Stefanie Golisch
Ogni giorno è oggi (I)
Lo penso ogni volta che mi incontro
con qualcuno: di quanto siamo abili a
nascondere quello che abbiamo da dire
veramente nello spazio tra una parola e
l’altra. Sono, penso, la nostra salvezza,
questi vuoti, perché come si potrebbe, dopo
aver svelato le nostre verità fino in fondo,
alzarsi con le solite formule di congedo,
un stammi bene, un ci sentiamo presto.
Non resistono le nostre relazioni perché
ci possiamo proprio dire tutto, ma, al
contrario, perché ci guardiamo molto
bene dal farlo.
La mia vicina di casa è una donna molto
piccola. Il bastone che l’accompagna è
più lungo di lei, è un bastone del bosco,
per intenderci. Anche i suoi capelli grigi
sono molto lunghi. Quando la incontro mi
vengono sempre in mente le tre streghe del
Macbeth e lei è una di loro e quando io sarò
sconfitta dai miei nemici, da tempo ormai,
lei continuerà a passi lentissimi a camminare
in via del Lambro: verso sera, sempre in compagnia
di un uomo e mai lo stesso. Ho dimenticato di
dire che veste rigorosamente di nero. Soltanto
una volta l’ho vista in giardino, avvolta in un
asciugamano rosso fuoco, concedendosi
generosamente agli sguardi dei condomini.
Cosa augurare a un morto: di riposare in pace
o di continuare a vivere la propria vita, così
come diversamente non avrebbe potuto essere?
Mi pongo questa domanda nel giorno in cui
mia madre avrebbe compiuto i 93 anni. Mia
madre che amava la sua vita tormentata e
non l’avrebbe mai cambiata per una buona e
sana. Cosa augurare a mia madre, dunque,
se non di continuare a vivere per sempre quella
vita che era la sua, l’unica possibile.
Non mi ricordo quando ho iniziato a fotografare
i panni del mio vicino di casa che vedo dalla
finestra del bagno. Nulla di particolare, i panni
di un vecchio uomo solo: le camicie del lavoro,
a quadretti, i jeans, ogni tanto lenzuola e
strofinacci sbiaditi, le mutande mai. Sono scatti
veloci, l’inquadratura è sempre la stessa, quel
che cambia è soltanto la stagione e la luce dell’ora
del giorno sul muro giallo sporco. È questa serie
piuttosto monotona, nata senza alcuna intenzione
e senza messaggio preciso che mi fa pensare alle
mie cose di vita con quella pietosa tenerezza che
si prova per tutto ciò che è sempre sulla soglia
del rompersi, guastarsi, bucarsi, perdersi,
dell’improvvisamente non esserci più.
La prima badante della mia vicina di casa
si chiamava Mirela ed era della Romania, è
rimasta soltanto per qualche settimana, poi ha trovato
posto a Rimini dove almeno c’è il mare, la seconda
era Nina, donna severissima, proveniente da un
piccolo paese in Ucraina, scontenta sempre,
probabilmente, penso, nata scontenta, la terza era
Olga, più giovane delle altre due, capitata proprio
nel periodo del primo “lockdown”, utilizzando questo
periodo di reclusione saggiamente per cercare su
Tinder un uomo con cui scappare, e poi, accontentandosi,
altrettanto saggiamente, con quello che aveva trovato,
la quarta, quella che è rimasta più a lungo, si chiamava
Natasha, sempre ucraina, donna di forti punti di vista,
grande ammiratrice di Putin e accanita fumatrice.
Hanno tutte dormito sullo stesso divano sfondato
sul quale ha passato gli interminabili anni della
pensione il marito della signora Rosetta. Erano molto
diverse tra di loro, ma tutte sempre nervose,
probabilmente per la costante mancanza di sonno,
ho ascoltato tra una sigaretta e l’altra le loro storie
e ho capito che le nostre biografie sono fatte così:
di imprese abbandonate a metà, di decisioni prese
in momenti sbagliati, di giudizi ingiusti, figli venuti
così così, intrecci storici incomprensibili, amori per
uomini con dei bei baffi e cose del genere.
Quel che rimane di una persona morta da tempo
nei luoghi in cui è vissuta è nulla. Il marciapiede
non si ricorda dei suoi passi, i muri non hanno
conservato la sua ombra, le pietre sono indifferenti
al suo esserci stato, è troppo forte il nostro rumore
dei vivi, il nostro chiacchiericcio incessante, le
credenze del momento che insieme creano l’irripetibile
atmosfera dell’oggi, che per essere oggi, cioè presente
assoluto, non può badare all’ieri, ma anzi, deve respingere
il passato che non fa altro che indebolire la forza
irrompente del qui ed ora. È la nostalgia di quell’attimo
di vita cruda che sanguina a far nascere il desiderio di
grandi viaggi, amori per chi assomiglia ad un altro che
non sarà mai, buona e cattiva poesia, parole che uccidono
e parole che fanno nascere nuovi mondi.
Non possiamo comprendere Kafka se non comprendiamo
che quell’uomo – i suoi protagonisti tutti! – buttato in un
mondo i cui meccanismi rimangono oscuri, per lui non
era letteratura, ma esperienza vissuta: la sofferta realtà
di chi non accetta una vita privata dall’indiscutibile diritto
di autodeterminazione. Kafka non descrive soltanto
la lotta quasi senza speranza per la propria dignità umana
(e quindi per quella di tutti!), ma la vive: nella sua pelle e
nelle sue viscere: quel momento, ogni momento in cui
siamo chiamati a decidere se vogliamo essere il soggetto
della nostra vita o un senza nome, senza viso, un nessuno.
Questa testo mi ha “combaciata” : come un respiro, o forse come l’assenza del respiro. Grazie, Stefanie
Felice della condivisione degli sguardi…..
è bellissima Stefanie, grazie