La lingua in poesia, la comunità, la vista nuda – su “Ponti sdarrupatu” di Alfredo Panetta

Alfredo Panetta scrive un libro, Ponti sdarrupatu. Il crollo del ponte (Passigli Editori, Bagno a Ripoli 2021), che unisce in sé la potenza espressiva del dialetto calabrese, la tensione etica del discorso che si esplicita di verso in verso e nell’impianto generale dell’opera, la partecipazione umana (mai retorica, mai banale) alle storie delle vittime del crollo del Ponte Morandi di Genova. 

Il “testo a fronte” in italiano aiuta i non parlanti calabrese a comprendere i contenuti dei testi, ma mi permetto di consigliare a tutti di affidarsi anche alla lettura ad alta voce della versione in calabrese (e i lettori di origine salentina e siciliana possono farlo forse più agevolmente anche a livello di comprensione lessicale o di talune costruzioni sintattiche), perché Panetta non è un “poeta dialettale”, ma un poeta: non scrive in italiano, ma in calabrese, cioè in una delle migliaia di lingue in cui è possibile scrivere in poesia. Se questa mia affermazione fosse falsa, vorrebbe dire che da questo libro sarebbe assente la forza espressiva (che è anche intellettuale ed etica) della poesia. Invece il lavoro sulla lingua, la tensione linguistica messa in atto, gli interventi sul ritmo del dire conferiscono valore a testi che, a livello concettuale, si misurano col dolore e con la perdita collettivi.

Ogni pilastro del ponte è collegato infatti alle storie dei singoli morti nel crollo, sono proprio le loro storie, i loro pensieri, i loro desideri, la loro vita interiore (e anche quelli del Ponte stesso e del Polcevera e di tutti gli altri morti nei disastri geologici d’Italia) a trovare voce attraverso la scrittura di Panetta, a dirsi o a essere detti con una concretezza di lessico e di concetti che elimina ogni rischio di patetismo e di sentimentalismo – è per questo che il libro “fa male” così come dovrebbe “far male” qualunque testo capace di guardare dritto negli occhi il male, l’ingiustizia, il negativo. Non si riesce a non essere coinvolti anche emotivamente leggendo le storie (mi si perdoni la scelta lessicale) più che raccontate cantate da Panetta, ma sgombero subito il campo da qualunque rischio di essere frainteso: il ritmo dei testi è ben altro rispetto al parlato o al prosastico, esso si addensa in unità ritmiche e di senso capaci di diventare davvero una cerimonia in memoria e soprattutto in onore di quei morti, la poesia è, qui, dolorante e doloroso incedere del dire, del ricordare e, anche (ed è questo il grande sottinteso del libro), dell’indignazione e della protesta. Se fare poesia è anche partecipare alla vita della polis, ebbene Ponti sdarrupatu è anche poesia politica perché mai, mai viene meno la tensione espressivo-intellettuale. Canto, dunque, nel senso di movimenti del dire e dello scrivere che restituiscono alla lingua quella forza e quell’incisività che spesso essa perde nell’uso quotidiano e che muovono e commuovono il sentire, che nettamente sono (e devono essere) altro rispetto a quello che sarebbe stata, in questo caso, una serie di articoli giornalistici o uno studio sociologico e via enumerando.

Penso che Panetta continui ad avere una profonda fiducia nella parola detta in poesia perché, forse anche proseguendo una tradizione popolare che fa (o purtroppo dovrei scrivere “faceva”) del canto funebre e del compianto sul morto un momento altissimo e determinante della vita della comunità, i suoi testi alternano le prospettive del dire (prima o terza persona e, come già accennato, anche esseri inanimati ricevono la parola) – attraverso la trenodia, ma anche la presenza degli astanti che vegliavano il defunto, se ne rievocava la vita, se ne raccontavano fatti e aneddoti, reazioni e sentimenti, passioni e idiosincrasie ed è seguendo quest’idea che ho letto il libro rintracciandovi la medesima commozione e partecipazione che univano la comunità (nel Salento ellenofono si chiama ancora oggi “ghetonìa”, letteralmente “il vicinato”) per cui non la sola famiglia del defunto, ma un’intera comunità di persone disposte a condividere il lutto ricorrevano alla parola, verbalizzavano il cordoglio, dicevano il dolore.

