Storchnest

Stefanie Golisch

Storchnest
Una ricerca di indizi

(Versione italiana di Francesco Marotta)

Un posto chiamato Storchnest.
Niente di male può accadere nella vita a chi è nato qui. Dove nidificano le cicogne, che portano i bambini da un altro mondo, da un altro tempo.
Un posto da libro delle favole, e invece no, non una favola ma una storia vera.
A Storchnest, oggi Osieczna, nella Polonia occidentale, il 12 agosto 1871 nasceva da una famiglia ebrea Julius Kronheim. A metà del XIX secolo un abitante su cinque apparteneva alla comunità ebraica. All’epoca della creazione dell’impero, un’ondata migratoria si riversò nella cittadina: le destinazioni erano la nascente metropoli di Berlino, da una parte, e dall’altra l’America.
Anche la famiglia di Julius Kronheim doveva essere tra quelle che volevano cercare lontano la loro felicità futura, tanto che già nel 1893, a soli 22 anni, il giovane aveva creato nella capitale del Reich un cappellificio, che diresse fino a quando l’azienda, a partire dal 1938, non fu costretta a una forzata arianizzazione. Aver sposato una tedesca, lo protesse inizialmente dalla deportazione prevista dalle leggi vigenti sui cosiddetti matrimoni misti, ma dopo la morte della moglie Else, nell’estate del 1944, questo stato d’eccezione svanì e così Julius Kronheim decise, all’età di 73 anni, di nascondersi a Berlino. Con l’aiuto dei coniugi Wiegand, che lo accolsero insieme ad altri clandestini nella loro residenza a Charlottenburg, riuscì a rimanere nell‘anonimato fin verso la fine del 1944. Quando quel nascondiglio fu fatto saltare in aria, tutte le persone che lo occupavano vennero immediatamente arrestate. Nel febbraio 1945 Kronheim fu trasferito in un campo di raduno per ebrei, a Berlino Wedding, e il 27 marzo fu caricato sull’ultimo treno di deportati partito dalla stazione ferroviaria di Grunewald per il ghetto di Terezin.
Insieme a lui, diciassette persone che sarebbero state annientate a poche settimane dal crollo definitivo del Terzo Reich.

Da quando, qualche anno fa, mi è capitato di passeggiare lungo il binario 17 della stazione ferroviaria di Grunewald, dove sono meticolosamente annotati le date delle deportazioni e il numero dei deportati, non sono più riuscita a togliermi dalla testa quelle diciotto persone: quella piccola nota a piè di pagina nella possente macchina dello sterminio.
Chi erano costoro, i detenuti di quell’ultimo treno di trasporto, il 117esimo, partito per Terezin da una Berlino a quel tempo già completamente distrutta?
Quali pensieri e sentimenti potrebbero aver attraversato la loro mente?
La sensazione disperata: ce l’avevo quasi fatta.
Ma ovviamente è del tutto illusorio, forse anche un atto di presunzione, cercare di immaginare cosa realmente sente un essere umano in una situazione così estrema.
Trema.

Diciotto esseri umani.
Diciotto personalità.
Uno potrebbe essersi addormentato per la stanchezza, un altro per la stanchezza potrebbe essere rimasto sveglio.
Uno potrebbe aver pensato: non ci vorrà ancora molto; un altro: adesso è proprio finita.
Nel mezzo: tutti quegli stati d’animo che mutano continuamente, ai quali siamo tutti perennemente esposti, non solo in situazioni disperate, senza mai riuscire a prendere il controllo delle situazioni in cui ci troviamo in quel momento.

Diciotto esseri umani.
Diciotto personalità.
Diciotto destini in merito ai quali – a parte i dati essenziali come nome, data di nascita e professione – ho potuto recuperare soltanto qualche notizia in più.

