Non so dove sia il boschetto in cui Sofocle fa morire Edipo. Oggi Colonòs è il campo di sterminio degli alberi, l’insulto all’equilibrio della natura, che è poi l’unico vero “splendore” umano, il suo incespicare, il suo cadere, il suo niente.
E nel niente di tutto ciò che si spegne, ed era, nel niente di quel bosco in cui Edipo finisce di vivere – e inizia a respirare, finalmente, spegnendosi –, in questo vuoto saccheggiato si apre, silenziosa, la corolla della memoria. Intorno, all’improvviso, si fabbrica il silenzio del petalo.
Per irrompere nell’orrore di telefoni, metro, uffici e bar, basta una lacrima che, da sola, ha “divelto il giorno”. Questa lacrima che ha “divelto il giorno” mi ha aperto il sentiero in questa scrittura.
In una specie di discesa nel silenzio, quando fuori degli occhi un mondo rotto si accatasta deforme su sé stesso, nel fondo di qualcosa – che potremmo essere noi stessi – avviene un altro mondo, che si costruisce, o si ricostruisce inseguendo un equilibrio.
C’è, appunto, una specie di mondo parallelo, che si svolge nella memoria. Recupera frammenti, monta e rimonta immagini, ci riporta allo sguardo dell’infanzia, a frammenti, allo scorrere del nostro film arredato di sogni e controsogni, e albe. A un percorso che si apre, senza orizzonti, senza prospettive, su un fondale piatto dove tutto avviene e si spegne nello stesso istante. E attende di essere richiuso.
Ed è così che ho visto – perché leggere è raccogliere visioni – quello che qui si muove e che mi sembra l’annuncio di una visione, ciò che deve venire. Il ricordo che si prepara ad arrivare e si annuncia con “tonfi di aria tiepida” e un “magma incorporeo della luce”. E con un lineare “silenzio di latte”. Ricordo (e scrittura) che non può farsi cristallo appunto perché ricordo, creatura indefinita che ignora i confini e la precisione delle linee.
Scrittura del ricordo, insieme di brezze che non lasciano il tempo alle immagini di prendere vita, e alla nube di non sciogliersi in altre forme. Cosa che si sfa appena è. C’è giusto il tempo di intuire quali creature e creazioni si promettono, “sottili come ghiaccio sottile”, in un non-luogo (che racchiude ogni possibile luogo) dove “l’umidità invade ogni vuoto”, e non resta nulla di vuoto, nel vuoto assoluto.
“Colono 22” è “circolarità” delle cose, Uroboro dove il bambino tiene per mano la propria vecchiaia e intanto si guarda in uno specchio che riflette la nuca e non il volto, in un interminabile proseguire.
Quando dico che le immagini “non possono farsi cristallo”, intendo dire che non si esauriscono in una descrizione ma – insieme di forme varie ed intuibili – si sciolgono in parole che veloci scivolano verso altro, in continue metamorfosi; quasi la “probabilità quantistica” che da uno stato di indeterminatezza possa prendere forma qualsiasi cosa. O una cosa qualsiasi.
In questo accenno di visione, in questo pullulare di possibilità, in questo intravedere mi sembra ci sia un legame con Edipo e la sua storia: di chi vedendo (e vivendo) non è stato in grado di vedere, e da cieco risistema (o almeno tenta) le tessere di un mosaico che l’acqua del tempo ha inevitabilmente confuso.
Il recupero del passato è un’operazione che non può mai riuscire ma con cui tentiamo di ricostruirci. Riassemblare il passato è, in un certo senso, cucire insieme i frammenti di un presente che non sappiamo interpretare, perché è troppo presente. Il passato è soprattutto un tuffo dall’alto, di notte. Non vediamo, non sappiamo. Nel tragitto fra lo scoglio e lo specchio dell’acqua, tutto ciò che succede è tutto, e tutto insieme. Riflesso nella nostra stessa pupilla. Che si spegne.
