di Lorenzo Mari
Scrivo e riscrivo, ma alla fine è tutto da rifare, pensando alla lotta di classico di Massimo Sannelli.
Beninteso, niente è sbagliato: l’ortodossia, se riesce ancora, in qualche modo, a colpire, colpisce altrove.
Scrivo e riscrivo, faccio e rifaccio, semplicemente, perché fa rifà anche Sannelli, impegnato da anni in un lavoro di cancellazione, ripubblicazione e mutazione della propria opera. È un lavoro e insieme uno spreco (non in senso morale, né in senso qualitativo, etc.) che ne ha modificato profondamente, in primo luogo, l’autorialità, spingendola, innanzitutto, verso i territori dell’autopubblicazione. Territori apparentemente marginali rispetto al sistema letterario, territori sui quali vigono i sospetti maliziosamente istillati dal sistema stesso – …e la qualità? e il controllo? – territori, infine, che Sannelli cerca continuamente di minare, rendendo instabile e precaria tanto la sua andatura quanto la nostra. Un obiettivo di importanza cruciale nella sua poiesis, credo, come in molte altre che ambiscano, non senza una certa attitudine metafisica, a una qualche autenticità di fondo.
Allo stesso modo, non credo che ci sia un «caso Massimo Sannelli», come afferma Elisabetta Brizio in questa pubblicazione di Lotta di classico nel 2016. O meglio, se esiste un caso, non è così in senso generale, giornalistico – ricordando, ad esempio, come questo luogo, La dimora del tempo sospeso, e altri ancora, abbiano continuato ad accogliere la produzione di Sannelli anche in questa nuova fase “post-autoriale” – ma lo è in quello sollevato dalle pratiche stesse messe in campo da Sannelli (quasi sempre, negli ultimi tempi, insieme a Silvia Marcantoni Taddei, come AnimaeNoctis) – ossia come sovversione dei comuni, sempre più comuni, intendimenti della pratica poetica.
Al di fuori di questo, nessun caso, e nessuno scandalo – a meno che si finisca per credere che il non-binarismo esplicitamente rivendicato da AnimaeNoctis sia del tutto ideologico, ossia privo di un preciso radicamento formale. Basta leggere la prima risposta alle domande di questa intervista, per capire che non è così:
Cos’è per voi non binary e che rapporto ha con il vostro lavoro artistico?
Sei maschio e non giochi a calcio, sei femmina e le bambole ti fanno schifo. Questione di gusto. Non binary è non rigidità: hai tante forme ma non il rigore, sei serio ma non rigido. Ti trasformi e non diventi niente, perché l’identità è quella: multipla da sempre. Il nostro lavoro è multimediale per questo. Damien Hirst espone da Gagosian un sacco di spazzatura accanto a una vetrina di gioielli, e questo è valore (per gli esteti) e grande cash (per gli investitori). Perché la vita non può essere così? Un’installazione divertente, varia, critica, autocritica. E un impegno: non è che divertirsi vuol dire non avere responsabilità.
Non si tratta dunque di insistere sulla schwa o meno – questione sulla quale resto personalmente favorevole, entro una complessità dell’argomentazione che ho già tentato di esporre altrove (ad esempio qui e qui) e che non si riduce, quindi, alla vexata quaestio che da linguistica si fa subito ideologica – bensì di costruire un percorso “non binario” a tutto tondo, sostenuto da identità costitutivamente molteplici e veicolato da molti media diversi. Radicamento, ancora una volta, nei processi di formalizzazione che scansa il riferimento citato (che intendo come poco più che polemico) alla produzione artistica di Damien Hirst per fornire, invece, un proprio orientamento preciso. Una sorta di deviazione, se si vuole, e di sviluppo di quei disturbi del sistema binario – per usare una chiara misquotation, anch’essa deviante – già inclusi nel titolo di uno dei capisaldi della poesia italiana della fine del Novecento.
Quella che propone Sannelli, anche come AnimaeNoctis, è una ricerca schizo-testuale (nell’accezione filosofica del termine), aggiornata e al tempo stesso ai margini del contemporaneo – da un lato, infatti, riprendendo una provocatoria boutade di Marco Giovenale del 2006 («In Italia la poesia contemporanea, come si diceva qualche tempo fa, è in linea di massima contemporanea al 1940»), Sannelli scrive Poesie nello stile del 1940 (2017); dall’altro, nel più recente degli e-book di Lotta di Classico di Sannelli, Scimmia sapiens superstar. Diario 2020-2022 (2022), l’introduzione di Silvia Marcantoni Taddei recita:
Chi scrive su Internet come sulla carta non considera la musica o il lampo di bit & bytes nell’uragano digitale. Chi scrive solo in italiano elitario, freddo e pseudo-ultra-specialistico non considera YouTube. Ma l’uragano è vasto. Se non sai quale Internet considerare, ti fregano. Servono informazioni vere: dati accessibili. Che non vuol dire qualità inferiore, o fintamente alta. Servono collegamenti. Il multimedia. Il corpo è multimedia. Siamo tutt* multimedia.
