Viene pubblicata per le Edizioni Effigie La croce versa di Paolo Castronuovo. Libro nato dal lungo, attento vaglio di molto materiale, libro non pacificato e non pacificante per materia trattata e stile adottato, La croce versa è linguaggio che dice (e si dice), in poesia, senza reticenze e senza ipocrisie, senza inutili pudori e senza borghesi abbellimenti: strada scomoda, intrepida, antiletteraria se per letteratura s’intende la consolante, ottundente melassa di uno scrivere sconnesso dal magma indomabile che erompe dal vivere. E invece quel magma incendia il libro, accende (e non in senso metaforico o figurato o allegorico) carne, sudore, desiderio, rivolta, quel magma si fa testo lungo (quasi dei poemetti) oppure si rapprende nella dimensione del testo brevissimo (quasi aforismi o sentenze), travolge il linguaggio per restituirgli forza d’espressione e di pensiero, violando le regole della “buona creanza” lo purifica riscattandolo dalla tabe degl’ipocriti perbenismi, degl’insulsi poetichesi.
Una poesia d’amore e di militanza, scostumata e irriguardosa, eccessiva come dev’essere la poesia quando sa andare oltre limiti, abitudini, distinguo; una poesia che trova il suo giusto spazio proprio nelle Edizioni di Effigie perché anch’essa in controtendenza, accesamente ribelle e anticonformista, posso immaginare urtante e urticante per qualcuno, spero segnavia per quei giovani e giovanissimi che vogliano avventurarsi sui difficili tracciati della scrittura.
Propongo qui a seguire cinque estratti dal libro:
La croce versa (o il tentativo di cambiare) la croce versa nell’uovo è il frassino nel cuore del conte la cellula che purifica l’etichetta battezzando la fede in scienza un simbolo che impongo per cambiare le immagini tagliare il ciclo e aprirne un altro in un rivolo di sangue blu un punto e a capo che serve all’interlinea stretta della vita per respirare il diverso e chiudere le oscurità nel guscio vergere la croce portata farne posata o fionda per debellare la malattia del verbo con la pietra della negazione vorrei cancellarti dalla mia fronte lo sfregio di caino che mi addita nella folla accresce il tuo ego nelle fauci dell’adorazione potrei morirti sui piedi se mi lasci respirare e dirti quanto sei immensa sarà un gioco come scagliare la biglia dal pollice mentre le ombre lasciano le case alla sera ma devo eliminarti macellarti in una mole fine farne polvere e bagnarla per non respirarla affinché ogni odore di te si estingua cambiare ossessione per quanto possibile dimenticarti fluire come un pesce rosso morto nel pozzo della tazza scarica dicendomi che ora andrai nel mare con le altre l’essere tuo mi annulla e una poesia è troppo rapida per un lungo addio che garza il distacco netto starò a contemplare alla finestra della memoria mentre scagli quella croce sull’uovo che si cuoce e io non avrò più nulla da dire
il lunedì quando sono chiusi i barbieri ti apro sempre come un paio di forbici e il pelo spunta ispido a obliterare la giornata sul tuo interno coscia che trasporta le funivie del piacere lungo le tue gambe l’attrito dei cavi ci infiamma come il fiammifero e la carta vetrata su una scatola di letto riluce nella stanza al profumo arancio del floid che hai lasciato sul tuo collo da una settimana
ti ho guardata per tanto tempo come fa lo scolaro da dietro al muretto e al materializzarsi del tuo corpo non sentivo le catene strisciare sul pavimento della nausea restavo muto perché il verbo è superfluo dinanzi a te e nel frattempo mettevo le parole taciute in un bacio
Mediterraneo surreale Mediterraneo, una macchia chiusa circoscritta da continenti e altre acque una ballerina sulla punta trapana gli odori di ginestra, rosmarino e ilatro il piscio d’asparago dietro la pietra disturba il mirto e le more tingono le scarpe ai bordi della mulattiera; poi il passo, dal tufo alla sabbia, nella macchia azzurra, apre un tuffo e una bracciata il pistone nell’acqua unta d’alga, lubrifica le piccole barche dei pescherecci salutano i colossi neri, un’eclissi misurata in nodi mentre abbocca un cefalo, e lo sgombro ritardato si aggiunge alla rete issata in tempo; al molo una donna si sciacqua le gambe un masso l’attende ad asciugare sfere di mercurio, incoese alle caviglie scivolano assieme a quella lucertola ubriaca di corbezzoli.
L’odore della carteggiatura è una foresta secca negli ultimi passi dell’inverno quando tutto è morto vado per tratturi oppure a bordo asfalto dove l’artificio e la natura vengono tagliati dai muretti a secco e i licheni promettono resurrezione le coppie sfondano i finestrini con le loro mani cancellano la condensa, a volte un piede sul parabrezza lascia un’orma definita mentre io la imprimo nella breccia lungo la corsa pomeridiana respiro profumi in decomposizione: il fungo, il ramo appeso, il coleottero, e il lombrico sotto il sasso dove la terra è più umida, la tela compressa, il bozzolo fuori stagione la macchia che (si) rigenera è la risposta al piromane, il riappropriarsi, la resistenza, la controcorrente alla letteratura del primo banco.
è una poesia di stiletto e di sangue, molto bella, una (ti ho guardata…) la rubo per il Domenicale del 13 marzo
Ho molta stima di Paolo. Quello che posso dire, intanto, è che ho ordinato il libro.
Nino