Giù i pantaloni!

Pubblico il primo di una serie di contributi che con impagabile generosità Lorenzo Mari offre alla Dimora del Tempo sospeso; nel ringraziare e nel salutare il carissimo Lorenzo mi permetto di sottolinearne la grande competenza critica, la bravura di traduttore e di studioso e il valore di poeta e scrittore  [A. D.]

*

 

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lettura critica  di Lorenzo Mari a I pantaloni del Po di Giancarlo Fabbri (L’arcolaio, 2020)

 

Trovo non poche difficoltà, nel tentativo di parlare de I pantaloni del Po (L’Arcolaio, 2020) di Gianfranco Fabbri.

È una difficoltà, innanzitutto, dovuta al rapporto di amicizia e di collaborazione che da tempo mi lega al lavoro di Fabbri, nel suo ruolo, da quasi quindici anni, di deus ex machina de L’Arcolaio, tra Forlì e Forlimpopoli. Invece di nascondere questo sodalizio – come troppo spesso accade nelle recensioni amicali dei libri di poesia – ne voglio dare conto nel modo più trasparente possibile, così come, del resto, fanno Gian Ruggero Manzoni nella sua introduzione (fino a rievocare quel “Manifesto del Visceralismo”, di alcune decadi orsono, che l’ha visto protagonista, insieme a Fabbri e a tanti altri artisti e intellettuali dell’area romagnolo-ferrarese), e Roberto Dall’Olio, già autore per i tipi dell’Arcolaio, nella sua postfazione. Ma è soltanto in questo modo, in fondo, che si viene a delineare una comunità autoriale che sia contigua, eppure, al tempo stesso, visceralmente diversa, dalle congreghe real-virtuali grandi e piccine che costellano il panorama poetico attuale, nonché una comunità valorosa, perché portatrice di valore. Cercherò di parlarne anche a conclusione di questa breve nota.

Un’altra difficoltà nasce dalla scarsità di riscontri critici disponibili sul libro, nei mesi intercorsi tra la pubblicazione del libro e la stesura di queste righe. I pantaloni del Po, a mio avviso, non meritano questa indifferenza, che talvolta rasenta i confini dell’omertà, secondo un comportamento anti-etico che, purtroppo, è assai diffuso nella comunità poetica, se presa in un senso più allargato. Tuttavia, la scarsità di note critiche su questo libro è dovuta, con ogni probabilità, anche alla stessa difficoltà del testo, che qui cercherò anch’io di eludere e di circumnavigare, e non di rivelare o, peggio, “spiegare”.

I pantaloni del Po è, infatti, la ripubblicazione integrale della silloge di Fabbri apparsa quarant’anni fa, all’inizio del 1981, per i Quaderni di “Nuovo Ruolo” di Forlì, già all’epoca con interventi critici di Gian Ruggero Manzoni, Emmanuele Gaudenzi e Giancarlo Tugnoli. La distanza temporale rende il tentativo di approccio critico ancora più arduo, ma per estremo paradosso – e qui vengo ai grandi motivi di interesse del libro nel 2021 – I pantaloni del Po sono un libro nuovo, freschissimo in certe acque stagnanti e a tratti lutulente della poesia italiana contemporanea, un libro difficilmente incasellabile e, per questo, prezioso.

In questo senso, l’introduzione di Manzoni fornisce un indizio molto rilevante, allorché evoca un armamentario retorico assai tradizionale – «la metafora, l’analogia, la sinestesia, l’allegoria» (p. 10) – in un contesto che, per altri versi, risulta ricco di «accostamenti imprevisti, a volte ambigui o quel tanto ermetici» (p. 10). L’indizio lasciato da Manzoni può tuttavia, a mio avviso, essere completato dalla negazione o, meglio, dal superamento di un ermetismo che, già quarant’anni fa, come anche oggi, riveste scarsa fungibilità, se non anche scarso valore, nel panorama poetico italiano.

