Tratto da: AA. VV. (a cura di Giuseppe Zuccarino), Un seminario su Gilles Deleuze, di prossima pubblicazione in "Quaderni delle Officine", vol. CXIX, settembre 2022.
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Marco Ercolani
Il lavoro dell’inatteso.
Riflessioni sulle lettere e le interviste di Deleuze
Una lettura mai indifferente
Scrive Deleuze in una lettera a Clément Rosset: «Le mie pagine si accumulano e sono abbastanza contento, ma ogni volta mi manca quell’infinita e sempre più piccola distanza per terminare, con il rischio che alla fine non avvenga più, se non per intervento divino»[1]. Non sembrano tanto le affermazioni di un filosofo, quanto piuttosto quelle di uno scrittore attento ai dettagli del suo stile, e costantemente alla ricerca della perfezione espressiva. «Ha letto i Cahiers de Rodez (3 o 4 grandi tomi) di Artaud? Ho la sensazione che si tratti di qualcosa di fondamentale, almeno quanto gli ultimi quaderni di Nietzsche. Una genealogia e una creazione di ritmi fantastici, con un regolamento di conti anti-cristiano. Una lettura che mi ha scosso profondamente»[2].
Nessuna lettura lascia indifferente il filosofo, al contrario lo conferma in una posizione attiva di lotta e di dialogo. Sembra che Deleuze non sia mai solo a parlare, ma abbia sempre l’intenzione di rivolgersi a chi lo ascolta e a chi lo legge. Ogni suo scritto presuppone un altro da sé che lo approvi o lo critichi, in un atteggiamento di libertà o seduzione reciproca dove opposizione e complicità possono fronteggiarsi e convivere, senza che domini una Ragione assoluta e vincente. Il “libero” Deleuze vuole ripercorrere le fasi del processo creativo e del pensiero filosofico, e non è casuale che arrivi a sconfessare la psicoanalisi tradizionale, immaginando non più una stanza adibita a colloqui privati, ma un luogo nuovo e sconcertante, attraversato da emozioni e pensieri eterogenei, non strettamente legati a tabù sessuali.
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La violenza dell’arte
In una lettera ad André Bernold, Deleuze osserva: «Curioso come le nostre esistenze (la mia e la tua) si proteggano dal loro stato di crisi permanente trovando riparo in ciò che vi è di più violento e tremendo in arte. Il fatto è che quel terrore lì sradica l’abiezione di questo mondo (non c’è giorno che non porti con sé il suo lotto di comicità abietta e non ci costringa a odiare la nostra epoca, non tanto in nome di un compianto passato, ma nel nome del presente più profondo). […] Due sono le cose che abbiamo: la violenza dell’arte e la violenza della grazia e della bellezza dei bambini, del tuo Nicholas. Anche se tardi, ho imparato ad apprezzare e conoscere meglio Ravel: c’è in lui qualcosa di diverso da chiunque altro, una sorta di estraneità radicale, come disponesse anche lui di un’esistenza fragile, al riparo dalla straordinaria violenza della sua arte»[3].
La concezione dell’arte come violenza nella quale trovare riparo dalla violenza del mondo è un antidoto rispetto all’idea tradizionale dell’arte come salvezza. Nessuna arte riappacifica o salva, l’arte è violenta e infantile e suscita inquietudine. Nulla che non sia per certi versi “perturbante” rientra nella sua sfera. L’arte può essere accostata solo a qualcosa di pericoloso, che turba tanto l’ordine della grammatica quanto l’ordine del mondo. Non è un caso che Deleuze abbia dedicato uno dei propri libri a un pittore come Bacon[4]. Ogni discesa agli inferi – non malattia psichica ma esperienza di follia senza soluzioni previste o risposte già formulate – è tanto assoluta (nel formare il mondo interno con immagini, simboli, analogie) quanto relativa (nel definire il tempo preciso e limitato dell’esperienza perturbante). Melville ammirava gli uomini che sapevano immergersi nelle profondità marine, ma ricordava che ci vuole una grande balena per scendere cinque miglia e oltre. Fin dall’inizio del mondo, i palombari del pensiero sono tornati con gli occhi iniettati di sangue. Deleuze afferma che «lo scrittore in quanto tale non è malato, ma piuttosto medico, medico di se stesso e del mondo»[5]. Ci ricorda che la scrittura è “un’impresa di salute” non tanto perché lo scrittore sia necessariamente sano (è quasi impossibile che lo sia), quanto perché «gode di un’irresistibile salute precaria che deriva dall’aver visto e sentito cose troppo grandi, troppo forti per lui, irrespirabili, il cui passaggio lo sfinisce, ma gli apre dei divenire che una buona salute dominante renderebbe impossibili»[6]. Da questa percezione spinta oltre i consueti limiti umani, lo scrittore torna con gli occhi arrossati, ma ancora in grado di riferire ciò che ha visto.
