Marco Ercolani
E allora iniziamo
Quattro prose
Discorde
«Dover scegliere equivale a perdere le illusioni infantili. Si deve preferire, si deve rinunciare. Rassegnazione inevitabile, ma difficile da esercitare per chi, in poesia, ricerchi il compossibile». Nel suo libro di prose critiche, Discorde, l’idea di Nanni Cagnone è l’idea, inconciliata, di una poesia che “ricerchi il compossibile”, di una poesia che non deve perdere “la fortuna dell’insonnia”. Qui sta il suo senso di scrittura scavata all’interno della tradizione poetica contemporanea come un abisso di libertà e, come ogni libertà, irriducibile evento senza eredi. «La più profonda esperienza della poesia è quella di una lontananza costitutiva». Dentro questa lontananza esiste un libro discorde a qualsiasi tempo e che, pur essendo stato scritto nel corso degli anni, si scrive proprio “adesso”, mentre i suoi frammenti si assemblano nell’unicum che conferma l’inflessibile fermezza di un pensiero eretico, non disponibile alla semplificazione.
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Rimbaud
«Di fronte a molti uomini parlai ad alta voce con un istante di una delle loro altre vite»: questa frase di Une saison en enfer mi trafigge da sempre. Rimbaud gioca con la necessità di essere le proprie vertigini, con il pericolo di viversi oltre lo spazio e il pensiero. I calessi, i mostri, i misteri, le moschee, le officine, le pitture idiote, i titoli da vaudeville, sono “la patria d’ombra e di gorghi” che il poeta raggiunge, e da cui non si allontana. Con Une saison en enfer la lingua poetica è eternità che si ritrova, mare evaporato nel sole. Rimbaud sposta le frontiere del noto verso ciò che, inaccessibile e sovversivo, l’ignoto predispone per noi. Prepara scritture future, che prima di lui erano impensabili: le rende possibili. L’uomo che scrive “credevo a tutti gli incantamenti” è lo stesso che scrive “Adesso posso dire che l’arte è una sciocchezza”. Come pochi altri classici della poesia, Rimbaud non è leggibile in modo conclusivo. La sua incursione nel mondo della letteratura è una meteora disgregante, un’intrusione che attira tutte le domande e tutte le risposte, un enigma che ha scordato il suo senso, un furore freddo e grottesco che trascina via dalla stessa magia della scrittura e ci fa dire: «E e se tutto fosse sempre e soltanto segreto?».
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Traditore
Di quanto siamo lontani dalla meta? Parlami, non sei tu che mi trascini quaggiù? Eppure sai che non sono io l’uomo che cerchi. Ma serve dirlo? A te basta portare laggiù un uomo, legato, imbavagliato, accusato di tradimento. Dire che è lui il colpevole, poi te ne laverai le mani e tornerai indietro. Cosa posso fare per dissuaderti? Parlarti della vita che ho vissuto prima di incontrarti? Di ciò che non potrò più essere perché mi hai arrestato? Là dove mi porterai, mi giudicheranno e puniranno per qualcosa che non ho commesso. Qualcuno deve pagare in modo esemplare. Quel qualcuno sarò io. Ho la stessa età, la stessa statura del traditore. E allora andiamo, come vuoi tu. Su e giù per queste rocce, mattino e sera, pomeriggio e notte. Andiamo pure. Ma stai attento. Anche se queste parole non puoi sentirle, perché il bavaglio mi serra i denti, anche se queste parole non potrai leggerle, perché io non posso scrivere con le mani legate, stai attento. Distràiti un solo secondo e sarò io a trascinare il tuo corpo da loro. Non ci conoscono laggiù. Non sanno come siamo fatti. Cosa potrai dire per difenderti? Saprò essere convincente nello smascherare il vero colpevole – tu. Non addormentarti o ti sveglierai con addosso i miei abiti, il bavaglio stretto alla bocca, i polsi legati dai lacci, proprio come me ora. Stai attento che io non parli con le guide e che loro non ti tradiscano, come hanno fatto in passato con uomini più importanti di te: qualcuno di loro osserva che la carne umana è più morbida di quella degli orsi. Le foreste sono insidiose: tu devi proteggermi, sono il tuo prigioniero. Ma non dimenticarlo: hai la mia stessa età, la stessa statura. Ci sarà almeno un attimo in cui mi sarai vicino, ma così vicino, che potrò rischiare il tutto per tutto e cambiare il mio destino sostituendoti a me. Tanto, non ho nulla da perdere. Fai attenzione. Non senti, proprio adesso, i miei occhi che scivolano sulla tua schiena con impercettibile precisione, pregustando la libertà?
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La prima lezione
Non so bene perché sia capitato qui. Non chiedetemi come mi chiamo. Non so che ruolo mi sia stato affidato. Non so cosa debba insegnarvi. Ho qui degli appunti per un ciclo di lezioni sull’equilibrio della mente. Vedo dei titoli da scegliere: Cattedrale sommersa, Arcipelago di voci. Forse sceglierò il primo. Non ricordo neppure quando ho iniziato a scrivere e a pensare, per voi, per queste mie lezioni. Ma ora sono qui, con tutti gli appunti, scritti e da scrivere, e allora iniziamo. Ma non dall’inizio. In tutte le lezioni non ho mai cominciato dall’inizio: finiva che c’era uno schema, un progetto, una conclusione, e ci si annoiava. Io vorrei che non ci annoiassimo. Staremo insieme per un certo numero di ore e vorrei che ci divertissimo, che imparassimo senza imparare, dimenticando. Se i temi sono quelli che riguardano le mancanze della mente, io posso dirvi, da psichiatra e scrittore, che sono testimone di queste mancanze ma per nessuna di esse ho un ordine esatto, una misura, una diagnosi. Perché un ordine esatto non può esistere. Che ne dite? Partiamo da questo? Se leggessimo Melville, oggi, capiremmo che si tratta di viaggiare verso l’orizzonte impossibile tracciato dalla Balena bianca. Meglio essere un pazzo libero che un savio docile alla volontà altrui.
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Nottario
La mia opera segreta, un interminabile taccuino che avvicina le regioni della notte e del sogno e che, in contrapposizione a Diario chiamo Nottario. non è dissimile dal Palais Ideal del postino Ferdinand Cheval, assemblato dal suo costruttore pietra dopo pietra, notte dopo notte, in decenni di semifolle lucidità: è questo il mandato a cui devo obbedire. E, se accadrà che ci incontreremo, tu lasciami dormire. La sola esperienza di soglia che ci è rimasta – quell’invincibile rifiuto del corpo a compiere gli atti più semplici, quel desiderio assoluto di essere fuori di sé, dentro un’esperienza indicibile, di cui si potrà parlare ma solo per frammenti di sogno, senza sapere se corrisponderanno a qualche verità – è proprio dormire. E, questo è il mandato: scrivere. Preparare il viaggio verso l’isola emersa che non esiste ancora e che le nostre parole faticosamente edificano sull’acqua. Quindi, un sogno. Quindi, ancora, dormire.
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Le brevi prose di Ercolani svelano complesse sovrapposizioni, che conducono nei tanti non luoghi inesplorati, o, là, dove lo scarto crea dissonanze. Il linguaggio asciutto sembra contenere sulla pagina i dettagli
della parola implosa.
Ai margini “la balena bianca”, centralità della infinitezza.
Esatti, Angela, Grazie. Uso una prosa asciutta per contenere /descrivere l’implosione