Dato che anche questo scritto tende a un «italiano elitario, freddo e pseudo-ultra-specialistico», si può allora ripartire da un video caricato su Youtube da AnimaeNoctis – dopo essere stato diffuso nelle due occasioni fornite “Versi Elementari. Poesie dall’isolamento” (Firenze, MAD, 26 settembre 2021; Roma, LOGOS Festa della parola, 30 ottobre 2021) – allo scopo di approfondire la questione delle “lotte di classico” e, non di meno, dei suoi appigli e riferimenti: AnimaeNoctis – Lotta di Classico. Sante Notarnicola poeta. Qui ci si dice, dunque, di tornare alla vicenda politica, culturale e poetica che ha al centro Sante Notarnicola (1938-2021); si tratta, inoltre, di cercare di misurarne l’impatto dove Sannelli scrive, sempre, in Scimmia sapiens superstar, che «il linguaggio vero di questo corpo è RIVOLUZIONE» e, ancora, che occorre «rivelarsi il giullare che gioca e non scherza, trovare il divertimento politico dell’avanguardia». Nasce così una conversazione e un conflitto tra chi cerca il “divertimento politico dell’avanguardia” – con un’originale torsione concettuale, che si associa con una peculiare, probabilmente idiosincratica, concezione queer: «Cosa significa sentirsi uomo e donna, maschio e femmina e tutto lo spettro luminoso in mezzo?» – e quella che, per Sante Notarnicola, è nota come “eversione”. Poiché di-vertimento ed e-versione sono due modi di guardare al verso, senza dubbio.
Quando poi, come nel video linkato, è Sannelli a parlare di Sante Notarnicola, la conversazione e il conflitto inevitabilmente si approfondiscono. Sannelli parte da una concezione regale di autorialità, esemplificata dall’annotazione del Mestiere di vivere (1952) di Cesare Pavese: «Nel mio mestiere dunque sono re» – per poi continuare, non citato da Sannelli, il «consuntivo di un anno finito, che non finirò»: «Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora» – e ne vede l’applicazione nel gesto autoriale di Sante Notarnicola, autore, negli anni, di vari libri, tra i quali si possono ricordare, a titolo di esempio, il libro di poesia La nostalgia e la memoria (Maj, 1986) – rievocato anche nel pezzo omonimo degli Assalti Frontali – la cronaca in prima persona de L’evasione impossibile (Odradek, 1997) e i più recenti Versi Elementari (LYRIKS, 2020).
Sannelli annota che «Sante arriva alla letteratura da non letterato», incontrando e scontrandosi con quella «letteratura italiana che è da sempre una letteratura per signori in lingua di signori», chiedendo sempre il «dizionario» in carcere, per «poter odiare meglio» ma anche «per poter amare meglio». Sannelli, in fondo, intende Sante Notarnicola come una sorta di Calibano shakespeariano: «You taught me language; and my profit on’t / Is, I know how to curse. / The red plague rid you / For learning me your language!» (citato qui, in inglese, per far risuonare, come possibile misquotation, anche quella peste rossa che è qui snodo fondamentale della questione»).
Il riferimento alla figura di Calibano, in ogni caso, è intrinsecamente, irriducibilmente, ambivalente perché se è vero, da un lato, che il personaggio della Tempesta, con la sua appropriazione della lingua dei dominatori tanto amorevole quanto carica d’odio, diventerà epitome delle rivolte anticoloniali e delle culture postcoloniali, non bisogna per questo scordare come l’ultima grande opera di Shakespeare coincida, all’inizio del XVII secolo, con La vida es sueño (1635) di Pedro Calderón de la Barca nel dire che “la vita è sogno”. Si tenga a mente questo dettaglio nell’ascoltare il prosieguo dell’analisi di Sannelli, dove l’ammissione di Sante Notarnicola tra «i letterati» si avvale di un breve lacerto di analisi testuale di “galera”, scritta da Notarnicola nel carcere di Favignana il primo giugno 1973: «altissimi / guardiamo i gabbiani che volano» (La nostalgia e la memoria, p. 24).