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L’uomo infame
Scrive Deleuze di Foucault: «È l’uomo messo a confronto col Potere, cui viene ingiunto di parlare e di uscire allo scoperto. È molto più vicino a Čechov che a Kafka. In Čechov c’è il racconto della piccola bambinaia che strangola il bimbo perché da giorni e giorni non riesce a dormire, o del contadino che va sotto processo perché toglie i bulloni a una rotaia per zavorrare la sua canna da pesca. L’uomo infame è il Dasein. L’uomo infame è una particella presa in un fascio di luce o in un’onda acustica. Forse alla “gloria” non si giunge diversamente: essere afferrati da un potere, da un’istanza di potere che ci mette in mostra e ci fa parlare. C’è stato un momento in cui Foucault non sopportava la sua notorietà: qualunque cosa dicesse, lo si ascoltava per lodarlo o criticarlo, nessuno cercava di capire. Come riconquistare l’inatteso? L’inatteso è una condizione di lavoro. Essere un uomo infame era una specie di sogno per Foucault, il suo sogno comico, il suo particolare modo di ridere: sono forse un uomo infame? Il suo testo La vita degli uomini infami è un capolavoro»[7].
La necessità di sovvertire è imprescindibile in Deleuze. Egli scrive «l’inatteso è una condizione di lavoro» così come Mandel’štam, poeta da lui amato, aveva scritto: «Aria della poesia è l’inatteso»[8]. Se non si mette in evidenza l’attimo clamoroso, l’eccezione che sconvolge la rete del preordinato, ogni ricerca filosofica appare insipida, non condita dal “sapere” vero, che è “sapore” della conoscenza. La ricerca non è mero accumulo di dati, ma fondazione di una lacuna incolmabile, generante. Ogni studio sulla natura del pensiero non è mai una sonata tripartita in modo classico, ma un’erratica rapsodia atonale. L’«uomo infame», per tornare alle riflessioni deleuziane su Foucault, è quello che esce dallo schema dell’anonima sopravvivenza per “lampeggiare” anche solo un istante, nell’eccezione del male, del delitto, oppure della risata, del balbettio.
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Alla maniera di un turbine
In un’intervista, Deleuze dichiara: «Ciascuno ha le proprie abitudini di pensiero: io ho la tendenza a pensare le cose come insiemi di linee da districare, ma anche da tagliare e ritagliare. Non amo i punti, fare il punto mi sembra stupido. Non è la linea a trovarsi fra due punti, è invece il punto a essere l’incrocio di più linee. La linea non è mai regolare, il punto è solo l’inflessione della linea. Del resto ciò che conta non è né l’inizio né la fine, ma il mezzo. Le cose o i pensieri germinano o crescono nel mezzo, ed è lì che bisogna installarsi, è sempre lì che si produce la piega. Perciò un insieme multilineare può comportare ripiegamenti, incroci, riflessioni, attraverso cui entrano in comunicazione la storia della filosofia, la storia, le scienze, le arti. È paragonabile alle circonvoluzioni di un movimento che occupi lo spazio alla maniera di un turbine, con la possibilità di affiorare in un punto qualunque»[9].
