Ai margini della cancellazione: su “Ciò è” di Franck Venaille

Saba-BolaffioContinua a essere assai meritorio il programma della Casa Editrice Ibis – FinisTerrae che pubblica la traduzione di autori d’indubbio livello affidandola ad altrettanto valenti traduttori (ne ho già scritto qui e qui).

È il caso del volume Ciò è che offre la traduzione, con testo francese a fronte e curata da Bruno Di Biase, di C’est à dire di Franck Venaille.

Pubblicato da Mercure de France nel 2012, C’est à dire conferma i caratteri peculiari e riconoscibili della poesia di Venaille, abitata dai paesaggi marini e sabbiosi delle Fiandre, dagli spazi dilatati della laguna veneziana, accesa dalle improvvise irruzioni di episodi violenti e barbari della guerra d’Algeria o, viceversa, da dolci e sensuali apparizioni di forme del corpo femminile, ritmata dal vento, dal moto di un ferry boat o di un tram, annodata a suggestioni derivate da Döblin, da Pound, da Saba, dai mistici fiamminghi, da Verhaeren.

Leggere Ciò è significa ritrovare la poesia quando fa male (perché anche la vita può far male) e quando si fa melancolia (come l’infanzia perché irrecuperabile oppure perché ha mancato alle sue promesse o ha negato la felicità), quando si offre come patria elettiva (le Fiandre e la Laguna, appunto, per il francese Venaille) e quando è promessa e anche presenza di un corpo femminile, o quando è puro godimento del linguaggio e dei suoi ritmi, delle sue invenzioni.

C’è un non negoziabile e un non barattabile senso di libertà nella poesia di Franck Venaille, uno spirito errabondo che riconosce nel Nord il paesaggio della propria sottile tristezza (che non è mai luttuosa né piagnucolosa, si badi) e anche della propria irrinunciabile umanità (ama i bar dei porti di Dunkerque e di Ostenda, ama la cadenza e l’accento degli avventori, ne ama le camere d’albergo, i nomi scritti sulle fiancate delle navi attraccate); Venezia e la sua laguna sono marezzate e silenziose, cangianti e specchianti proprio come i versi di C’est à dire – titolo che genialmente Di Biase non traduce con un apparentemente ovvio “cioè”, bensì con un Ciò è, espressione nella quale molta energia viene irradiata dall’elemento dimostrativo ché l’originale francese si divarica tra il senso di “vale a dire, ovverosia” e quello di “c’è da dire che, va detto che”. L’intero libro possiede infatti una forza del dire, del pensare e del sentire derivante dalla potenza stessa della lingua, del ritmo, dell’architettura dei singoli testi, è la lingua che mostra i paesaggi, i pensieri, che esce dalle secche dell’io e del solipsismo per articolarsi in magistrali sequenze e d’immagini e di ritmi.

«Così, il mare ampliava il nostro campo visivo, svolgendo la sua storia segreta, antica, protetto dalla sua armatura, scrutando in lontananza al fine di prepararsi a rintuzzare l’invasione di volgari legioni – bestemmianti – che puzzano di alcol e di tabacco di barbara truppa» scrive Venaille (p. 117) in pochi righi che possono essere interpretati anche come una dichiarazione di poetica e di scelta esistenziale: la sua (davvero grande, davvero segnata dalla grazia) poesia è anche poesia dello sguardo e resistenza a qualunque assalto della violenza della storia e della bruttezza intesa come offesa alla dignità dell’uomo e alla nobiltà della lingua – ecco, resta la lingua la patria più vera di Venaille e la lingua può chiamarsi eros («ma lei stava là, solitaria, sul binario della stazione, ad aspettarmi – in piedi – / capelli biondi al vento, corpo eretto, spacco nel basso ventre: fedele!» p. 49), Fiandra («Porto l’insonnia in me come un tempo i miei antenati fiamminghi la peste» p. 283), Venezia («Là / Attraversato il ponte di legno, ecco le Corderie, / immen- / so corpo vuota- // To del suo naviglio» p. 177), Trieste («Per esempio, cosa faceva Umberto Saba col suo berretto in testa quando scriveva  l’Ernesto?» p. 259), può chiamarsi mare, lontananza, infanzia (sono indimenticabili versi come «Io ero un uomo amorevole e fragile / io ero colui che / fuggiva l’antico bambino rimasto in lui. // Simile / agli uccelli / (da me amati) / che si strappavano dalla gola quei gridi / Che li ri- / portavano indietro di diversi secoli» p. 155) e il poeta talvolta divarica i vocaboli della sua lingua costringendoli a un enjambement radicale ed estremo perché la lingua è anche una rete da tendere e da contrarre, da aggrovigliare e, quando necessario, da lacerare, da intrecciare con altre reti-lingue per trattenere nella tramatura della poesia quello che il vivere dà e toglie. Di conseguenza anche le spaziature, i rientri, gli allineamenti dei versi, l’impiego talvolta inatteso dell’iniziale maiuscola portano a dover considerare la pagina anch’essa come un paesaggio mobile entro il quale inventare dei cantos fiamminghi ispirati a Pound («Quel leone / che / tutta la notte ruggiva, patetico, ingabbiato come / fu / e sarà / ezra pound» p. 179) o rammentare laconicamente le «esequie di Enrico Berlinguer» (p. 187), oppure rileggere Berlin Alexanderplatz («Al suolo è diver / so / per via dei movimenti del porto & delle banchine, / lì, dove rileggo / Berlin Alexanderplatz / con i gruisti che s’interrogano sulla presenza in / pieno cielo / di / quell’uomo venuto / dal Nord» p. 147) o, anche, chiedersi: «A questo punto / perché mi sono messo a pensare a / Vittorio Bolaffio / l’ / amico pittore di Saba mentre riven- / dica / con accanimento / la sua appartenenza al clan di quelle & quelli /che / si situavano / dove? // alla retroguardia della retroguardia» (pp. 151 e 153). “La retroguardia della retroguardia”, si faccia attenzione, è l’esatto contrario, per Franck Venaille, del ritrarsi in un eventuale “privato” o del rinunciare all’azione, ma l’etica di una libertà conseguita e perseguita anche con dolore “ai margini della cancellazione” (p. 97), come s’intitola una delle sezioni del libro, sempre scrutando l’orizzonte dove si toccano la fragilità estrema dell’esistere, la bellezza inebriante del mare, l’irrequietezza dell’andare, acque geograficamente distanti e che la scrittura unisce («quel su & giù tra il mare del nostro Nord e la lontana laguna, infine uniti» p. 119).   