“Altissimi” risulta essere aggettivo polisemico, potendosi riferire ai gabbiani, con forte iperbato, o ai prigionieri con i quali si identifica l’io lirico, con l’assunzione della prima persona plurale; come nota sempre Sannelli, vi è un riferimento, ai limiti del poliptoto, nel verbo “guardiamo” che riconduce alla “guardia” di un verso precedente (il sesto: «e ci misero dei soldati, a guardia»), con uno scambio di ruoli – possibile soltanto in poesia – tra prigionieri e secondini. L’uso consapevole della strumentazione retorica non è un caso isolato, nella poesia di Sante Notarnicola, e si ritrova spesso, spezzando e ri-articolando il possibile riferimento a un più generale lirismo; succede, ad esempio, anche nel gioco fonosimbolico che apre “ansia”: «Tutto d’un fiato / ho fatto / le scale della prigione» ad evocare il fiatone di una corsa verso uno sguardo liberato, sul mare, dove, di nuovo, i gabbiani – uno dei massimi emblemi del poetese moderno, in lingua italiana – «schiamazzavano / sulla riva / i gabbiani» (La nostalgia e la memoria, p. 25).
E via di questo passo.
Sannelli non è il primo a sottolineare la potenza dei “versi elementari” di Sante: come ha ricordato Giuliano Santoro sul manifesto in occasione della morte di Notarnicola, avvenuta l’anno scorso,
[Sante Notarnicola] invia a Primo Levi una sua raccolta di componimenti. L’autore di Se questo è un uomo gli scrive una lettera. Gli contesta l’equiparazione tra carcere e lager («Solo ad Auschwitz morivano 10mila persone al giorno», sottolinea) ma gli riconosce la patente di poeta. «Le tue poesie sono belle, quasi tutte – scrive Levi – alcune bellissime, altre strazianti. Mi sembra che nel loro insieme costituiscano una specie di teorema, e ne siano anzi la dimostrazione: cioè che è poeta solo chi ha sofferto o soffre e che per ciò la poesia costa cara». Levi considera «memorabile», «miracolosa per concisione e intensità» la poesia che si intitola Posto di guardia. Eccola: «Il guardiano più giovane/ ha preso posto/ davanti alla mia cella. / ‘Dietro quel muro – mi ha/ indicato – il mare è azzurrissimo’./ Per farmi morire un poco/ il guardiano più giovane,/ mi ha detto questo».
Le parole di Primo Levi sono del 1979, alcuni mesi dopo che il nome di Sante Notarnicola era tornato alla ribalta perché in cima alla lista dei prigionieri da scarcerare, secondo un comunicato firmato dalle Brigate Rosse, in cambio del rilascio di Aldo Moro. In circostanze ben diverse, nel 2021, all’interno di un periodo di isolamento che ha raddoppiato ironicamente (con un’ironia tipicamente borghese, si sarebbe detto una volta) l’isolamento carcerario, anche Massimo Sannelli sembra riconoscere a Sante Notarnicola lo stesso «teorema»: «che è poeta solo chi ha sofferto o soffre e che per ciò la poesia costa cara».
Ciò è vero, seppure in modi diversi, sia per Sante Notarnicola che per Massimo Sannelli, ai due estremi di un’autorialità che Sannelli vede conquistata con spirito di rivendicazione da Sante, ma che Sannelli invece rifiuta, collocandosi ai margini di un campo letterario troppo rigidamente costituito per poter degnamente accogliere la sua produzione poetica e artistica. Ai margini, anche, di quel sogno che è la vita, nella dimensione onirica dello sdoppiamento delle immagini rimarcata, nel video di AnimaeNoctis, dall’onnipresente strumento dello smartphone agitato da Silvia Marcantoni Taddei di fronte a uno specchio.
In questo scambio di prospettive e di marginalità, si scopre che l’attitudine di Calibano può essere, in realtà, quella di entrambi, cioè di chi si appropria della lingua per farne nuovo uso: non soltanto per «poter odiare meglio», ma anche «per amare meglio», rovesciando, come si è detto, la “lotta di classe” in “lotta di classico” e i “classici” (e, dunque, anche i “classici dell’avanguardia”) contro loro stessi.
Si apre così una strada che può ancora essere percorsa, tra i poli, non poi così lontani, della testimonianza politica e della scrittura di avanguardia. Può essere percorsa ancora oggi, e ancora prima di pubblicare (che sia poi: poesia, critica, o video su Youtube, non importa): guarda un po’, può essere percorsa anche nel momento in cui questo scritto si può fare, rifare, etc.
Sempre è un grande piacere per me pubblicare i contributi di Lorenzo Mari, ma questa volta in particolare perché lo spirito che da sempre caratterizza “La Dimora del Tempo sospeso” è fortemente presente in questa riflessione non allineata con il mainstream, originale e suggestiva, priva di ogni ipocrisia o facili accomodamenti.