L’affresco di Maraden

Yves Bergeret

Miklos Bokor, «la fresque de Maraden»
(livre de Saralev H. Hollander)

Tratto da Carnet de la langue-espace.
Traduzione di Francesco Marotta.

*

Il pittore Miklos Bokor (1927-2019) è l’unico sopravvissuto della sua famiglia deportata ad Auschwitz e poi in altri campi di concentramento. Molto rigoroso e coerente in ogni sua scelta artistica, nel 1997 acquista nel Lot, non lontano da dove abitava, una piccola chiesa romanica del XII secolo quasi abbandonata. Una costruzione lunga 15 metri, larga 5 e alta 12,5. La restaura. Viene chiamata “Chiesa di Maraden”. Avendo un progetto preciso riguardo ad essa, impara la tecnica pittorica dell’affresco. Da maggio del 1998 a ottobre del 2002 realizza su quasi tutti i muri interni della chiesa un unico grande affresco, noto come “affresco di Maraden“. Dal 2001 tutto il complesso è considerato “monumento storico”. Per il momento è possibile visitarlo durante le Giornate Europee del Patrimonio, a metà settembre.
Su questo possente e originalissimo capolavoro, la casa editrice Méridianes ha da poco pubblicato uno stupendo libro di Saralev H. Hollander, illustrato con 115 fotografie, per lo più di Jean-François Peiré.

Il pensiero, la memoria, la vita, il talento e l’abilità pittorica di Bokor furono segnati per sempre dalla tragedia della Shoah e dalla dignità della resistenza della persona umana a ogni forma di violenza, per quanto grande essa sia. Tutta la sua opera plastica su carta o su tela esplora il cammino di sofferenza e di annientamento della persona, ma ne mostra l’irriducibile persistenza attraverso il ricorso continuo a marroni, ocra, grigi, beige, come a rappresentare una penombra tattile in cui la figura umana viene tratteggiata, disfatta ma ogni volta riemerge, un camminatore curvo che nulla può fermare o irrigidire.

In questa piccola chiesa, parete dopo parete, Bokor realizza dunque la marcia tenace della persona umana sulle tre dimensioni del vasto volume interno, un tambureggiare ovattato di una folla di personaggi indistinti. Tutti in cammino. Non un solo accenno di vegetazione, di elementi accessori, di un qualche orizzonte. Una folla in cammino. Un cammino ocra scuro, striato da modulazioni chiare o addirittura bianche, centinaia se non migliaia di persone in marcia. Un percorso lustrale, una fitta processione nel recinto stesso del tempio, oppure la rinascita dei morti nel giorno della Resurrezione, come direbbe uno scultore di timpano romanico. Ma qui non troneggia, né appare, alcun sovrano divino della collera e della giustizia: ciò che si manifesta è la folla, la folla che va. È il pensiero della folla che si alza, che resiste, che cammina, una folla pensante; noi stessi, probabilmente, se riflettiamo sulla marcia di quella massa, sul destino della persona umana.

Osservando questo imponente movimento di esseri votati all’annientamento e/o alla rinascita, vengono immediatamente alla mente alcuni altri edifici ricoperti di affreschi interni che testimoniano di un’umanità in azione, sconvolta ma alla ricerca di un suo percorso vitale: la cappella degli Scrovegni a Padova, dove Giotto ripete a profusione il suo blu insolito per perpetuare gli innumerevoli slanci rituali in direzione di una forma di spiritualità; la Sentenza di Caifa, anonima, di Piazza Armerina, dove, messo da parte il dio unico, è la parola degli esseri umani a proliferare, libera, e poi a organizzarsi in discussione; la cappella Brancacci a Firenze, dove Masaccio, Masolino e Lippi utilizzano le seduzioni cangianti del colore per infondere il desiderio del divino. E tanti altri ancora. Sto ovviamente pensando alla Casa dei Pittori di Koyo, in cui le vigorose scene ieratiche dei cinque posatori di segni del villaggio fanno emergere, all’interno di quel luogo, il lavoro di gestazione incessante della parola, il «tégu Bira».
Esattamente come le cappelle ortodosse medievali del Troodhos, a Cipro, che attraverso un movimento creato per stordire, spingono la persona che vi si lascia attrarre nel vortice visivo dell’alfabeto greco esploso, in mezzo alle scene ripetute della Passione.

La grande opera di Bokor, invece, mostra sui muri della sua chiesa non una divinità dominante, non un dio onnipotente dipinto sulla volta, ma la sacralità del movimento di masse enormi di uomini in cammino, che avanzano incuranti degli orrori che potranno subire.

Ed eccolo, appena pubblicato, il magnifico libro su questo “affresco di Maraden“. Un libro ammirevole di per sé. Non si tratta, infatti, di un minuzioso resoconto delle immagini che si possono vedere in questo luogo. Quante volte la storia accademica dell’arte si avviluppa nel piattume, nel superficiale, nel tassonomico, nel noioso, non sapendo fare altro che individuare delle scene o raffigurazioni di gesti riconducibili a questa o a quella “scuola stilistica”, ecc., ma ignorando l’analisi, rifiutando l’antropologia di ciò che costituisce l’opera, dell’azione che intraprende, che propaga come una lustrale e iniziatica attività dialettica.