Soltanto da questa prospettiva credo davvero importante sottolineare che Alfredo Panetta scrive in calabrese (e non in italiano o in un’altra lingua nazionale), cioè il dialetto-lingua è sentito da lui come codice linguistico sorgivo, immediato, legato alla terra e alla comunità (e in tal senso faccio riferimento anche alle tesi di Giorgio Agamben circa il rapporto tra “dialetto” e “lingua nazionale” e relativamente al tema della conseguente diglossia).

Concludo riflettendo su quante derive avrebbe potuto subire un libro dedicato al crollo del Ponte Morandi e su come, ben al contrario, Ponti sdarrupatu sia quello che deve essere: ferita aperta nel corpo della poesia così come è ferita aperta nel corpo dell’Europa (e del mondo: più di una vittima, ci ricorda l’autore, veniva da Paesi extraeuropei) quel crollo, arco teso dalla prima pagina all’ultima di un discorso in versi che non è cronaca, che non è rievocazione, né malinconico rimuginare, ma pronuncia a voce alta e chiara (anche se non mancano le appropriate variazioni di tono, i passaggi lirici, quelli colmi di furore, quelli melancolici), restituzione alla poesia della sua capacità di dire il presente (il nostro presente) e di essere voce della comunità, coscienza desta del vivere comune.

 

AVVERTENZA: la scelta dei testi è stata davvero difficile e, temo, manchevole; mi permetto per questo di invitare i lettori a cercare e ad acquistare il lbro; qui di seguito ci sono soltanto schegge che comunque, m’illudo, contribuiscono a formarsi un’idea di quanto si potrebbe avere tra le mani, davanti agli occhi e nella mente che leggerà [A. D.]

 

GENOVA
Pilasthru n. 1

Eu criju nt’è palori
no comu focu sagru
ma comu chjianti anudeja
chi, mpercicati ê timpi
nta ju terrenu povaru
cavanu civu bonu.

Succedi a Ferragustu
a Genova nta ‘n lampu
ca u hjiatu cerca aiutu
a carni attizza u focu
u focu chjiama u temphu
chi com’un bucu nirgu
si nghjiutti carni e menti.

Jà gghjiusu
na scia d’azzurru spanza
u cielu, e sentu du scuru a zala
supaumana ‘i storri nichi
sonna ffucati ‘n volu
nto pontanu.

Ma a Boccadassi m’addunau
’i na chjiantina ‘i sparaciu
crisciuta sup’ò thruncu ‘i na parmara
e a hjiancu ‘n gerzuminu
accussì chjinu ‘i hjiarvu
chi sgravava acquazzina.

a Mirêu, thravagghjiava a Genuva, nta ll’Amiu

GENOVA
Pilastro n. 1

Credo nelle parole
non come fuoco sacro
ma come piante spoglie
che, inerpicate a rupi
da quel terreno povero
traggono nutrimento.

Accade a ferragosto
a Genova in un lampo
che il fiato cerchi aiuto
la carne attizzi il fuoco
il fuoco invochi il tempo
che come un buco nero
ingoia ossa e menti.

In fondo
una scia d’azzurro squarcia
il cielo, e sento dal buio l’urlo
sovrumano di storie minime
sogni strozzati in volo
nel pantano.

Ma a Boccadasse ho visto
la pianta d’un asparago
crescere sopra il tronco di una palma
e a fianco un gelsomino
così profumato che
partoriva rugiada.

a Mirêo, di Genova, operaio Amiu



HJIUMI I CITTÀ
Pilasthru n. 10

L’Ingegneri carculà nu tantu
‘i portata. Eranu i primi sputi
du seculu vintesimu. Ccà
nu ponti, jà na suprelevata
ad est ‘n quarteri ‘i cimenthu.

E l’acqua nt’o nthramenti
chi non esti ma’ a stessa
p’Eraclitu, disegnà a sthrata
nte coniculi mpernali
sutt’ò pisu d’i pilazzi.

