Pensare il percepire

Gabriele Gabbia dialoga con Nanni Cagnone

G.G. Caro Nanni, secondo i miei calcoli, sono circa dodici anni che ti tormento inviandoti email. Perciò credo sia opportuno lasciare una testimonianza della nostra ‘comunicazione’. Che ne dici?

N.C. Cosa vuoi che siano, dodici anni di tormenti? Io mi tormento, senz’aiuto alcuno, da almeno settant’anni. Tralasciando di scherzare, le corrispondenze cominciano in modo un po’ casuale, poi càpita d’affezionarsi, talora si fa amicizia. Mi sono affezionato a te perché, oltre ad esser uomo d’ingegno, disponi di fierezza, d’onestà, d’indipendenza di giudizio.

G.G. Penso che tu sia stato eccessivamente munifico nei miei confronti. In ogni caso, ti sono grato di quel che hai scritto.

A proposito di scrittura: quand’è che hai iniziato a ‘versificare’? Inoltre: rammenti precisamente l’età in cui hai avvertito per la prima volta che la poesia era per te una «perseguitante necessità»?

N.C. Versificare, è la parodìa della poesia. Cominciai a scriver assiduamente poesia intorno ai quattordici anni. Se avessi avuto maggior libertà, e successo con le ragazze, avrei fatto qualcos’altro. Ad Altare viveva Aldo Capasso, poeta veneziano assai noto negli anni Trenta, pubblicamente schernito e privatamente adulato da Montale, e comunque amico di Paul Valéry, Jean Grenier, Valery Larbaud, Ugo Betti, Vincenzo Cardarelli. Fu lui ad introdurre e pubblicare nel 1936 l’opera prima di Giorgio Caproni (Come un’allegoria). Nel 1954 andai a trovarlo, con le mie prime poesie. Lui lesse, poi disse “Lei diventerà un grande poeta”. Beh, grazie per il ‘lei’, ma un adolescente spera in qualcosa di meglio. Ad ogni modo, mi pubblicò poesie e testi di critica letteraria in Realismo Lirico, rivista da lui fondata all’inizio dei Cinquanta. In seguito, scrissi poesia in modo discontinuo e non pubblicai alcunché, se si eccettuano i pochissimi testi usciti qua e là negli anni Sessanta. Mi dedicavo invece al teatro. Allorché ero redattore (anche di Marcatré) e direttore di collana alla Lerici, avrei potuto pubblicare facilmente, ma quel che scrivevo non mi piaceva abbastanza, perciò il mio primo libro uscì in edizione bilingue a New York nel 1975. Avevo già trentasei anni. Tuttavia, in quel periodo non scrissi granché, preferendo viaggiare, ballare e frequentare ragazze di bell’aspetto. La poesia divenne un relativo assillo fra i quaranta e i cinquant’anni. Ormai sono vecchio, e in certo modo estraneo. Se negli ultimi vent’anni ho scritto molto, è anche perché la poesia è una delle poche cose che posso fare ancora.

G.G. Francamente, fatico a persuadermi del fatto che negli ultimi vent’anni tu abbia scritto molto “perché la poesia è una delle poche cose che posso fare ancora”. In altri e più chiari termini: ai miei occhi, chi legge le tue opere – sia in poesia sia in prosa, sia recenti sia remote –, viene colpito dall’originalità, dalla concettosità, dalla perentorietà, dalla maniacale precisione, nonché da una sorta di ‘necessità’ che sempre le intride. Insomma: da dove viene questo “assillo”? Te lo sei mai chiesto? O ti sei forse segretamente ‘limitato’ ad assecondarlo?

N.C. Ho esercitato non pochi mestieri, tra i quali: giornalista, editor, critico d’arte, traduttore, responsabile d’una rivista d’industrial designcopy chief e poi direttore creativo d’agenzie pubblicitarie, editore, docente d’estetica, consulente aziendale per la company image; e altri mestieri minori, desiderando essenzialmente sopravvivere. Ogni volta, mi sono condotto da perfezionista. Mi piace l’alto artigianato, mi piacciono le cose ben fatte, e non sempre riesco ad evitare di divenire un po’ ossessivo. D’altra parte, quest’epoca è caratterizzata da incuria, incompetenza, sciatterìa, qualità per me insopportabili, a cui – per quanto posso – devo oppormi. Non m’importa del motivo per cui ‘devo’ scrivere: c’è un’attitudine, c’è una tradizione personale, e – tutto sommato – credo d’esserne capace. Naturalmente, non sminuisco il piacere che traggo dal pensare-e-scrivere. Quanto alla necessità, non è d’ordine generale: è cosa intima alla scrittura, è una necessità interna. Giungere a parole necessarie, questo il vero assillo. Infine, non ho il minimo interesse per il modo in cui s’accolgono le mie opere; niente di peggio dell’esser congratulati da imbecilli. Unica mia preoccupazione, la qualità di quel che scrivo. Ovviamente, non posso esserne contento.

