Domenico Brancale, “Dovunque acqua sia voce” (Edizioni degli animali, 2022)

di Antonio Di Gennaro

In uno degli appunti tratti dai Cahiers del pensatore romeno Emil Cioran leggiamo: “Il pensiero spezzato, frammentario, ha tutta l’incongruenza della vita; mentre l’altro, quello coerente, rispetta soltanto le proprie leggi, non acconsentirebbe mai a riflettere la vita, e ancor meno a scendere a patti con lei”. E ancora, se ci riferiamo ad un altro autorevole autore del Novecento, l’egiziano Edmond Jabès, ne Le Parcours, ci imbattiamo in questa breve, ma significativa annotazione: “La vita è discordanza. Incompatibilità dell’istante con l’istante. E la scrittura, espressione dilaniata dell’irriducibile opposizione di limite a limite”. 

È evidente, lampante, lapalissiana, l’adesione convinta e incondizionata del poeta Domenico Brancale a questa concezione “finita” della scrittura, espressa tanto da Cioran, quanto da Jabès, se si presta attenzione al bel volume di aforismi Dovunque acqua sia voce, edito in Italia da Edizioni degli animali, con illustrazioni dell’artista spagnolo Miquel Barceló. Secondo lo scrittore italiano, infatti, così come riportato nella Nota dell’autore: “Questi testi sono scarti, schegge, frammenti, trucioli, segatura, polvere, tutto ciò che di solito viene raccolto e buttato via dall’artista dopo aver scolpito la sua opera”.

Da un lato c’è l’accadere insensato della vita, il divenire assurdo del reale, dall’altro c’è il tentativo della parola di dire l’indicibile, l’ineffabile. La parola manifesta consapevolmente tutta la propria finitezza e caducità rispetto ad una forza oltremodo potente e prepotente, come quella della vita (non teoricamente ipotizzata, ma soggettivamente patita). La parola, e dunque la scrittura, così come ogni forma d’arte, rappresenta solo un labile balbettio, per dire ciò che è in sé perturbante, sconcertante, destabilizzante. E, in tal senso, si avvicina al silenzio, al dire muto, alla voce strozzata, all’apparire delle lacrime: “Scrivere è lottare con l’indicibile. Quello che non sei rimane per ore dinanzi alla pagina vuota. Che fare? Prendere la decisione di lasciare perdere soltanto per vedersi al largo di ogni ragione o annegare in questa pozzanghera di luce”.

Domenico Brancale conosce bene l’incolmabile disparità, l’aporia, il dissidio esistente tra l’irrazionalità della vita e la razionalità del pensiero, tra l’inarrestabile scorrere del tempo (incomunicabile) e la parola che diviene scrittura (tentativo di comunicazione). “Acqua” è la cifra profonda, la “metafora viva” di una condizione ontologica ed esistenziale, caratterizzata non solo dal costante mutamento, privo di qualsiasi logica immanente, ma dalla tragicità e dalla drammaticità dell’essere al mondo. Gettato nel mondo senza averlo voluto, l’uomo sperimenta la morte in ogni singolo istante, nell’erosione, nello sradicamento del proprio essere e nell’esposizione al baratro del Nulla.

È questo il fondo senza fondo, il fondo abissale cui siamo chiamati, per una sorta di “miracolo” a l’envers: la solitudine, e la coscienza della propria solitudine. La vita si gioca su questo terreno sdrucciolevole, insidioso e paludoso della perenne incompiutezza della propria esistenza, dell’impossibilità di essere ciò che si desidera essere, avanzando a tentoni, confusi, smarriti, atterriti attraverso l’enigmatico labirinto del tempo (quello cronologico e quello interiore). È un gioco (la vita) non richiesto, ma mefistofelicamente imposto dalla sorte avversa. Un gioco di cui non comprendiamo la finalità né le regole, proprio perché inesistenti, ma di cui si conosce l’aberrante principio strutturale, il ganglio nevralgico sotteso: il dolore, la scissione, la separazione, l’abbandono, il lutto.

Il dolore spacca il tempo”, scrive laconicamente Domenico Brancale, in uno dei suoi concisi aforismi. Ma il tempo costituisce il sostrato dell’anima, la sostanza aleatoria di cui è costituito il nostro essere. Se è vero ciò, l’esistenza è allora soggetta alla lesione, alla lacerazione, allo squarcio, alla frantumazione, e l’identità è soltanto un’effimera “maschera” illusoria, dietro cui ci nascondiamo sul piano sociale, per preservarci e attutire il trauma del divenire. Reale, sul piano esistenziale, nella fatticità della condizione umana è la disidentità, la pluralità di io, o quello che lo psichiatria Ronald Laing definisce “io diviso”.

Come dire allora la ferita che viviamo? Come trasmutare il taglio sanguinante in senso? Come convertire in significato condiviso lo scacco, il naufragio, il crollo psichico? Come traghettare l’inesprimibilità del vissuto, verso una possibile, fantomatica comprensione (soggettiva e intersoggettiva)? Qui ci soccorre il dire poetico, che non è pensiero compiuto, definitivo, oggettivo, ma cenno, accenno, frammento appunto. Vi è una sorta di umiltà della parola, nell’aforisma, che è parola sommessa, debole, assolutamente priva di forza per resistere all’urto violento con la vita, ma conscia purtuttavia della propria intangibile dignità: “Perdere l’equilibrio. Vedere scomparire la terra sotto i piedi. Chiedere alle gambe di camminare sull’acqua. Credersi nessuno. Una persona che non ha nome”.

Ecco allora la finalità più alta della scrittura: il riconoscimento di come di una “persona che non ha nome”: lo sconosciuto, l’estraneo, lo straniero, l’impersonale “Egli”. Ben lo sapeva Maurice Blanchot, altro gigante del pensiero esistenziale contemporaneo: “Scrivere è l’interminabile, l’incessante. Si dice che lo scrittore rinunci a dire «io». Kafka nota con sorpresa, con piacere incantato, d’aver fatto il suo ingresso nella letteratura solo quando ha potuto sostituire l’«io» con l’«egli». È giusto, ma la trasformazione è ancor più profonda. Lo scrittore appartiene a un linguaggio che nessuno parla, che non si rivolge a nessuno, che non ha un centro, che non rivela nulla. Può credere di affermarsi in questo linguaggio, ma in realtà quel che egli afferma non ha nulla a che vedere con lui. Nella misura in cui rende giustizia a ciò che scrive, lo scrittore non potrà mai più esprimersi, né tantomeno rivolgersi a te o dare la parola ad altri. Ove egli si trova, solo l’essere parla – il che vuol dire che non parla neanche la parola, ma che essa è, cioè si consacra alla pura passività dell’essere” (Lo spazio letterario).

Attraverso la lettura dell’intenso ed originale excursus poetico compiuto da Domenico Brancale, nel volume Dovunque acqua sia voce, ci imbattiamo in maniera autentica nel dissolvimento dell’io, nella sparizione di qualsiasi pretesa di oggettivare l’inoggettivabile. L’io è solo il tramite inconscio tra la fonte che sgorga (dentro) e la parola che appare (fuori). Tutto resta celato, ri-velato. La rivelazione, la manifestazione del dire è soltanto umbratile ombra, traccia velata di qualcosa che evapora e che rinvia alla dimensione del sogno: “Non bastano due atomi d’idrogeno e uno di ossigeno per fare l’acqua. Occorre di più. Occorre dileguarsi, disperdersi, dissolversi, svanire, in una sola parola: evaporare”.

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