Un movimento «che occupi lo spazio alla maniera di un turbine» è quello che sovverte la natura delle cose. Cerca sì il mezzo, ma non come misura mediana bensì come punto in cui si crea una piega, una complicazione, una prospettiva nuova. Ne consegue il multilinearismo che caratterizza il pensiero di Deleuze, «pensiero nomade» al pari di quello di Nietzsche[10], in quanto refrattario a bloccarsi in codici e ideologie, ma sempre pronto a mettersi e rimettersi in gioco. Il suo amore tardivo per Ravel, visto come vita fragile contenuta in un’architettura originale di suoni, lo testimonia, e non è sorprendente che la morte colga il filosofo mentre sta pensando a un libro sulla musica. Niente è identico e mono-tono. Lo stesso accade in un quadro di Bacon, artista per cui è fondamentale camminare sull’orlo del precipizio, in una condizione sospesa tra la fedeltà alla rappresentazione della figura umana e la distorsione dell’immagine causata dalle emozioni più intime e brutali. La sua opera urticante differisce da ogni altra, nell’arte contemporanea. Le sue forme sono deformazioni, e una tela di Bacon è sempre dipinta «alla maniera di un turbine». Secondo Deleuze, si impara relativamente poco se si procede soltanto attraverso il parlare discorsivo; è forse preferibile saper abitare anche il balbettio della lingua, che offre ad ogni ricerca (filosofica, letteraria, pittorica) un sottofondo tellurico, in sismico movimento.
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Eterogenesi
In una lettera a Jean-Clet Martin, Deleuze afferma: «Credo alla filosofia come sistema. A non piacermi è la nozione di sistema quando la si rapporta alle coordinate dell’Identico, del Simile e dell’Analogo. Penso sia stato Leibniz a identificare per primo sistema e filosofia, e io aderisco al senso che gli ha dato lui. Anche le questioni riguardanti il “superamento della filosofia”, la “morte della filosofia” non mi hanno mai toccato. Mi sento un filosofo molto classico. Per me il sistema non deve essere soltanto in perpetua eterogeneità, ma deve essere una eterogenesi, cosa che per quanto ne so non è mai stata tentata. […] Da questo punto di vista, ciò che lei dice sulla metafora, o meglio contro di essa, mi sembra giusto e profondo. Aggiungo soltanto qualcosa che non contraddice in nulla ciò che lei dice, ma va in un senso affine: la doppia deviazione, il tradimento mi sembrano operazioni che instaurano un’immanenza radicale, è un tracciato di immanenza – da cui il rapporto essenziale con la Terra»[11].
Come ha intuito Jung, e poi confermato Jaynes in Il crollo della mente bicamerale[12], gli dèi, nell’antichità greca (le visioni esterne all’eroe, le “voci” oracolari di Apollo o di Atena), sono l’equivalente delle allucinazioni e dei deliri dell’uomo contemporaneo. Senza la presenza degli dèi il mondo si popola di sintomi, e i sintomi si assomigliano tutti, all’interno di una triste coralità omologante che vanamente le diagnosi psichiatriche differenziano: non esiste una riflessione consapevole sull’eterogenesi, ma un costante appiattimento sull’Identico. Il pensiero plurale di Deleuze ci invita ad entrare nel mondo della follia non come giudici ma come osservatori, non come militari armati di categorie diagnostiche ma come creature dotate della volontà di imparare dall’esplorazione di nuovi mondi. La follia non è un sotterraneo buio dal quale si uscirà guariti con l’aiuto della scienza psichiatrica, bensì la curva di un viaggio squassante che tanto il poeta quanto il malato possono percorrere, non senza riportarne cicatrici: il poeta per il tempo definito dalla sua opera, il malato per il tempo incerto del suo dolore, che egli non ha modo di misurare né di controllare. Gli studiosi dell’“altra parte” della mente hanno questo dovere: non giudicare i fenomeni sconosciuti che incontreranno nel loro viaggio come incantesimi da razionalizzare o lacune da colmare, ma osservarli in quanto eventi grammaticali, visivi, umani, in grado di sconvolgere fin dall’origine le radici del senso – segni di una sragione consapevole di reinventare, con Nietzsche, strade nuove di conoscenza, non recintate dal controllo farmacologico e dalla repressione comportamentale.