G.G. La schiettezza e definitività di queste tue ultime asserzioni meriterebbero forse di troncare subito quest’intervista… Tuttavia, ti chiedo: come hai fatto a coniugare le innumerevoli professioni che hai esercitato nel corso degli anni ‘per campare’ con l’elevata qualità e l’estrema prolificità che hai attestato per mezzo degli oltre quaranta volumi editi? È un numero sconcertante… Si direbbe che tu non abbia mai lavorato… O, meglio, che tu abbia lavorato solo ai tuoi libri…

N.C. Beh, mi feci furbo. Compresi che per lavorare poco dovevo diventar veloce: riuscivo a progettare una campagna pubblicitaria in un pomeriggio, mentre altri ci mettevano un mese. Andavo in agenzìa soltanto tre pomeriggi la settimana, accettando di governar poco i cosiddetti creativi, cosa d’altronde a me sgradita. Invece, quando nel 1986 fondai e diressi, una casa editrice (Coliseum), benché agissi ancora rapidamente, lavoravo almeno dieci ore al giorno. Quello è un lavoro che, se fai sul serio, non puoi affrettare; tra l’altro, dopo la revisione degli originali e delle traduzioni, fotocomposizione e fotolito, almeno tre giri di bozze e infine le pellicole, i controlli in tipografìa, per non parlare dell’acquisizione dei diritti e del logorante rapporto con editori stranieri, autori e traduttori, distribuzione e promozione. A quel tempo, non c’era la stampa digitale, i personal computers erano ancora rudimentali, e fotocomposizione, fotolito, offset costavano assai. Da parte mia, ho scritto molto di più da pseudopensionato. Dico ‘pseudo’ perché la mia pensione… lasciamo perdere.

G.G. No, approfondiamo. La tua pensione? 

E poi: perdona l’ottusità, ma io non riesco a capire come tu sia riuscito a conciliare la professione di pubblicitario – che hai a lungo esercitato, e che a mio avviso è quanto di più superficiale vi sia nella vita (in fondo si tratta d’irretire possibili acquirenti al fine di potenziare gli utili d’un’azienda) – con la prassi della poesia, che invece è a mio parere quanto di più profondo, meditato e antieconomico vi sia al mondo. Come hai fatto? Come hanno potuto coesistere ‘anime’ l’una dall’altra così antitetiche?

N.C. La faccenda dell’ingratitudine governativa per un libero professionista che ha pagato un’enormità di tasse, ma non i contributi, non m’interessa più. Ma questo non è il caso peggiore: se il Reddito di Cittadinanza, accordato anche a gente che non ha mai lavorato e spesso non ha voglia di farlo, è superiore alla pensione sociale assegnata a persone che hanno faticato per tutta la vita, questa sì ch’è cosa sconcia. Invece di condannare la pubblicità, occupiamoci dell’immoralità dello Stato. D’altronde, che senso ha distinguere tra cose serie e frivole? È bene che le menti monotone si dedichino a una cosa sola, ma le menti agili possono fare qualsiasi cosa. La pubblicità odierna fa schifo, proprio come l’editorìa, il mercato dell’arte e il giornalismo, ma spesso, negli anni Settanta-Ottanta, era tutt’altro che banale. Evitando idées reçues e moralismi, che differenza c’è tra un sofista ateniese del quarto secolo e un pubblicitario? Si tratta, in entrambi i casi, di far uso a scopo persuasivo dell’ars rhetorica. Se mai, il problema è che generalmente i pubblicitari sono incolti. Da parte mia, privilegiavo giocosità e ironìa. Valga come esempio la campagna (anni Ottanta) del Tuorlo Palucca: “Perché comprare un uovo intero quando si può comprare solo il tuorlo?”, “Tuorlo Palucca, il figlio dell’uovo”. Insomma, inventai un prodotto inesistente (il Cacao Meravigliao, per ammissione di Renzo Arbore, non fu che un’imitazione), e nei supermercati la gente si sentiva dire: ci dispiace, non è ancora arrivato. Ci vuole più ingegno per fare una cosa come questa di quanto ne serva per scrivere ed esporre in Facebook una porcheriola d’autore.