Furu decini d’anni ‘i falacchi
grossi surici pathruni du trafficu
regnu ‘i scarrichi mpestati
a plastica ncignà u sò caminu
‘u cquisisci u mari.

L’alluvioni du ‘70, terribbuli
rigalà è falacchi morti a dudicini;
autrhi afanti ‘u civanu i sonna d’i fissa.

L’acqua scurri arranti
sutta a terra da città
a parti stimata, oji
si fici thri voti tantu.
U hjiumi faci ‘u nescinu
novi gralimi, lignami
pe cori mpurruti

Ma l’annu novu avi a portari
nu beju suli, dici u maghu
da televisioni, e ànnu a tornari
u jocanu i figghjioli
sup’è sthrata chjini urmi ‘i cruci.

o hjiumi Bisagnu, tterratu ammata vivu


FIUME DI CITTÀ
Pilastro n. 10

Il progettista calcolò un tot
di portata. Erano i primi sputi
del secolo ventesimo. Qui
un ponte, lì una sopraelevata
ad est un quartiere di calcestruzzo.

E l’acqua nel frattempo,
che non è mai la stessa
secondo Eraclito, disegnò
il suo percorso dentro
cunicoli infernali
sotto il peso dei palazzi.

Furono decenni di melma
grossi ratti padroni del traffico
regno di scarichi pestiferi
la plastica iniziò la sua marcia
alla conquista dei mari.

L’alluvione del ‘70, inesorabile
regalò al fango cadaveri
a dozzine; altri fantasmi
a nutrire i sogni dei fessi.

L’acqua scorre senza regole
nel sottosuolo della città
la quota limite, oggi
si è triplicata. Il fiume sgorgherà
altre lacrime, partorirà
legname per cuori marci.

Ma l’anno nuovo porterà
un bel sole, dice il guru del teleschermo
e torneranno a giocare i bambini
sulle strade cosparse di croci.

al fiume Bisagno, sepolto ancora vivo



U VENTHU SUP’A MARTI
Pilasthru n. 37

Sapissavu quant’è nuda
‘i ccà a vista, quantu dici
d’i sònnura a distanzia.

E ‘i sorpresi! U venthu
chi comu n’artigianu
aggiusta valli e munti.

Fudi l’acqua u primu verbu
po’ u virdi, nta milli
spumaturi, i sòna nt’è rocci
i primi abbrami, i jurti p’a tana.

Nci furu rispiri chi non dassaru
traccia. Sulu sensazioni
chi capisci ‘i nu senzu ‘i fagghjianza.

Chistu vitti i siri chi guardava
cu ll’amici u cielu
no’ i palori scuntati d’a scienza.

Int’a stu spazziu tundu
undi nenti s’arza
e mancu mpunda
si po’ vidiri quantu
l’amuri esti du ccittu
l’authra facci.

ad Alessandru, tenìa a passioni di l’asthronomia,
e a Giuvanna a cumpagna sò


IL VENTO SU MARTE
Pilastro n. 37

Sapeste quant’è nuda
da qui la vista, quanto rivela
dei sogni la distanza.

E le sorprese! È il vento
che come un artigiano
modella valli e canyon.

Fu l’acqua il primo verbo
poi il verde, in mille sfumature
i suoni tra le rocce, i primi
bramiti, le lotte per la tana.

Ci furono respiri di cui non resta
traccia. Solo sensazioni
percepibili da un senso di mancanza.

Questo ho veduto le sere
con gli amici osservando il cielo
non le parole trite della scienza.

In questo spazio tondo
in cui niente s’eleva
né sprofonda
si può notare quanto
l’amore sia l’altra
faccia del silenzio.

ad Alessandro, appassionato di astronomia,
e a Giovanna, la sua compagna

3 pensieri riguardo “La lingua in poesia, la comunità, la vista nuda – su “Ponti sdarrupatu” di Alfredo Panetta”

  1. Ciao
    molto piaciuta. Spesse volte da bambina passavo da quel ponte, via veloce, mi attendevano: i nonni, la spiaggia e il mare per non dimenticare cielo che aveva il potere di farmi sognare.
    Grazie!
    Chiara

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