SCELTA DI TESTI

Dans l’appartement 100 & 1 du Thermae Palace Hotel une robe noire outrageusement décolletée gît (oubliée? exhibée?) sur la moquette. Je revois le corps qui se glissait à l’intérieur. C’est peut-être là que j’ai commencé à réfléchir sur la présence de la narration politico-lyrique en poésie.

Nell’appartamento 100 & 1 del Thermae Palace Hotel un vestito nero oltraggiosamente scollato giace (dimenticato? esibito?) sulla moquette. Rivedo il corpo che vi era infilato. Forse è là che ho cominciato a riflettere sulla presenza della narrazione politico-lirica nella poesia.
(pp. 14-17)



C’est là. Qu’il nous faut vivre. C’est ici. Nous montons la garde devant l’entrée de l’Arsenale, dos appuyé contre cette plaque de marbre sur laquelle Dante, chaque nuit, vient graver de nouveaux vers pour sa Divine Comédie. 

Dante bien réel parmi nous.


È qua. Che dobbiamo vivere. È qui. Montiamo la guardia davanti all’entrata dell’Arsenale, schiena contro la lastra di marmo sulla quale Dante, ogni notte, viene a incidere nuovi versi per la sua Divina Commedia.

Dante, così reale tra noi.
(pp. 16 e 17)



c’est toujours en chambre close que ça se produit
un à un les mots s’enfuient dans un exode de marée hau-
Te, corps fendu sur le côté d’où sort l’épais sang noir.

è sempre nel chiuso di una camera che ciò avviene
una ad una le parole fuggono in un esodo di marea al-
Ta, carne aperta sul fianco, da cui sgorga il denso sangue nero.
(pp. 34 e 35)
Je
ne sais
pas
mais parfois

quand le ciel s’enveloppe dans 
une sorte de bâche grise

même 
le 
bonheur
fait mal

MIDDELKERKE


io
non lo
so
ma a volte

quando il cielo s’avvolge in
una sorta di telo grigio

persino
la felicità
fa male

MIDDELKERKE

(pp. 100 e 101)
Ô comme la poésie est fraternelle lorsqu’elle ouvre son sac de visions terrestres. Nous n’aimons pas aller plus en avant dans l’inconnu. J’étais la peur.

O com’è fraterna la poesia quand’apre il suo sacco di visioni terrestri. Noi non amiamo spingerci più in là nell’ignoto. Io ero la paura.
(pp. 204 e 205)



Ainsi me suis-je mis à aimer ce qui était propulsé
                           dans ce monde
                         hors de l’écriture

                Le petit jour dans les îles 
     Un simple oiseau revenu transfiguré de sa
                             migration.

               Il suffisait d’une barque
                     Il suffisait de ça.


Così mi sono messo ad amare ciò che era gettato
                             nel mondo
                     fuori dalla scrittura

              Il far del giorno sulle isole
     Un semplice uccello tornato trasfigurato dalla
                                migrazione

                           Bastava una barca
                              Bastava questo.

(pp. 300 e 301)

In apertura dell’articolo: particolare dal Ritratto di Umberto Saba (1923) di Vittorio Bolaffio.

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