G.G. Bene: dunque, innata agilità della mente — connaturata poliedricità. Queste, tra le altre, le peculiarità dell’impresa della tua personalizzazione umana e poetica.

Ma torniamo più pertinentemente alla scrittura. Come scrivi? Intendo dire: scrivi quotidianamente? E dove? Immagino dapprima su carta e successivamente su personal computer… E infine: in qual modo hai contezza del fatto che ciò che vai scrivendo è un poema – ossia un organismo a sé stante (un unicum inscindibile) – o una silloge di poesie?

N.C. Non scrivo mai poesie sparse: nel caso mio, nessuna raccolta, nessuna silloge. Organismi, invece. I miei libri sono in verità un solo libro. Quando sento di poter scrivere, comincio un libro e lavoro assiduamente finché non è finito. L’ultimo, che uscirà in gennaio presso Giometti & Antonello, è stato scritto fra dicembre e aprile. Scrivo al computer, impaginando subito con Quark XPress, ch’è più sensibile d’InDesign. A cose fatte, lavoro minuziosamente al kerning, perché desidero favorire l’attività percettiva del lettore. Intuisco sempre, non so come, le dimensioni del libro che sto per scrivere. Tra i libri di poesia e i poemi, la differenza è essenzialmente quantitativa. I testi dei miei libri di poesia non superano quasi mai lo spazio d’una pagina, mentre i poemi sono d’oltre duemila-tremila versi. Naturalmente, questi ultimi sono maggiormente animati, hanno – anche tematicamente – un respiro più ampio, toni e registri molteplici, una variata andatura.

G.G. La chiarezza e saldezza con le quali espliciti il tuo modus operandi è impressionante. Si direbbe che tu non abbia – né abbia mai avuto – esitazioni o dubbî…

Veniamo ai romanzi. Ne hai scritti due — Comuni smarrimenti e Pacific Time, che in certo modo sono entrambi esistenzialmente ricapitolativi, nonché ai miei occhi bellissimi, con sequenze degne d’ammirazione. Dietro le maschere di Caspis e Onorio, l’intelligentissimo e assai lussurioso tuo autoritratto. Ti chiedo perciò: in futuro, dobbiamo aspettarci ulteriori ‘capitoli’, o credi che la tua vocazione al romanzo abbia già fatto ‘quel che doveva’?

N.C. Sono un ariete; perciò tanti errori, dovuti a impulsività, a impazienza, ma poche esitazioni. Quanto ai romanzi, ai quali si deve aggiungere un libro di racconti (Cammina mare), suppongo che non ne scriverò altri. La decisione di romanzare era dovuta al desiderio di soddisfare quei guizzi, umori e aspetti della mente che non potevano convivere con la relativa austerità della mia poesia. Ma la visione che governa Comuni smarrimenti è del tutto inadatta al tempo presente: richiede sensibilità, pazienza, attenzione, in contrasto con la mentalità ignara, ruffianamente pseudosociologica, involgarita e aneddotica della narrativa odierna (proprio quel che piace alla giuria del Nobelpriset). E Pacific Time è libro spudorato, ch’esige una totale assenza di pregiudizî da parte del lettore. Insomma, un doppio disastro. Tuttavia, per dispetto, credo che prima o poi vorrò ristamparli

G.G. Beh, dal momento che hai menzionato Cammina mare – ch’è appunto un libro di racconti e non un romanzo –, mi sento felicemente ‘coartato’ a citare anche Questo posto va bene per guardare il tramonto, ch’è invece un testo teatrale che scrivesti vent’anni fa, il cui protagonista – Ampère – è un altro tuo autoritratto. Insomma: a quanto pare, sei impossibilitato a ‘trascurarti’…

Ad ogni modo: più sopra ho evocato la lussuria — tanto presente con dovizia di particolari nei tuoi testi in prosa (soprattutto in Pacific Time). Ebbene: cos’è stata per te? Un’ossessione una patologia un vezzo una mera propensione?

