In morte di nonno Kolya

Dipinto di Evgeny Kravtsov

Andrea Ballabio


Krasniy Hutor. Sono andato a fare due passi fino a dove vivevo prima, penultima casa prima della foresta. L’ultima è quella di Sveta, la strega tartara. L’idea era di comprare un dolce e bermi un caffè da Alla, la mia ex vicina bielorussa. Ho voluto però accertarmi che fossero in casa, per poi fare un salto a prendere una torta al negozio vicino. Viene però alla porta la figlia di Alla, Yuliya, e mi dice di non entrare perché sono tutti contagiati. Mi rassicurano, stanno abbastanza bene, sta passando.

Tornando, diciamo, verso casa, mi viene in mente che non ho chiesto di nonno Kolya. Telefono subito. Mi dicono che il nonno è stato ricoverato a dicembre per polmonite ed è morto in ospedale. Avrebbe dovuto compiere 90 anni.

Gli volevo bene, e penso che fossi ricambiato. Dimostrava 20 anni di meno, viveva da solo, era del tutto autosufficiente. Andava in autobus a fare la spesa, girava il mercato a piedi. Si lamentava sempre dei reumatismi. Incolpava il coprifuoco tedesco del 1942, a causa del quale una sera si era nascosto ragazzino in una palude, restandoci fino al mattino. Era lucidissimo, con la battuta sempre pronta. Non alto, robusto, con un bel viso e folti capelli bianchi. Parlava esclusivamente in ucraino. Ogni tanto gli chiedevo di usare il russo, faccio più fatica con l’ucraino. Ripartiva in russo, e tornava in automatico all’ucraino dopo mezzo minuto. Sorridevo e cercavo di decifrare, piano piano ho imparato a capire.

Mi chiamava “inozemets”, straniero, in ucraino. Oppure “tsiganyuha”, il diminutivo di zingaro. Aveva la fissa delle olive, per lui l’Italia era un posto lontano e magico dove addirittura crescono le olive. E allora ogni tanto prendevo la mia moka e il caffè, compravo una confezione di olive e bussavo dal nonno. Sempre la stessa domanda: le hai comprate o le hai rubate? Rispondevo: rubate. Sorrideva e diceva: entra. Forse per come mi trattava, forse per la sua veneranda età, quando ero con lui mi sembrava di essere davvero un ragazzino.

Era sempre presente alle feste che organizzavamo coi vicini. Ricordo il compleanno di Alla e mio. Visto che tra lei e me ci sono due giorni di differenza, avevamo deciso di fare una megafesta con grigliata in giardino. C’erano amici e parenti di Alla, figli e nipotini (Alla è già nonna, anche se giovanissima). E c’erano i miei di amici, un filo… diversi, non trovo altri aggettivi. Bravissime persone, assolutamente, poi l’opinione della polizia ucraina è appunto solo un’opinione, siamo in democrazia e ognuno può pensare quello che vuole. Vasya The Legend con l’amata Lina, V (e qui l’abbreviazione ci sta tutta) con la spettacolare Angelika (non mi addentro in descrizioni, come scrittore erotico non valgo niente). Ricordo una dolorosa gomitata di zia Vika, ero caduto in trance e continuavo a fissare la bellissima ospite. Poi Vova, Nina… Saremo stati una trentina. Al centro di tutto questo bordello nonno Kolya, sorridente. Bevevamo vodka. Anche lui. Gli dissi: nonno, allora bevi anche tu. Rispose: sì, ma io so bere, voi no, non avete ancora imparato a fermarvi. Applausi scroscianti e altro giro veloce di bicchieri, a conferma immediata della sua tesi.

L’ultima volta che entrai in casa sua (poi lo vidi altre volte a casa di Alla) fu un paio d’anni fa, in pieno inverno. C’erano quindici gradi sottozero, avevo deciso di farmi una sciata nella foresta per bruciare un po’ della schifezza che bevo e respiro. Zia Vika era di turno domenicale, mi aveva ripetuto più volte: se vai nella foresta prendi il telefono, prometti che prendi il telefono. Non prendo un cazzo, risposi, la foresta la conosco a memoria. Ovviamente dopo due ore circa persi completamente l’orientamento. Verso le tre cominciò a fare buio, non avevo mangiato e sentivo quindi ancora più freddo. Tirai fuori dallo zaino tutto quello che avevo e un paio di guanti più pesanti. In qualche modo riuscii ad arrivare non dove volevo, ma comunque fino alla casa del nonno. Non bussai, avevo gli sci in mano. Urlai: nonno Kolya! Si sentì un “chi è” secco, mancava solo il rumore del caricamento di un’arma (non escludo che il nonno ne avesse una, sono abbastanza diffuse da queste parti). Urlai di nuovo: puttana, sono io nonno Kolya, apri che fa freddo! Aprì e sorrise meravigliato: entra, solo gli idioti vanno in giro per la foresta oggi. E mise il bollitore sul fuoco per farmi un tè.

È vissuto bene, a lungo. Spero che non abbia sofferto, solo questo. Ho detto una preghiera per lui. Vorrei che in qualche universo parallelo fossimo eternamente lì, l’uno davanti all’altro nella sua casetta in mezzo alla neve, in un tramonto di pieno inverno.

1 commento su “In morte di nonno Kolya”

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