Colono 22
“Ti svelerò, figlio d’Egeo, tal bene,
che per questa città mai non invecchi.
Subito il luogo io mostrerò, né guida
voglio che mi tocchi, ove io debbo morire.
Ma tu, non dire a nessuno mai degli uomini
dove si trova, in che contrada è nascosto:
ché schermo a te sarà contro i nemici
più d’assai scudi e di lance alleate.”
(Edipo a Colono)
*
Nel gomitolo di buio
nell’angolo duro del giardino
riposano le carni dei miei cari,
generazioni e generazioni
parole famigliari, sguardi,
strati d’immobilità senza tempo.
Intorno si rincorrono scampoli
e ruote d’avvenire
cigolano piano, incrinature
e tonfi d’aria tiepida.
Dove si sono impigliate le ali
delle piccole memorie?
Sottili come ghiaccio sottile,
nel fondo muovono e respirano
una resistenza al lungo inverno.
*
Una lacrima smemorata ha divelto
questo giorno; un po’ tardi davvero,
per nascere al mondo.
Senza bussola, calando
la terra inesplorata.
Ha coperto chilometri,
risalito pieghe vecchie
come i dolori.
Instabile primavera vestita
di follia, ha occupato scuole
fabbriche edifici abbandonati.
Ha ucciso epoche e padroni.
Dormito sotto le stelle,
in fondo al mare.
S’è raccolta in preghiera
nel cuore
d’una foglia.
*
Nell’infanzia vedi il mondo
con occhi tuoi. Nessun prestito
o frammento da restituire.
La ragione brucia come una fenice.
Ogni cosa un cuore, un cuore suo
fluttuante, morte dopo morte,
eternità senza memoria,
pulsante.
*
Ciò che non vedo è il cuore
coperto d’edera e braci;
la risalita al tempio, le rosse croci fiammeggianti
l’immensità delle alghe, la profondità del suono.
Ciò che non vedo ha il mio nome
sopra ogni riflesso, nel magma
incorporeo della luce.
Ciò che non vedo è nato
quando sono nato, e non morirà
con me: eppure
non nell’inizio va cercato.
*
Il tempo indicibile della creazione
ci ha scossi come dalla tomba.
Il silenzio spezzato nelle mani cade
come neve… Cade lampo
nella città accecata. Tornerà
il tempo alla sostanza,
il tuono al cielo. Torneremo
alla nostra natura di parti
al tutto.
*
Brucia la natura instabile, alleggerisce
l’atomo di buio. La fuliggine ha reso
l’ultima giustizia, il fuoco ci ha spento.
La famiglia ha sete d’eternità.
*
Il suolo batte il tallone, la cavalla è imbizzarrita.
Com’è bello questo canto, questo silenzio di latte
dove lente parole tornano all’immagine.
Muschio copre la gola
l’umidità invade ogni vuoto,
diluisce la rabbia, arresta il suono.
Com’è bello questo canto soffice,
dalle corde nessuna vibrazione.
L’universo atterrito nell’urlo
senza voce.
*
Ho masticato lo scheletro di mia madre,
ho disotterrato le viscere di mio padre.
Dietro il vuoto. Nello stomaco
un’immensità in espansione,
una costellazione d’ali;
e il bicchiere bianco come acqua.
Nessun dio dove tornare,
solo geometrie di suoni,
qualche gomitolo di polvere.
Lo sguardo sempre cieco del frigo.
*
Sono stata rinchiusa per giorni
nella scatola del cortile;
come un gatto o come un sasso.
Metà luglio di solitudine.
Ma l’occhio cieco imparava a guardare
nei barbagli di solitudine.
E si riempie il luogo delle vite della vita,
dal più piccolo al più grande
gli occhi di altri esseri sono i miei.
*
Quando anche questo compito sarà terminato
l’ultimo verso scioglierà in silenzio.