Infine: dacché sono assai presenti nei tuoi libri, cos’hanno rappresentato le donne nella tua vita?

N.CLa commedia a cui fai cenno non mi piace: di per sé non è male, ma non la trovo interessante. Era un lavoro su commissione, caratterizzato da non pochi limiti: devo ammettere che – quando si tratta di letteratura – non so adattarmi. Erano più promettenti le pièces che scrissi prima dei trent’anni. Riguardo all’idea dell’autoritratto, non sono del tutto d’accordo; Runi è una città personale, tuttavia – come accade in sogno – l’autore è in certo modo tutti i personaggi. Se devo identificarmi: in modi diversi, Antìoco, Liborio, Celso e Defende mi somigliano più di Caspis. E donne come Fosca e Amelia non mi sono estranee. Già, le donne: la maggior passione. Più volte, i miei oltre quaranta traslochi hanno avuto a che fare con l’intento di seguirne qualcuna. Per almeno cinquant’anni, sono stato preso da assidui, intensi desideri. Vogliosamente ho frequentato (sia chiaro, lo dico senza vanto, poiché è certamente illusoria, la varietà) qualche centinaio di donne di quattro continenti (nessun favore dall’Oceania). Molte delle mie storie furono essenzialmente erotiche. Le mie propensioni al riguardo non sono quelle d’un cittadino europeo; piuttosto, istintivamente, un po’ hindu e un po’ nipponiche. Non moltissime le storie d’amore, e sempre infelici. Poi ho incontrato Sandra Holt: ho sposato senza merito una gran donna.

G.G. Infatti una buona parte delle tue opere è dedicata proprio a Sandra… A proposito: che donna è? Dove vi siete conosciuti? Come ha fatto a sopportarti? Non dev’esser stato facile starti vicino…

N.C. Conobbi Sandra nel 2001. Non ci si era mai visti. Venne a prendermi alla stazione Termini. Intendevo far visita a una comune amica, allora in ospedale. Andammo a casa di Sandra, in via degl’Ibernesi. Non appena dentro, le chiesi “Mi sposi?”, e lei disse di sì. Da ventun’anni, felicemente sempre insieme. E pensare che un tempo mi dicevo: “Quando l’erba è finita, prendo il mio cavalluccio e via. Non sono pronto per l’agricoltura”. Sandra è fiera, coraggiosa, ovviamente intelligente e generosissima. Raggiunge gentilmente gli altri e si prodiga per tutti. È facile convivere con lei: stessi atteggiamenti, stessa mentalità, rispetto e gentilezza. Certo, è anche assai paziente; dal 2005 in poi, ho avuto tanti guai somatici. E lei, premurosamente accanto.

G.G. In Dites-moi, Monsieur Bovary, hai scritto: «Il 6 settembre 2001, nell’inoltrato pomeriggio, giunse alla stazione Termini. Era stanco, e indossava scarpe insolite, di cui dubitava. Come avevano concordato, la sconosciuta lei era in attesa. Lo fece accomodare sullo scooter. Una volta a casa sua, in via degl’Ibernesi, the stray dog le chiese senz’altro di sposarlo. Lei – Sandra Holt – disse di sì. “Vieni scorrere accanto, | mia diletta, e non esser mai | de la stirpe dei ricordi.”» Ti confesso che allorché lessi la prima volta queste parole, fui incredulo. Anche per questo ho voluto chiederti di Sandra. Ora, sulla scorta di quel che m’hai detto, riconfermo la mia incredulità. Quello con lei, infatti, è stato, per te, un vero, fortunato incontro (una sorta di Tyche), poiché Sandra è forse riuscita a offrirti la possibilità di dare una ‘nuova forma’ alla tua vita, e in certo qual modo ad arrestare – o almeno a placare – la distruttività che a lungo ti ha animato…

N.C. Non so se nelle età precedenti sarei stato capace di questa relazione: troppo vagabondo, inquieto, autodistruttivo e perciò distruttivo. Ho raggiunto me stesso molto lentamente. Però penso con rispetto ad ogni mia momentanea e maldestra circostanza. Ho contentato ogni volta, come potevo, il mio carattere. Invecchiare, e non soffrir più delle emicranie che mi perseguitarono per quarantacinque anni, m’ha – devo dire ahimè? – addolcito.

