(più che a margine, provvisorio)
testo e foto di Mia Lecomte
Da bambina ripetevo convinta: «Tanto morirò presto». Qui la materia è labile, effimera. Il corpo si indossa distrattamente, sghembo, senza riguardo. Cadrà, sparirà, non ce ne accorgeremo neppure. C’è una grande eleganza – nessuna volgarità, tristezza, rassegnazione – anche nella povertà, nella sporcizia. Quello che conta è altrove e insieme profondamente in noi. Si sta come se non si stesse. Mai.
Come se fossi tornata a casa dopo tanto tempo. A colazione, la mattina.
inclino il piatto
un emisfero rovesciato
guarda al mio mondo
estraneo là
che ancora sta dormendo
I piedi nell’acqua torbida, col cane che ha trascorso la mattina con me. Tutto mi aspettava. Non ho potuto fare a meno di pregare, a mio modo, e la paura, la rabbia, la violenza degli ultimi due anni sono passate. Questa acqua lurida, che risale i gradini per purificare. L’accesa, lenta prossimità dei corpi di ogni età. Sono un balsamo contro l’igienismo, l’isteria sanitaria da cui provengo. Fiumi. Scorrono e si fermano, qui, per farti entrare. Per ripartire insieme. Tutti i corpi uguali, malati allo stesso modo. Di vita. Un solo corpo, che passa.
il cane di Cesare salta e canta
nella casa-fuori è libero
non morde non ha più fame
Le conversazioni, i paesaggi. Alternano la presunta realtà fisica con la presenza, non solo simbolica, di altro. Anche la poesia torna (è) uno stato dello spirito. Normalità “magica” – la quotidianità che riconosco, dove tutto è possibile – che si fa dolcemente gioco della ragione, di ogni presunzione intellettuale. Della nostra ridicola finitudine.
esistono allarmi per gli elefanti
ne siamo circondati
– distruggono tutto
se entrano nella piantagione –
non li ho mai sentiti suonare
Non conosco che superficialmente le sue religioni. Non ne conosco l’arte, la letteratura, le lingue. Non c’è nessuna relazione estetica, sono troppo ignorante. Eppure comunichiamo con una facilità sconosciuta altrove. C’è una vicinanza che mi è indispensabile ora, nel momento cui mi trovo. Condivido la frequenza, il livello di frequenza in cui sono solita esistere – la consistenza fragile delle parole, delle immagini, senza luogo né tempo. È questo mio spazio di spiriti, ombre d’altrove, figure di altre epoche, amicizie che vibrano su corde sconosciute, presenze dimenticate fra i mondi. È tutto reale e insieme non, e per questo garbato, sopportabile. Umiltà, neanche, può dirsi nostra.
Quando incontri un cane nella giungla, non sei mai certo sia davvero un cane. Per questo la gente ha paura. Li tiene lontani, li rinchiude. Dice così. Che un cane può non essere un cane. E un gatto, invece? E?
all’improvviso c’è una giungla
qua attorno di colpo
un fragore di arsenale
crescono tutte le piante
I sorrisi. E le famiglie. Di una volta, mi pare, della mia infanzia. Numeri, tavolate. Giovani donne con occhi e capelli che (però) solo qui. Tra i drappeggi si intravedono piglio, affetto, ironia. Quando invecchiano, le offrono nelle parti nude del corpo, avanzano placide dai tessuti. Gli sguardi con tante ciglia di queste famiglie. Complici nell’impermanenza. Come se la solitudine fosse un’illusione. Non r/esiste nulla, neanche la solitudine.
Siedono quieti sotto la pioggia
si tengono per mano
poi entrano in casa
come se ne uscissero
Leggo: c’è una parola per dire che la neve cade con la luna piena.
Più sotto: una donna si ritrova l’unica parlante di una lingua ed è costretta a comunicare solo con gli uccelli (Isole Andamane).
Tagore aveva tradotto una sua poesia in inglese. Neruda dall’inglese in spagnolo. Qualcuno dallo spagnolo in inglese (non sapendo ci fosse già l’auto-traduzione di Tagore). Qualcuno dall’inglese in bengali (non sapendo dell’originale di Tagore). Chi avrebbe potuto scrivere cosa.
Sa anche un petit peu di francese, si vanta ciarliero. Cantiamo insieme? Alouette, gentille alouette… A squarciagola, sul tuk-tuk verso la sinagoga. Un vecchino minuscolo, appollaiato. Qualcuno gli ha detto che da noi le famiglie allontanano i nonni da casa. EPHAD. Ammutolisce. (Je te plumerai)
Casa e tempio. Tutte le sere una donna anziana, l’ultima nipote accanto, celebra il rito nella stanzina al piano di sopra. Poi spengono le candele, chiudono le offerte dietro una grata. Scendono e si incamminano a braccetto nella foresta.
La strada avanti indietro
la solita è evidente
non ci condurrà da nessuna parte
Treni. I viaggiatori sul tetto. Un solo battimano. È sufficiente per farli levare tutti in volo.
«Non ho bisogno di nessuno, sopporto qualunque mancanza». Anche questo mi dicevo, dico. Qui non significa niente. Perché tutti manchiamo (mancandoci).
Mia Lecomte (Milano, 1966) è una poetessa e scrittrice italiana di origine francese. Tra le sue pubblicazioni più recenti si ricordano: la silloge poetica Al museo delle relazioni interrotte (2016); la raccolta di racconti Cronache da un’impossibilità (2015); e il libro per bambini Gli spaesati/Les dépaysés (2019). Le sue poesie sono state tradotte in diverse lingue e pubblicate all’estero e in Italia in numerose riviste e antologie; e nelle raccolte For the Maintenance of Landscape. (2012. Trad. Johanna Bishop e Brenda Porster), Nuda proprietate (2020. Trad. Eliza Macadan) e Là où tu as ton corps (2020. Trad. Éric Sarner e Roméo Fratti. Prix Khoury Ghata 2021). Traduttrice dal francese, svolge attività critica ed editoriale nell’ambito della letteratura transnazionale italofona, a cui ha dedicato alcune antologie e il saggio Di un poetico altrove. Poesia transnazionale italofona (1960-2016) (2018). È redattrice del semestrale di poesia comparata «Semicerchio», de «La Traductière», rivista del festival anglo-francese di poesia, e collabora all’edizione italiana de «Le Monde Diplomatique». Nel 2017, con altri studiosi e scrittori attivi tra Francia e Italia, ha fondato l’agenzia letteraria transnazionale Linguafranca. È ideatrice e membro della Compagnia delle poete.
Leggo: c’è una parola per dire che la neve cade con la luna piena.
Bellissimo!
❤️
L’ha ripubblicato su Per un cavallino di cartapesta ? Ma no ! Eroi si diventa per amore, non per dovere ….