Chiara Catapano legge Perdite (Puntoacapo Editrice) di Bartolomeo Bellanova.
“Quale incendio indomabile si prepara nei fondali!” (Dispaccio da Vieste)
Ho voluto iniziare da questa profezia, quell’indomabile incendio che illumina e purifica, di cui Bellanova percepisce il propagarsi nei fondali: un incendio che si innesca dalle profondità oscure, da luoghi impensabili, per ossimoro. In fin dei conti, mi sono detta, questo è un libro di profezie che si stanno avverando mentre si scrivono. E’ come l’incontro tra due mari, tra due sostanze identiche ma provenienti da diversi luoghi; è il momento in cui il futuro annunciato e il passato veggente si salutano, generando immagini.
Così avvertiva Cristina Campo nei suoi Imperdonabili, a metà del breve secolo che si è riversato in questo, secolo di profezie rivelatesi atrocemente concrete:
“(…) il povero mondo biochimico di domani dove il pensiero, secondo ci viene annunciato con reverenza, non sarà più che un siero, la coscienza più che un tegumento, ma neppure siero e tegumento l’uomo potrà ricevere in retaggio alla sua nascita poiché è noto che un impulso elettronico potrà privarlo di entrambi a qualunque distanza, per opera di un qualunque sconosciuto.”
“Perdite” è costruito per ossimoro. E’ il constatare, con lucidi sensi, l’insistenza ottusa dell’uomo nel rinnegare la vita. Fonte di dolore non è la morte in sé, ma questa negazione, giunta a noi liofilizzata ormai in formule matematiche, in tavole periodiche, in scientifica schiacciante logica. Siamo al giro di boa, allo spogliamento, alla perdita di tutto ciò che ci ha mascherati alla realtà.
L'esercito dei viventi morti che questa mattina con orgogliosa sicurezza aveva disceso i marciapiedi che si tuffano sul lungomare e baldanzoso aveva colonizzato stuoie, lettini e sdraio, ora risale in disordine le passerelle di legno e timbra il bicchiere nelle officine balneari che producono percussioni e Aperol-Soda in un'interrotta catena di montaggio di significanti pensieri. Sullo spuntone abbrustolito del castello aragonese un gabbiano osserva irrelati passi camminare nella stessa casuale direzione, battaglioni di gomma e crema solare, all you can eat e acqua in bocca. Spicca il volo dal precipizio della falesia l'uccello sagace, drone della disperazione invischiato tra cielo e mare appiccicosi come zucchero filato tra le cosce. Quale incendio indomabile si prepara nei fondali! (Dispaccio da Vieste)
È la percezione dolorosa del linguaggio che s’apre sul mondo. Siamo sull’uscio, non diamo le spalle a niente: dietro di noi non c’è il passato, tutto si compie davanti ai nostri occhi. È dentro di noi e fuori, proiezione-deiezione, spremitura, sacrificio senza nulla di sacro da sacrificare. Per questo, nonostante ogni pagina pesi come una scure che s’abbatte sulla misura delle nostre vite, la lama è quella affilata della comprensione. Né fede né fiducia in possibilità vaghe o distorte visioni salvifiche; ma l’ascolto, l’osservazione, l’accarezzamento del mondo per riportarlo in vita (per riportarci in vita). È duro diamante la disciplina con cui il poeta allena le sue percezioni. Elimina con mani delicate le concrezioni, la decomposizione dei passaggi infiniti di distratti viandanti; estrae particelle d’universo dalle montagne di plastica galleggianti nei mari e nelle sinapsi dei nostri cervelli. Dunque “Perdite” è anche un tentativo di resurrezione.
Tra lo sciabordare delle auto sul letto di asfalto e lo sfrigolio dei motori in pausa al semaforo rosso c'è sempre una capocchia di silenzio dove tu, flebile cinguettio, ti infili senza conoscere il Vangelo, il Codice Civile, le corsie preferenziali e le ZTL. Davanti a te becco del mattino resto adorante come a Santo patrono. Lenisci degli occhi le frustate, lo schiamazzare della ciurma sul ponte del Titanic. (Salvaci) * Quando tra migliaia di anni silenziosi robot asessuati scaveranno sotto a decine di metri di fogliame e liquame, tra pezzi di viadotti o tralicci ci troveranno abbracciati, marmorizzati fossili a spirale, umane ammoniti da collezione e attribuiranno all'eccesso d'amore la causa della nostra estinzione. (Falso indizio) * Il buio è luce di altro colore la morte è vita di altro spessore. Cambia la grammatura della carta si assottiglia, assume le forme del vento la nostra storia scritta con l'inchiostro simpatico della luce. (La risma) * L'ombelico del silenzio sgocciola Dio; è dolce berne e poi urinare fuori tutti i pensieri. È osceno ogni strato di rumore spalmato sulla pelle, è un tabarro di flanella bagnato, un gibbone sulle spalle ricurve un gibbone soffocante. Nel silenzio siamo matite appuntite, coi corpi in punta di piedi scriviamo vocabolari di parole inconcepite. (Silenzi)
Cosa può fare il poeta, nella stanza incommensurabile della poesia, se non estrarre dalla materia grezza del mondo materia sottile, farla brillare come un plancton millenario sospeso tra miliardi di voci? Silenziare i neon, gli apostrofi cangianti dei semafori; sprofondare nel buio un’intera civiltà. Per poi pazientemente, devotamente ascoltarlo, quel buio; accenderlo con il tocco di uno sguardo scoccato con precisione. Il poeta uccide la distrazione sfrontata delle mandrie umane, e lo fa con un unico gesto puro. Così ci avverte dell’irreparabile, di un incendio indomabile capace di attraversare gli opposti; ci avverte, mentre lo innesca con quell’unico, puro e preciso atto d’amore per la vita.
(…) Le foglie morte mi blandiscono dolcemente: la terra consola, la terra accoglie l'inconsistenza del frantumarsi. (Il dubbio)
Complimenti, davvero intense le belle poesie e così piene di inaspettate immagini e/o metafore. Si respira leggendole ..pur nell’impossibilità della parola. Grazie.
Grazie di cuore!