Se la chiesa di Maraden è ammirevole, questo libro lo è dunque a sua volta. Non si tratta assolutamente di un bel repertorio iconografico con commenti compiaciuti e parafrastici di uno studioso tutto calato nel ruolo, proprio per niente!
Questo libro è una potente polifonia, se così si può definire, gestita direttamente dall’autrice e, credo, dall’editore. Le voci vi si incrociano, con una chiarezza pari alla loro forza: 1) quella della Shoah, dramma dell’esodo e dell’erranza assoluti; 2) le tappe minuziose del racconto biblico della fuoriuscita dall’Egitto; 3) l’ampia dinamica di filosofia e teologia ebraica che l’autrice inserisce costantemente nel cuore della sua analisi; 4) la tenacia sensibile e dotta dell’autrice stessa, che non nasconde mai la sua passione, il suo impegno, la sua attiva fedeltà a Bokor; 5) l’instancabile lavoro di aratura che Bokor opera con le sue incisioni, dapprima sull’intonaco e poi, con i pennelli, sempre sulla stessa superficie, per dare movimento alla folla.

Ciò che è particolarmente riuscito in questo libro, e di questo vanno ringraziati tanto l’autrice che l’attento editore, è il rapporto mutevole tra l’opera, l’affresco di Maraden, e l’analisi, il testo vivace e ricco di erudizione di Saralev H. Hollander. Due comete che a volte si avvicinano e a volte si allontanano, per poi ricominciare il loro approccio. L’analisi instancabile e l’erudizione filosofica e teologica brillano in ogni paragrafo; ma senza mai appesantire o, peggio, cercare di sezionare l’affresco di Maraden. Da parte sua, Bokor, in primo luogo un artista la cui tragica esperienza di vita è sorretta dall’impulso di una potente intuizione creatrice, molto più, senza alcun dubbio, che da un’elaborazione intellettuale che giustifichi razionalmente ogni porzione di affresco, segue il suo percorso creativo, irriducibile, sovvertendo le consuetudini che l’analisi avrebbe rischiato di consolidare, sfuggendole, inoltrandosi in un cielo buio o sconosciuto, ritornando, riavvicinandosi, ma sempre fuori dal controllo di qualsiasi razionalità riduttrice. In breve, creatore e critico praticano qui, per il lettore, una dialettica aperta e feconda. Nessuna delle due distinte voci principali di questa polifonia conclude, né domina l’altra, lasciando il libro nella sua modalità di apertura, così come il Mosè e Aronne di Schönberg, per scelta deliberata, non deve porre fine al dibattito.

L’affresco di Maraden, il testo e/o l’opera sulle pareti interne dell’edificio, non è mai luogo di preghiera individuale, specchio spirituale teso a un’anima solitaria, finestra sull’interiorità. Né il testo, del resto aiutato in questo dalla sua effervescenza, né l’affresco, si preoccupano della psicologia dell’individuo, di quella di Miklos Bokor o di quella di un visitatore che cerca confessione o consolazione a qualche ferita privata. I volti dipinti, quando i loro tratti vengono raffigurati, sono indifferenziati, appena abbozzati.
Questo libro, indissolubilmente legato all’affresco nella chiesa di Maraden, è qualcosa di ben diverso dal libro tipicamente occidentale, di solito uno specchio che si attraversa in un percorso in forma di monologo più o meno abilmente costruito da un autore onnisciente, alla resa dei conti distante dalla realtà; questo doppio volume, questo libro-affresco, è fratello di La morte di Virgilio, di Hermann Broch, nonostante il titolo individualizzante di quest’ultimo. Raggiunge le stesse altezze e profondità di visione del romanzo di Broch, scampato per poco alla Shoah. La prima parte, magistrale, è il lungo fluire di un’umanità brulicante e in via di disfacimento o addirittura di autodistruzione nell’antico porto di Brindisi che Virgilio, allettato e semicosciente, percepisce; in seguito, Broch elabora una visione prospettica sul destino europeo della parola e del potere, proprio come fa qui l’affresco-testo che spinge, ben oltre l’orizzonte europeo, a rifletterci.

Tutti questi movimenti umani, l’agonistica del mito biblico, lo sradicamento disumanizzante della Shoah e il rimbalzo della resistenza contro di esso, la dinamica appassionante e appassionata dell’analisi di Saralev H. Hollander e, centrale pur senza esserlo (è il cammino dell’umanità a essere tale), l’instancabile lavorìo, quasi percussivo, del pittore, sicuramente più un creatore intuitivo e estremamente cosciente del dramma in atto che un erudito teologo esegeta, come abbiamo potuto constatare, tutti questi movimenti congiunti vengono a costituire, in questo libro, una straordinaria architettura, dove forze possenti e forze divergenti creano una sorta di struttura gotica, in tensione concorde, creano, accanto all’affresco di Maraden, un secondo capolavoro gemello: questo libro.

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1 commento su “L’affresco di Maraden”

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