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Il cristallo e l’immaginario
Scrive Deleuze: «L’immaginario non è l’irreale, ma l’indiscernibilità del reale e dell’irreale. I due termini non si corrispondono, restano distinti, ma non smettono di scambiarsi la loro distinzione. […] Per questa ragione non attribuisco molta importanza al concetto di immaginario. D’altra parte esso presuppone una cristallizzazione fisica, chimica o psichica; questo concetto non definisce nulla, ma si definisce attraverso l’immagine-cristallo come circuito di processi di scambio; immaginare significa fabbricare immagini-cristallo, lasciare che l’immagine funga da cristallo. Non è l’immaginario, è il cristallo ad assumere una funzione euristica, in ragione del suo triplo circuito attuale-virtuale, limpido-opaco, germe-ambiente. E, d’altra parte, il cristallo stesso non vale che per ciò che vi si vede, così che l’immaginario è superato. Nel cristallo si vede il tempo divenuto autonomo, indipendente dal movimento, i rapporti temporali che non smettono di generare il falso movimento. Non credo a una potenza dell’immaginario nel sogno, nella fantasia… ecc.».[13]
Il fatto di non attribuire importanza all’immaginario è, ancora una volta, la prova della fluidità del pensiero deleuziano, che sottrae ogni ricerca letteraria e filosofica a dogmatiche cristallizzazioni che potrebbero autorizzare a privilegiare il sogno rispetto alla realtà. I processi mentali dell’uomo non sono di esclusiva pertinenza dell’inconscio: fluttuano fra reale e irreale, come nei movimenti del cinema, in una costante ricerca del medium comune, della connessura, della “com-plicazione”, e rifiutano le sirene di un “fantastico” senza ritorno. La filosofia è pericolo e ricchezza, lacuna e viaggio, all’interno di un sempre rinnovato stupore. Il “lavoro dell’inatteso”, in questa ricerca, consiste nel non cedere alle trappole del dejà vu o del “già pensato”, e affidarsi al balbettio di un pensiero sempre in divenire. Un pensiero consapevole dell’eterogeneità della sua forza, esibita non come potenza (fosse pure quella della feconda immaginazione), quanto piuttosto per testimoniare di un’energia immanente, che coinvolge e trasmuta reale e irreale, formando un’opera in sé nuova e inconfondibile con altre. «Il nuovo, in questo senso, è sempre l’inatteso, ma anche ciò che diventa immediatamente eterno e necessario. Ricopiarlo, rifarlo non suscita alcun interesse. Un grande film è sempre nuovo, ed è questo che lo rende indimenticabile. Le immagini cinematografiche sono chiaramente firmate. I grandi autori cinematografici hanno le loro luci, i loro spazi, i loro temi. Non si può confondere uno spazio di Kurosawa con uno di Mizoguchi. La violenza di Losey non può essere confusa con quella di Kazan, la prima è una violenza statica, immobile, la seconda un acting-out. Un rosso di Nicholas Ray non è lo stesso rosso di Godard…»[14].
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Non essere maestri
Deleuze scrive ad Arnaud Villani: «Mi permetta […] di farle un solenne richiamo, se non le spiace. Non si lasci incantare né trascinare da me. Ho visto casi di persone che volevano diventare “discepoli” di qualcuno, e che avevano certo tanto talento quanto il “maestro”, ma che ne sono usciti inariditi. È questa una cosa terribile. Lavorare su di me comporta grandi inconvenienti: primo, non la aiuterà nella sua carriera universitaria, il che forse non è l’essenziale, ma è comunque rilevante; e secondo, la cosa più importante: l’opera filosofica e poetica che l’attende non deve rischiare di rimanere ancorata alla mia»[15].