Quando ho iniziato le mie ricerche, ignoravo che quello stesso giorno, il 27 marzo 1945, un altro treno di deportati, il cosiddetto 63, era partito da Berlino. Un trasporto diretto a est: con i dodici uomini che si trovavano effettivamente nel campo di concentramento di Sachsenhausen, a nord della capitale, e le tredici donne che dovevano essere trasferite a Ravensbrück nel Brandeburgo. Data la confusione che regnava in quel particolare momento nei campi, da ultimo fu presa la decisione di unire i due convogli. Di certo sappiamo soltanto che sono arrivati insieme a Terezin il 28 marzo.
Pensavo che questo convoglio fosse in realtà l’ultimo partito dal Reich tedesco, ma poi ho scoperto – i dati sono facilmente reperibili su Internet – che l’ultimo trasporto di deportati ha avuto luogo il 15 aprile, tre settimane prima della capitolazione, da Amstetten, un campo esterno di Mauthausen, a Terezin.
In questo:
Settantasette persone.
Settantasette personalità.
Storie di vita.
Preferenze e antipatie.
Pregi e debolezze caratteriali.
Segreti e ricordi.

Ma torniamo indietro:
Alle quarantaquattro persone in totale che risultano iscritte nelle due liste di trasporto da Berlino del 27 marzo 1945.
Come hanno fatto a resistere così a lungo?
In quali condizioni sono sopravvissute fin quasi alla fine in una Berlino completamente distrutta?
Dal 2008, il Memoriale degli Eroi Silenziosi, ubicato inizialmente nelle immediate vicinanze del Museo dell’Officina per Non Vedenti Otto Weidt e dal 2015 parte integrante della mostra permanente del Museo della Resistenza Tedesca, ci permette di farci un’idea delle incredibili vicende degli Ebrei che si sono nascosti e di chi li ha aiutati.
E risulta subito chiara una cosa: che non esistono due destini simili.
Estremamente varie e stratificate, sorprendenti e ambigue, insondabili quanto la vita stessa sono le prove e le tribolazioni umane che si possono conoscere qui. È impossibile calarsi in situazioni così complesse, imperscrutabili e imprevedibili, arrogandosi magari la presunzione di un giudizio morale.
Anche la domanda abbastanza ovvia, posta tante volte con le migliori intenzioni educative, come mi sarei comportato io?, risulta del tutto fuori luogo: cosa potremmo mai sapere preventivamente di noi stessi, prima di essere a tutti gli effetti messi alla prova?

Piccola digressione.
Il problema del nostro mondo, regolato quasi completamente da una serie abnorme di procedure tese all’ottimizzazione, è che le persone non vengono quasi mai messe alla prova e quindi vengono private della possibilità di scoprire chi veramente sono, chi potrebbero essere.
Nel migliore e nel peggiore dei casi.
E in tutte quelle situazioni intermedie della vita nelle quali un piccolo gesto è capace a volte di fare una grande differenza.

Ma torniamo indietro:
Alla lista del cosiddetto Trasporto Anziani per Terezin.
Una situazione che è quasi come salire su un mezzo di trasporto pubblico e non sapere di fronte a chi ti troverai seduto.
Un gruppo casuale di persone, diverse per sesso e origini, che hanno un’unica cosa in comune: sono ebrei.
(Ma forse sarebbe opportuno precisare meglio: che furono dichiarati tali dai nazionalsocialisti.)
E che devono, quindi, essere sterminati.
Nessuno ha scelto di fare questo viaggio.
Ma tutti hanno pagato per farlo.
Si tratta di un ulteriore dettaglio.
Che ho scoperto una volta per caso: che per gli ebrei deportati – così come per l’esecuzione della condanna a morte dei combattenti della resistenza – veniva emessa la fattura per le spese di viaggio.
Il che, su un piano strettamente commerciale, pone i treni dei deportati sullo stesso piano di un qualsiasi altro servizio di trasporto pubblico.