G.G. Tra le molteplici caratteristiche che afferiscono alla tua vita, vi è poi la paternità. Benedicta Froelich – ch’è tra l’altro scrittrice – è infatti tua figlia. Quindi, ti chiedo: che padre credi d’esser stato? Che rapporto hai con lei?

N.C. Il rapporto tra padri e figli non può esser semplice. Nel nostro caso, c’è l’ostacolo della distanza: dalla Svizzera a Bomarzo, un lungo viaggio. Così, per lo più ci si vede – malamente riprodotti – in Skype. Tra l’altro, questi figli sono stati scaraventati in un mondo orrendo, desolante: nessuno spiraglio, nessuna speranza. Benedicta è più valorosa di me, ha qualità eccelse, ma – come tutti – non molte possibilità di metterle a frutto. Riassumendo, ho diritto ad esser orgoglioso di lei, e naturalmente l’adoro. Vorrei che gli dèi l’accarezzassero per sempre.

G.G. Prima d’esser padre, però, sei stato – inevitabilmente – figlio. Ebbene: che figlio sei stato? In che relazione sei stato con i tuoi genitori?

N.C. Figlio stravagante e ribelle, genitori persecutorî. Sopravvissuto affetto. Amen.

G.G. Infine, oltre che figlio, sei stato e sei (anche) fratello di Angelo – ch’è pittore –, Daniele e Gabriele. Quest’ultimo è purtroppo improvvisamente mancato a Montecarlo pochi mesi fa. Come lo rammenti? Che rapporto hai avuto con lui? Qual tipo di relazione hai con gli altri tuoi fratelli?

N.C. Con Angelo, ho condiviso per molti anni la passione per la pittura. Siamo cresciuti insieme. Poi, dato che ho vissuto un po’ ovunque, la solita, pratica distanza. Gli altri due fratelli erano più giovani, perciò – avendo lasciato presto la casa di famiglia – li frequentai poco. Gabriele, mal curato, è morto; aveva qualità insolite, come l’orecchio assoluto, il batter primati nelle sale giochi e il parlare rapidamente a rovescio, dall’ultima lettera dell’ultima parola alla prima. Ho un rapporto affettuoso con Daniele, architetto e designer.

G.G. Per quale ragione hai “vissuto un po’ ovunque”? In quali luoghi hai abitato? E cosa cercavi – o da cosa fuggivi… –, poi, mediante quei continui spostamenti?

N.C. Ho l’indole inquieta d’un nomade. Così, Altare, Carcare, Alassio, Savona, Vicenza, Bologna, più volte Roma e Milano, Caldana, Conturbia, Venezia, Pavia… e infine Bomarzo, in cui viviamo da diciannove anni. In verità, ho alternato città e campagna; le città, non le sopporto più: troppa gente, troppo rumore, traffico convulso, relazioni impedite da fretta e distanze, e deludente ormai l’offerta culturale.

G.G. Già, temo che purtroppo tu abbia ragione… Ma “Avere ragione è una condizione disperata… Noi esistiamo come disillusioni.”

In ogni caso: da svariati anni, è nota la tua giovanile esperienza in manicomio. Pertanto, ti chiedo: oggi, ripensando a quel tempo, come credi d’esser sopravvissuto a quell’atrocità?

N.C. Gli ospedali psichiatrici dei primi anni Sessanta erano in certo modo ottocenteschi. Facile immaginarne le porcherie. Quanto a me, sono sia ingenuo sia scaltro; grazie a quest’ultimo aggettivo, se non potei evitare gli psicofarmaci, mi salvai almeno dalle docce gelide, dalle percosse e dagli electroshocks.

G.G. Di recente, gravemente malato, ti sei approssimato alla morte. Come hai vissuto quest’‘avvicinamento’? Per te, la morte è ‘preludio d’altro’?

N.C. Sono ateo e anarchico, perciò – quando sembrava che stessi per morire – nessuna presunzione d’ulteriorità, nessun’attesa. Ricordo che mi sentivo in pace, e disposto alla naturalezza del morire. Quanto alle ultime parole famose prima del – per tutti probabile – couic, le mie furono, chissà perché, “Dolcetto o scherzetto?”.

G.G. Cos’è stata e cos’è, oggi, per te, la poesia?