I riquadri fermi nell’anello dei ricordi.
Qualche specchio ora non mostra
la propria immagine.
Un posto in prima fila,
lo spettacolo tutto, senza interruzioni.
*
È notte ovunque, è notte ovunque!
La notte non ha nome.
*
L’occhio ha inspirato
ritirato l’aria embrionale, a fondo,
e pallida d’ombre.
Si è convinto del contrario,
ha fuoriuscito in espiro da sé
l’immagine.
L’occhio del diaframma va a fuoco,
pagliuzze d’oro cantano attorno.
*
Non si vive per nessuno,
la vita cambia nome oppure
immagine. Ma
per il quarto di luna,
per il gatto solo nel cortile,
per il filo d’erba che esiste
da qualche parte
nell’inverno o nell’estate.
*
Cuore solenne dell’infanzia,
quarto di luna
verde immaturo.
Come ti cali rapido, come
dentro la tua immagine.
Risali pesciolino la fresca
corrente del tuo doppio.
Non sai, non importa.
Da te tutti stiamo tornando.
*
“Qual poi d’Edipo fu la fine, nessuno
non lo potrebbe dire, tranne Teseo”
(Edipo a Colono)
Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. “L’aria natia tormentosa” ne influenzò di certo carattere e scelte: il sapore inizi ‘900 della città, il cui orologio s’era fermato e che pareva una parentesi tra Balcani ed Europa, le ha dato la possibilità di crescere sentendo parlare per le strade e nelle botteghe tedesco, croato, serbo, greco. Dopo il Liceo studia Filologia Bizantina e Neo greco presso l’Ateneo tergestino, con intermezzo di un anno trascorso ad Atene per la preparazione della tesi di laurea. Traduttrice e poetessa, ha pubblicato due raccolte poetiche (Thauma ed.). Suoi articoli, racconti e poesie sono comparsi in riviste italiane ed internazionali e tradotti in diverse lingue. Ha organizzato assieme ad prof. Andrea Aveto dell’Università di Genova la riedizione dei “Discorsi militari” di Giovanni Boine, curando in particolare l’antologizzazione dell’epistolario boiniano e la ricerca nelle emeroteche di Bologna e Roma. Il volume è stato pubblicato dalla Fondazione del Museo Storico del Trentino. Collabora in modo continuativo con la rivista internazionale “Traduzionetradizione” – http://www.traduzionetradizione.com/, con la rivista Poetarum Silva – https://poetarumsilva.com/, con l’Università di Atene, con diversi poeti greci di cui cura l’opera in maniera continuativa o sporadica: Ioulita Iliopoulou, Athinà Papadaki, Spyros L. Vrettòs, Liana Sakelliou, Christos Toumanidis, Sotirios Pastakas, e altri. In Italia collabora con Paola Minucci, Letizia Leone, Franca Mancinelli e altri. Studia presso la scuola di “Animologia Immaginale” di Trieste. È giurato e traduttrice per il Festival e Concorso Internazionale del Castello di Duino. Ama tradurre. Ama il greco. E forse questo è ciò che conta, nella sua biografia.
Copertina: Sofia Datseri, “Afròs” (“Schiuma”).
Questo articolo mi ha commosso, l’ho trovato molto interessante e questa poesia mi ha colpito:
“Non si vive per nessuno,
la vita cambia nome oppure
immagine. Ma
per il quarto di luna,
per il gatto solo nel cortile,
per il filo d’erba che esiste
da qualche parte
nell’inverno o nell’estate.”
Testi davvero di alto livello.
Bravissima l’autrice.
Nino
“Quando anche questo compito sarà terminato
l’ultimo verso scioglierà in silenzio.
I riquadri fermi nell’anello dei ricordi.
Qualche specchio ora non mostra
la propria immagine.
Un posto in prima fila,
lo spettacolo tutto, senza interruzioni.
*
È notte ovunque, è notte ovunque!
La notte non ha nome.”