Certo, I pantaloni del Po è un’opera costruita su un chiaro procedimento allegorico – il fiume più lungo d’Italia, la cui presenza/assenza domina in tutta la pianura padana, è un personaggio dall’anatomia ora epica, ora mitica, ora storica, ora più naturalistica e quotidiana (…lontani, insomma, sono i tempi di Eridano, per Fabbri!) – e il risultato è caratterizzato da una visionarietà che non è soltanto analogica, e non è nemmeno riconducibile a un approccio meramente surrealista. Tutt’altro: dalla «bio-magnetica degli oggetti» (p. 17) dell’Avvertenza in poi, la centralità della funzione scopica non è di certo convenzionale o tradizionale – stereotipata, in altre parole – ma consuona a fondo con il rinnovamento portato in quello stesso anno dalla pubblicazione di un libro come Ora serrata retinae (Feltrinelli, 1980) di Valerio Magrelli.

Accantonata la poetica dell’oggetto della linea lombarda o il correlativo oggetto caro a Montale e ai montaliani – per quanto vari accenni in direzione dell’uno o dell’altro polo siano ancora presenti, tanto in Magrelli come in Fabbri – gli oggetti son qui dotati di una loro bio-magnetica, che porta le “cose” a inedite sovrapposizioni (si veda, ad esempio: «Sopra le impressioni ci sono i granchi», p. 26), intersezioni e anche conflitti con le “parole”: «Ora le cose potrebbero uscire fuori, / come la tisi, tutte tra gli argini / a sottolineare il fiato del gorgo» (p. 33).

A proposito di quest’ultima citazione, potrebbe forse essere un collegamento piuttosto disinvolto quello che porta alla Sera di Gorgo di Umberto Bellintani. Anche se non mi sono mai confrontato direttamente con l’autore sulla bontà e l’utilità di questo legame, il poeta mantovano (nato nel 1914 e vissuto fino al 1999 in una frazione di San Benedetto Po chiamata nomen omen, come Bellintani ben sapeva, Gorgo) risulta, in ogni caso, accostabile, e con grande facilità, alla poesia di Fabbri. Del resto, nei primi anni Ottanta, Fabbri è stato un accanito frequentatore dell’Oltrepò mantovano, con un’attenzione per questi luoghi, non di rado desolati e terminali, che si ritroverà molti anni dopo nello sguardo di un altro autore diversissimo, Gianni Celati, catturato da Davide Ferrario in Mondonuovo (2003), nell’omonima località del ferrarese.

Oltre ad aver recepito più o meno consapevolmente il magistero di Bellintani, Fabbri è stato sicuramente in contatto con altri due poeti originari della zona, Alberto Cappi (1940-2009) ed Elia Malagò, nata a Felonica nel 1948. (Per chi voglia approfondire l’opera di quest’ultima poeta, è disponibile in rete una versione di Pita pitela, libro del 1982, curiosamente stampato anch’esso a Forlì, per i tipi di Quinta Generazione, e anch’esso ambientato nel medesimo lembo di pianura padana). Rispetto a Cappi e Malagò, però, Fabbri ha una più chiara attenzione verso la dimensione allegorica del testo, che, come si diceva, è chiara già dal titolo del libro, con quei Pantaloni del Po che si troveranno poi «sulla schiena di ostiglia» – di nuovo in territorio mantovano – «stirati per la dipartita in verticale / perché voglion studiare da ingegnere, / con goniometri e righe dalle tacche d’osso / dei morticini di un polesine che ha chiuso i battenti» (p. 35).

Nonostante il riferimento al Polesine che, per mancanza di un’attenzione storica, culturale e politica continuativa sull’area, ricorda immediatamente le grandi alluvioni del Polesine del 1951 e del 1966, l’allegoria non è di tipo storico, come nota anche Roberto Dall’Olio nella postfazione. Nel libro sono certamente presenti altri possibili appigli per una lettura storica: in appendice, ad esempio è inclusa l’immagine di copertina dell’edizione 1981, Der Arbeiter im Reich des Hakenkreuzes, ora come allora deprivata dell’originale svastica di fondo; oltre a «rappresentare il fiume inquinato e i suoi affluenti» (p. 65), l’immagine non può che rimandare, per quanto sottilmente, alla tragedia storica della Shoah. Una storia di orrore e contaminazione che, però, I pantaloni del Po non raccontano mai esplicitamente, se non attraverso rapide aperture verso il modo epico – «Ripeto d’aver visto nascere villaggi» (p. 51) – subito negate da una temporalità che di fatto non é né storica né epica, rivelandosi piuttosto una «finzione» che «fa spallucce» (p. 38).