N.C. In me, passato e presente s’eguagliano. Come scrissi molti anni fa, la poesia è la salvezza erotica delle cose: le conosce come non-finite e ne prosegue il desiderio. Non potrà mai sapere, il desiderio. La poesia è un’opera estranea, che distoglie da sé il velo del comprendere; chiede un affetto passivo, un pensiero ricettivo, e desideri imparati rispondendo. Si tratta, infine, di pensare il percepire. Ma la moralità della poesia vieta di farne uno scopo; sia invece una distratta conseguenza.

G.G. Per quel che ne so, non hai mai presentato un tuo volume in libreria. Inoltre, ti sei quasi sempre tenuto lontano dai premî letterarî. Infine, hai frequentato assai di rado – e ormai decenni addietro – il milieu poetico letterario italiano. Perché?

N.C. Sì, mai una presentazione – trovo penoso farsi autobiografici in quel modo –, e mai che abbia partecipato volontariamente a un premio, anche se talora, non per mia iniziativa, vi fui coinvolto. Sono contrario ad ogni interpretazione agonistica della letteratura. Quanto al milieu, gli autori che frequentai negli anni Settanta erano anzitutto persone scarse: noiosi, meschini, in certo modo ignoranti, troppo affaccendati e non talmente bravi. Nessuna grandezza d’animo. Inoltre, li infastidiva la mia indipendenza: ero esplicito, e non collaboravo ai loro piccoli traffici. Mi sentivo, ed ero, di passaggio. Lasciai perdere loro e i generalmente indigeribili accademici, a favore d’altri: Fredi Chiappelli, Luigi Pareyson, Emilio Villa, Enzo Melandri, Angus Fletcher, Luca Rastello, Germano Lombardi, Paolo Maltese, Peppo Pontiggia, Marzio Pieri, Rubina Giorgi, Enrico Cerasi, Amelia Rosselli, Samuel R. Levin, Marco Ercolani, Enrica Salvaneschi, Henri-Dominique Saffrey, Angelo Lumelli, Paul Vangelisti, Carlo Enzo, Rune Christiansen, Paul Wühr. Naturalmente, così facendo, uscii – come si dice – dal giro. Ed eccomi qui, fuori concorso.

G.G. «Mia morta amica dal dolcissimo viso, le unghie dei piedi così lunghe da farsi docili artigli, i capelli tradotti in un piccolo tappeto da preghiera, e tra cose impolverate i tuoi sorrisi. Poi altre vicissitudini, di quelle che rovinano, e un precipizio infine. Avrei voluto starti accanto come un riverbero, come oscilla una foglia. Non potevo.» Così hai scritto, in Dites-Moi, MonsieurBovary (Coup d’Idée, 2017), a proposito – credo – d’Amelia Rosselli. Che rapporto hai avuto con lei? Che donna era?

N.C. In verità, questo testo è riferito a Sandra von Glasersfeld, per un tratto intima amica. In Discorde, invece, si dice: “Se penso ad Amelia Rosselli, la rivedo in una casa quieta sulla Cassia, nel ’64, tradurre servendosi d’un registratore a pedale, farmi dono del Traité de musicologie comparée d’Alain Daniélou e dire d’un ometto sconosciuto, o dimenticato, che aveva osato ridestarsi-stiracchiarsi nel suo letto, e fu assai bruscamente congedato – fou rire”. Eravamo amici, ma quando – nel 1970 – lasciai Roma per Milano, ci perdemmo di vista. Da giovane, aveva estrose allegrìe, in seguito fu sopraffatta da malinconìa. L’incontrai a Milano, per l’ultima volta, negli anni Novanta, e semplicemente l’accompagnai in albergo. Dovevamo fare una serata insieme, ma all’ultimo momento m’imposero invece la gentile e insipida Jacqueline Risset. Ad ogni modo, per me Amelia è il miglior poeta del Novecento. In Ingenuitas, c’è una stanza dedicata a lei:

“Il letto era fatto. La povertà
annusava il suo dovere.”
Non servono altri versi
per saper Amelia al culmine,
sprofondati coloro che viva
la schernivano, ragazza
da principio malfatta,
che doveva ritrarsi
o ridere a squarciagola,
stremata iraconda fanciulla
straniera ad ogni sé stessa.
Non essendo al servizio
d’ingiustizia, molti anni
dopo, da qui verso di te –
ti chiamo.