Chi erano, dunque, i casuali compagni di sventura di Julius Kronheim, fabbricante di cappelli di Berlino, imprenditore di successo, in un mondo dove tutti portavano il cappello, e che in seguito, nonostante l’età avanzata, aveva sfidato il destino entrando in clandestinità?
Salvo tre eccezioni, si trattava di persone anziane e anche molto anziane, per lo più uomini e donne sopravvissuti agli anni delle persecuzioni protetti dall’esistenza di un coniuge tedesco. I più giovani tra loro sono rubricati nella sezione Osservazioni come ebrei confermati, un’espressione usata nel gergo nazista per indicare quei meticci ebrei che, a differenza degli ebrei assimilati e spesso convertiti, continuavano a ritenersi a tutti gli effetti membri della comunità religiosa ebraica.
La procedura seguita nei loro confronti non era sempre uniforme ed era soggetta a un certo grado di discrezionalità nella considerazione delle rispettive identità – nonostante si manifestassero, già a partire dal 1942, crescenti spinte ad appropriarsi anche di questo gruppo di persone, da utilizzare, almeno inizialmente, come manodopera forzata in uno dei tanti campi di lavoro del Reich.
La modista quarantaseienne Gertrud Cohnreich, il bottaio sedicenne Gernot Klein, la corsettista trentenne Regina Postrong e il sarto ventitreenne Alfred Simonowitz: in qualche modo, questi cosiddetti ebrei confermati devono essere riusciti a nascondersi nel periodo della guerra, o meglio a celare la loro vera identità prima di essere smascherati sul finire del conflitto: magari per una parola incauta, in seguito a una denuncia, per una banale coincidenza.
O, semplicemente, perché non riuscivano a controllare il tremore delle mani, quando erano costretti ad esibire i loro documenti contraffatti.
Su Alfred Simonowitz, il giovane sarto nato nel 1922 a Tilsit, ho trovato una breve voce nel Database dei Sopravvissuti e delle Vittime dell’Olocausto del Museo Memoriale Americano dell’Olocausto.
Immagino che il giovane sia andato negli Stati Uniti, a guerra conclusa, per iniziare, come suol dirsi, una nuova vita da quelle parti.
Ma sarà stata davvero una nuova vita? Un successo, come ripetono spesso gli americani – magari anche inventato, se necessario?
Alfred Simonowitz avrà raccontato ai figli la sua giovinezza?
Oppure si sarà quasi dimenticato di quel periodo di silenzio, avrà quasi dimenticato se stesso – e saranno stati i suoi figli a chiedersi, al posto suo, da dove mai provenissero i loro cupi sogni?
Sono soltanto congetture.
Non è dato sapere.
Non so nulla della vita di Alfred Simonowitz e non mi sento di inventarla.
Perché tutto può essere andato in un modo completamente diverso. (…)

*

Storchnest. Eine Spurensuche
(Storchnest. Una ricerca di indizi)

sarà pubblicato integralmente in
“Quaderni di Traduzioni”, LXXIV, aprile 2022

1 commento su “Storchnest”

  1. Leggere questo pezzo, intensissimo, fa star male: disinnesca quella che io chiamo “la trappola dell’unica parola” (vita, persona, destino) che rischia di archiviare l’enorme e terribile ricchezza di ciò che è un essere umano, la sua storia. In espressioni come “la vita dei deportati a…o, ai nostri giorni, la vita dei combattenti di Kiev” ciò che rischia di essere accolto ma nello stesso tempo archiviato (per smettere di star male) è proprio la densità dell’espressione, la sua pienezza di senso. Il fatto cioè che la vita umana è un mondo di slanci, affetti, emozioni, dolori, propensioni, antipatie, ore, giorni, mesi, stagioni, piccoli eroismi, talvolta anche vigliaccherie, etc…. Un mondo di incontri e relazioni che rischia di rimanere intrappolato nell’uso di una sola parola. Possiamo soffrire per la vita dei…deportati…ma dimentichiamo che, se parliamo di “vita” abbiamo da soffrire per l’ unicità di esperienze del deportato Julius Kronheim e poi per quella di Alfred Simonowitz e poi….e dobbiamo contarli uno per uno. Evitare la “trappola” che un certo uso del termine “vita” comporta, è esattamente quel che fa questa narrazione intestardita sul caso per caso. E c’è da star male a leggerla.

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