Una strategia di abbassamento, questa, che non è soltanto ironica, ma rimane integralmente aperta alla possibilità della vergogna e dell’umiliazione, nella modalità dell’esposizione in campo aperto che è propria della poesia di Fabbri e che si ripresenta in quei “pantaloni” che sono a più riprese abbassati e offrono i glutei alle scudisciate del male, tanto storico quanto metafisico. Il fiume, in fondo, attraversa faticosamente il suo Golgota – un’immagine frequente, nella silloge – prima di sfociare in mare, in un martirio che è insieme traccia di un amore sensuale che cerca di fluire nonostante gli intoppi, le lordure, le opposizioni.

È, dunque, con questo grande armamentario retorico-ideologico – trattato, come si è visto e come si potrà apprezzare ancora, nei testi qui inclusi, con garbo e levità – che si ripropone, a quarant’anni di distanza, l’opera di Fabbri, difficile, difficilissima, eppure fresca e nuova ancora oggi. Un’ultima parola, in questo senso, si deve alla sua nuova collocazione: Fabbri ha ripubblicato I pantaloni del Po nella collana “rossa” della sua casa editrice, L’Arcolaio, aperta, in passato, dai Dodici, ossia dalle traduzioni di Aleksandr Blok e Paul Celan a cura di Dario Borso, e poi proseguita con i libri di Gian Ruggero Manzoni (Nel profumo delle catacombe), Mauro Germani (La parola e l’abbandono) e Gabriele Gabbia (L’arresto).

Lungi dal proporre un’auto-canonizzazione o una proposta estetica in tutto e per tutto omogenea – niente di più difficile, questo sì, di immaginare una militanza poetica comune, tra la parola prosciugata fino allo stremo di Gabbia, nell’Arresto, e la fluvialità bloccata, ma a tratti dirompente, di Fabbri…! – la collana “rossa” è una proposta di comunità poetica da seguire, scoprire e ri-scoprire – seguendo quanto già fatto, legittimamente e con merito, dall’editore con la ripubblicazione di questo splendido libro.

TESTI

Eccola, dunque, nel cono di velina
con le gambe all’insù, nel campo
degli ioni ricoperti nel tugurio.
Saremo lieti di ospitarti
nelle ossa dei vecchi,
con l’umido di ottobre,
da dove noi, non dove,
non parleremo.

Tu che mi segui sai che le ossa
dei vecchi sono rade unghie a spiare:

*

Nel buio dello scuro dentro
è proibito rapire il cosmo
anche se siamo già oltre ed è inutile
auscultare le lucertole
tra le dita dei piedi
	che furono,
e che lo sono ancora
perché hanno la forma del tempo.
Belli con i frammenti
i presocratici studiano quelle membra,
e gridano alla potenza di parmenide,
al suo		fermi!
		ancora lì!
per le fessure che danno terra.
Fu poi la pressione, lei premette
tra la gola, come per scivolare
tutta la rabbia dei vermi-re.
Alleluja!, gridarono insieme,
pur non sapendo muovere.
È qui la nuova razza
giacente per necessità,
come le unghie che provocano
spacchi tra pelle e pelle,
nei metri dei dimenticati.
Perciò, alleluja! Ripeterono,
e vino a mente spenta,
come santi a galoppare per icone.

*

Mantova sotto
nel mio cielo è cosa,
dove regnano i pesci col rhum;
è stata nebbia bagnata oltremodo,
con un processo di me.
Dopo ho capito che il fiume era lago,
mare e poi meno,
supposto che tornino le luci.
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5 pensieri riguardo “Giù i pantaloni!”

  1. Non so cosa dire. L’emozione mi prende alla gola. Ringrazio Lorenzo Mari per questa approfondita recensione sul mio antico libro. Mari ha scovato delle caratteristiche anche a me nuove. Lo ringrazio infinitamente. Un grazie anche all’editore di questo prestigioso blog, l’amico carissimo Francesco Marotta.
    Un abbraccio forte a voi . Oggi è una bella giornata. Gianfranco.

  2. Un grazie ad Antonio Devicienti, l’ottimo organizzatore di questa rubrica. Un critico letterario che vorrei sempre avere nelle pagine introduttive dei libri Arcolaio. Un grazie profondo. Con tanta stima!
    Gianfranco.

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