G.G. Come già sapevo, sei inesauribile. Ignoravo, infatti, che fossi stato amico anche di Sandra von Glasersfeld — autrice de Gli effimeri (Lerici, 1964), nonché figlia del filosofo Ernst e madre di Sandra Ceccarelli, un’attrice italiana che ho avuto modo d’apprezzare soprattutto in un film trasognato e truce di Giuseppe Piccioni uscito ormai vent’anni fa: Luce dei miei occhi.

Comunque, tornando ad Amelia: credi davvero che lei sia in assoluto il miglior poeta del Novecento? E se lo credi, quali sono le ragioni di questa persuasione?

Infine: c’è un poeta contemporaneo (giovane o meno giovane, poco importa) che leggi con curiosità e piacere?

N.C. Ricordo Sandrina, per un po’ a casa mia, nei Settanta: era una delizia assoluta; e suo padre, Franco Ceccarelli (Equipe 84), un amico. Invece, non capisco perché dovrei render conto delle mie predilezioni, benché siano tutt’altro che infondate. Non sono uno storiografo. E sarebbe complicato riassumere i motivi della mia riluttanza a credere grandi i sedicenti grandi poeti del Novecento (ma Google Maps potrebbe orientare i curiosi verso Bovary e Discorde). Però si potrebbe fare un minimo esperimento: provare a tradurre Montale in altra lingua; una volta perduti i suoi mandolini, non ne resta più nulla. Se c’è una grave lacuna, nella poesia europea, dalla seconda metà del Novecento ad oggi, è la mancanza di pensiero. Non si pensa più in poesia; tutt’al più, si mette in versi un pensiero precedente. Sono abbastanza curioso da scandagliare Internet: in mezzo a tanta merda internazionale, c’è qualcuno decoroso, o addirittura bravo, ma non trovo mai nulla che contenti le mie esigenze. Probabilmente esagero, dato che credo sopravvalutati, ad esempio, Eliot, Yeats, Celan, Kavafis, Stevens. A me piacciono soltanto Lucrezio, Marino, Góngora, Donne, Hopkins, Hölderlin, Pound, Char, Chlebnikov, Mandel’štam, Campana, il primo Villa e Rosselli.

G.G. Da traduttore, ti sei infatti prodigato sino allo sfinimento a portar nella nostra lingua Hopkins, Eschilo e Parmenide. Qual ‘debito’ avevi con costoro? Quali sono i motivi che t’hanno esortato a tradurre codesti anziché altri?

N.C. Non posso dirmi vero traduttore, anche perché credo incompatibili le lingue. Ho tradotto Eschilo e Hopkins per gratitudine: durante l’adolescenza, m’avevano affascinato, e insegnato non poco. Invece, Parmenide è stato una sorpresa anche per me. Non pensavo quasi mai a lui, eppure in qualche modo oscuro mi si è imposto. D’altronde, le traduzioni disponibili dei classici sono infedeli, superficiali, stilisticamente penose (sintassi ottusa, ritmo inesistente) e dedite all’ingiuria assidua della parafrasi. Il difetto supremo di molte versioni è l’inadeguatezza della lingua d’arrivo. Da parte mia, non tradurrò più; sarebbe una gran fatica, alla mia età. Tradurre, richiede rispetto e gratitudine, una forma misteriosa d’empatìa, scrupolo filologico, competenza retorica, avventure linguistiche.

G.G. All’inizio del nostro dialogo hai menzionato Coliseum, la casa editrice che fondasti e dirigesti a partire dal 1986. Ebbene: cosa ti sollecitò a divenire editore? La gravità d’esser autore non t’era bastata?

N.C. La decadenza dell’editoria italiana m’indusse a prendere tale iniziativa. Naturalmente avevamo poche risorse, e si era – come tutti – ricattati dagli esattori della distribuzione in libreria. Tuttavia, Coliseum era una casa editrice con una visione originale e uno stile inconfondibile. Il suo decesso ebbe a che fare con Angelo Rizzoli, del quale persone come Grazia Cerchi mi dissero è una persona perbene, e appassionata. Giudizio del tutto sbagliato. Io ero stanco e lui sembrava deciso a investire, perciò gli cedetti gratuitamente la metà delle quote e – dato che voleva trasferire la casa editrice – cercai dei redattori a Roma. Dopo qualche mese, e dichiarazioni pubbliche altisonanti, cambiò idea, ma si tenne le quote e paralizzò la casa editrice. Mi càpita di pensare che si trattò di sabotaggio. Però, meglio così: lui non era né rispettoso né competente, l’avrebbe storpiata. Comunque, è stato faticosamente bello finché è durato.