Cosa raccomanda Deleuze allo studioso della sua opera? Che chi incontra il proprio Buddha non deve onorarlo, ma ucciderlo. La fedele devozione al maestro è un impaccio per la crescita interiore del discepolo. Occorre differenziarsi, seguire il proprio divenire. Gli altri, di cui l’artista e il filosofo si nutre, sono esseri necessari, ma non dominanti. In questo, Deleuze è totalmente coerente con l’idea di una filosofia che riaffermi senza alcun dubbio la libertà del proprio autonomo pensare, a costo di tradire i maestri e la tradizione. Senza “tradimenti” non c’è un’evoluzione del pensiero. Scrive Gustavo Giacosa, performer ed esperto di arte outsider: «I territori dell’arte sono luoghi sprovvisti di qualsiasi moralità. Qui tradire, rubare, uccidere sono parole che non spaventano nessuno e anzi sono azioni da incoraggiare all’interno di qualsiasi pratica artistica. È solo tradendo le aspettative di genitori e maestri che un artista può incontrare la sua strada. Per primo li deruberà di soggetti e informazioni che serviranno ad alimentare la sua vocazione affamata. Infine egli sarà costretto a ucciderli per poter liberarsi di ogni rimorso che lo terrebbe legato alle sue origini. È chiaro, non sono, queste, azioni che un artista fa in maniera cosciente. Solo ad azioni compiute, e con la distanza operata dal tempo, può riconoscerle come tali. Per le strade dell’arte si avanza a tentoni e i contorni si definiscono solo col tempo. Si è confusi, contraddittori, e in questi casi il tradimento è talvolta rivolto verso se stessi. E forse questo è l’unico tradimento imperdonabile, quello che non riesce a liberare noi stessi dalle nostre illusioni, dai nostri fantasmi»[16]. Di un tale imperdonabile tradimento Deleuze non si è mai reso colpevole, perché ha sempre cercato di interpretare i fatti politici e culturali con le lenti della libertà. «È strano che sia un autore che passa per un intellettuale puro, Proust, ad averlo detto, in modo così chiaro: trattate il mio libro come un paio di occhiali diretti sull’esterno; ebbene, se non vi vanno, prendetene altri; troverete il vostro strumento che necessariamente è uno strumento di lotta»[17]. Un’affermazione del genere, che a uno studioso di letteratura potrebbe apparire blasfema, in realtà ci invita a non dimenticare mai che il mondo esterno e quello interno sono rizomi inestricabili, e che l’io non costituisce una monade chiusa in se stessa ma è in costante rapporto con una moltitudine di altri elementi.
Note
[1] Gilles Deleuze, lettera a C. Rosset del maggio 1979, in Lettere e altri testi, tr. it. Macerata, Giometti & Antonello, 2021, p. 21. Il filosofo si riferisce alla scrittura in corso di Mille plateaux, libro che sarà pubblicato in Francia l’anno dopo (cfr. G. Deleuze – Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. Napoli-Salerno, Orthotes, 2017).
[2] Lettera a C. Rosset del 18 giugno 1983, in Lettere e altri testi, cit., pp. 24-25.
[3] Lettera ad A. Bernold del 28 maggio 1994, ibid., p. 108.
[4] G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, tr. it. Macerata, Quodlibet, 1995.
[5] G. Deleuze, La letteratura e la vita, in Critica e clinica, tr. it. Milano, Cortina, 1996, p. 16.
[7] G. Deleuze, Un ritratto di Foucault, in Pourparler. 1972-1990, tr. it. Macerata, Quodlibet, 1990, pp. 144-145. Cfr. Michel Foucault, La vita degli uomini infami, tr. it. Bologna, Il Mulino, 2009.
[8] Osip Mandel’štam, Dell’interlocutore, in La quarta prosa e altri scritti, tr. it. Milano, SE, 2020, p. 50.
[9] Su Leibniz, in Pourparler, cit., p. 213.
[10] Cfr. G. Deleuze, Pensiero nomade, in L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, tr. it. Torino, Einaudi, 2007, pp. 319-331.
[11] G. Deleuze, Lettera-prefazione a Jean-Clet Martin, in Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, tr. it. Torino, Einaudi, 2010, p. 300.
[12] Cfr. Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, tr. it. Milano, Adelphi, 1984.
[13] Dubbi sull’immaginario, in Pourparler, cit., pp. 92-93.
[14] Ritratto del filosofo da spettatore, in Due regimi di folli e altri scritti, cit., p. 174.
[15] Lettera del dicembre 1981, in Lettere e altri testi, cit., p. 89.
[16] In M. Ercolani – G. Giacosa, Del tradimento. Una conversazione, testo apparso nel blog «Scritture», 24 novembre 2020.
[17] Gli intellettuali e il potere, in L’isola deserta e altri scritti, cit., p. 263.
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