (sublime) del discorso amoroso: George è, ai miei occhi, un immenso poeta d’amore, capace di commuovere e di affascinare, d’intenerire e di lasciare ammirati davanti alle modulazioni del sentimento, alle sottigliezze del pensiero, agli effetti di suono e d’immagine, ché il suo dire dell’amore sa essere Liebesrede rivolta all’essere amato e, contemporaneamente, amore in atto per la lingua tedesca.
MA c’è il tratto estetizzante (molto marcato e ricorrente), c’è un esplicito elitarismo, un’ideologia reazionaria e conservatrice che non posso e non voglio amare: al di là della vexata quaestio circa la vicinanza tra Stefan George e il Nazionalsocialismo, leggerne e tradurne l’intera opera poetica significa attraversare una stagione della poesia e della cultura europee segnata da un irrazionalismo, da un’avversione per la contemporaneità e da un estetismo che indubbiamente hanno anche alimentato ideologie fasciste e mortifere.
Può apparire un paradosso, ma assicuro che è così: tradurre un poeta d’indubbio valore senza riuscire ad amarlo è esercizio stimolante e nutriente, aggiunge difficoltà alla già difficilissima sfida di trans-ducere la poesia di George in italiano perché significa anche misurarsi con l’opera sul terreno delle scelte di gusto e della prospettiva storica, significa doversi confrontare con le valenze differenti che l’espressione poetica assume. E significa dover riflettere sulle responsabilità di chi si rivolge a dei lettori; sia chiaro: scrivo in un tempo in cui la poesia sembra non avere alcun peso né politico, né sociale – malgrado venga “insegnata” a scuola: ma come? lì viene compresa, amata? e dopo gli studi quanti continuano a leggerla? – nel quale essa sembra neanche più esistere – malgrado l’esercito (immane, trepidante, formicolante) di poetini e di poetine che scrivono e pubblicano, pubblicano e scrivono – ma nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento, essendo ancora ben altre le condizioni economiche e sociali, un poeta come Stefan George era ascoltato e poteva addirittura proporsi come vate e guida spirituale: ed ecco che, a studiarla e a tradurla, quella parola appare ancora alta e degna in sede di lirica amorosa o quando esprime il desiderio sia erotico che di rinnovamento spirituale (sì, quella di Stefan George è poesia del desiderio e della sua irrealizzabilità), ma rivela la sua fallacia quando si profila quale celebrazione dell’irrazionalità e di un misticismo che attinge a fonti disparate oppure addita un primato nazionale la cui idea, in Germania, ha portato ai campi di sterminio e alla guerra…
A leggere e a rileggere si può intravedere la sincerità del poeta, il suo credere (ingenuo appare adesso) nella possibilità di un rinnovamento pacifico e sovranazionale, la sua fede totale nella capacità redentrice e salvifica della parola poetica, ma la distanza temporale e critica porta a sollevare dei dubbi (e molti e gravi): e tradurre George pur senza riuscire ad amarlo significa provarsi a documentare un itinerario della poesia che, in controluce, ne evidenzi le debolezze e i fallimenti, le strappi via definitivamente ogni aura metafisica, ogni equivoco spiritualista, ogni patina religiosa.
Di Stephen George ho comprato il primo volume da lei tradotto e confesso che non pochi dubbi mi ha lasciato il poeta, di cui conservo la memoria di poche poesie, pur apprezzando molto lo stile, la forma poetica e la “capacità di contenere il mondo” (F.Gundolf) che si esprime nei suoi versi.
Leggendo ora questo suo scritto, capisco molte cose e mi chiedo di quanto la sua bravura di traduttore abbia abbellito e resa molto più gradevole la lettura di questo libro.
Gentile Marina, grazie per il suo articolato, motivato commento.
Come avevo già scritto in passato la proposta di tradurre l’intera opera poetica di George mi era giunta da Nanni Cagnone e da Marco Albertazzi; l’avevo accettata come una sfida, anche pensando che è fin troppo facile, da un certo punto di vista, tradurre quello che già si ama…
Penso che per molti versi George sia lontano dai miei gusti personali e da quello che intendo per scrittura in poesia, ma lo svolgersi di una letteratura è fatta anche di tappe controverse, oscure, insidiose che occorre indagare e conoscere.
Può apparire un paradosso, ma assicuro che è così: tradurre un poeta d’indubbio valore senza riuscire ad amarlo è esercizio stimolante e nutriente.
Posso soltanto sottoscrivere questa considerazione. E aggiungere una esperienza personale…. in quanto traduttrice di Marinetti….
Qaunto a George :
Wer niemals am bruder den fleck für den dolchstoss bemass
Wie leicht ist sein leben und wie dünn das gedachte
Solo per questi versi….
Grazie, gentile Stefanie, per i suoi interventi; nell’opera di George ci sono in effetti molti luoghi che lasciano, diciamo così (e so che si tratta di un eufemismo), perplessi…
Posso immaginare che cosa possa significare tradurre Marinetti (o d’Annunzio) in altra lingua.