G.G. È appena stato pubblicato da La Finestra Editrice il tuo volume Carmina — poemi 1979-2017. Di cosa si tratta? Inoltre: cos’hai trovato di diverso e pregevole in Marco Albertazzi – ch’è il fondatore, proprietario e direttore editoriale della suddetta casa editrice – rispetto agli altri innumerevoli direttori editoriali delle case editrici con le quali hai pubblicato le tue opere nel corso di più di cinquant’anni d’attività?

N.C. Sono i poemi scritti tra 1979 e il 2017, ormai quasi introvabili. Sai, quando s’invecchia, si tende a ricapitolare. Ho pensato che sottoporli a revisione e riunirli servisse ad esporre l’aspetto più arduo del mio lavoro. Marco Albertazzi, mio caro amico, è l’autore dell’ammirevole catalogo de La Finestra Editrice. Opera da venticinque anni, ed è persona indipendente, orgogliosa, appassionata. Dato che vende direttamente e via Internet, i suoi libri – libri di qualità, per veri-rari lettori – non sono molto visibili. Avendo voglia d’esser di nuovo in librerìa, ho pubblicato anche altrove. Per fortuna, di recente, due opere – Il naufragio del Deutschland e Parmenides Remastered – presso Giometti & Antonello. Gino Giometti è persona sensibile, competente ed estremamente civile. Dei direttori editoriali del passato, meglio non dire. Mi limito a rievocare il mio rissoso rapporto con l’indegno e sovrastimato Calasso. E non mi si dica che non si deve parlar male dei morti; in tal caso, mi guarderò dal denigrare Hitler e Stalin.

G.G. Perché un giudizio così arcigno su Calasso? Egli è pur sempre stato il coraggioso e raffinato editore di alcuni dei maggiori autori dell’Ottocento e del Novecento — per esempio Friedrich Nietzsche, Robert Walser, Thomas Bernhard ed Emanuele Severino…

N.C. Con me, si comportò in modo scorretto. Avevo con Adelphi un contratto per Hopkins, voluto da Luciano Foà, che Calasso – a quel punto, direttore editoriale – nel più volgare dei modi, e simulando amicizia, non rispettò. Era generalmente protervo e affetto da basso narcisismo. Dal punto di vista editoriale, era più bravo di lui Alfredo Cattabiani. Come autore, Calasso è stato sopravvalutato: se si eccettuano I quarantanove gradini, i suoi libri sono presuntuosi ma infine divulgativi, le fonti sono occultate e la scrittura non è granché (quando azzarda metafore, non ce la fa). Quanto al catalogo Adelphi, le opere di qualità erano dovute essenzialmente a Foà, Bazlen, Colli (come nel caso di Nietzsche, dei classici e di buona parte della Mitteleuropa) e al contributo di consulenti di valore, poi morti o invidiosamente allontanati da Calasso. Infatti, una volta esaurito il programma iniziale, vistosa decadenza; come si possono pubblicare, ad esempio, diciotto libri d’Alberto Arbasino, e sopra tutto undici libri dell’insignificante Pietro Citati?

G.G. Caro Nanni, siamo ai saluti. Da parte mia, semplicemente, gratitudine e affetto per questi dodici anni d’amicizia, e un augurio di cuore per tutto ciò che verrà.

N.C. Ringrazio la tua cortesìa. Cuídate mucho.

Gabriele Gabbia — Nanni Cagnone, Brescia — Bomarzo, settembre-ottobre 2022

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Gabriele Gabbia (Brescia, 1981) ha pubblicato due sillogi di liriche: La terra franata dei nomi nel 2011 e L’arresto nel 2020 — entrambe edite da L’arcolaio.

Nanni Cagnone:https://it.wikipedia.org/wiki/Nanni_Cagnone.

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2 pensieri riguardo “Pensare il percepire”

  1. Caro Marco,

    grazie a te dell’attenzione e del commento. E grazie, ovviamente, a Francesco, che ancóra una volta ha accolto la mia voce e soprattutto quella di Nanni — la quale è come sempre inconfondibilmente ‘discorde’.
    Un abbraccio a entrambi

    Gabriele

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