Poesia come trasgressione

Pietro Civitareale

     Diciamo subito che la ricerca poetica di Giannino di Lieto (da Poesie, 1969, a Indecifrabile perché, 1970; da Punto di inquieto arancione, 1972, a Nascita della serra, 1975; da Racconto delle figurine & Croce di Cambio, 1980, a L’abbonato impassibile / Racconto della Costa di Amalfi, 1983, fino a Le cose che sono, 2000) si è sviluppata in una direzione eccentrica rispetto alle linee del Novecentismo italiano. Convinto che il tratto distintivo di un popolo sia la lingua, Giannino di Lieto (1930-2006) ha operato proprio su di essa, conferendole un’impronta personalissima che non possiede né paternità né paternalismi, ma nasce e matura in se stessa; e lo fa in senso antagonistico nei confronti di ogni potere in grado di fagocitarla e ridurla all’impotenza. La sua poesia perciò si offre come una implicita forma di trasgressione, ma anche come un atto di resistenza e al limite di rivolta, nel senso che tende a opporsi, più o meno consapevolmente, alle ragioni della forza o all’usura dei suoi strumenti linguistici ed espressivi attraverso un ribaltamento dei significati usuali delle parole.

     Con ciò non vogliamo dire che nella sua esperienza poetica non vi siano richiami ai maestri del Novecento (a Montale, a Luzi, a Quasimodo, a Gatto, a Penna, a Cacciatore ecc.), che la sua scrittura sia completamente avulsa da ogni realtà materiale o sentimentale, ma semplicemente che tali richiami risultano congelati in una scrittura chiusa nella sua fisicità, nella sua compattezza morfematica, oltre ogni possibile giudizio razionale. Da qui un’astrale purezza eloquiale che si sottrae a ogni riferimento ideologico, a ogni rimando all’esterno, nei termini di una semanticità sospesa in un suo lunare candore, in una sua enigmatica astrattezza: “Incrostate interpretazioni in un armadio di mineralogia / a raffigurare sogni per un’alba di sentinelle / affiancati dai turni rami di sangue a guisa di remi / un’infinità di voci emerse saldamente bianche / per incredibili rive inclinazione d’isole / vulcaniche scintille fioriscono l’identico colore… ” (da Punto di inquieto arancione, pag. 27).

     Sotto questo aspetto, la sua potrebbe essere definita una poesia-spartito, in cui ciò che conta è la puntualità dei collegamenti tra un richiamo e l’altro, secondo linee di forza di natura puramente linguistica, senza possibilità di ricadute mimetiche o tematiche concretamente riassumibili e senza rispetto per le unità sintagmatiche precostituite. In tal modo il testo poetico acquista una sua indiscutibile bellezza e compostezza grafica, persino una sua sensualità e lussuosità lessematica, anche se da questo ammirevole manierismo affiora talvolta la “fatica” dello sforzo, si evidenzia il gusto di una ridondanza dialettica, nella quale è leggibile una presa di distanza dagli orrori dei linguaggi tecnologici e dalla degradazione culturale della civiltà dei consumi, se è vero, come è vero, che nel nostro tempo sempre più la creazione letteraria tende a omologarsi con la temperie che viviamo, a lasciarsi sedurre o catturare da una conformità etica e strumentale con la sua condizione entropica.

     Si leggano, ad esempio, alcuni testi di Nascita della serra (uno dei suoi lavori più riusciti) e ci si accorgerà che il luogo privilegiato dell’attenzione di Giannino di Lieto risiede nella ricerca formale e strutturale, con nello sfondo la pletora dei significati contingenti o crepuscolari, in un alternarsi di pieni e di vuoti che si condizionano a vicenda nel reticolo di una sintassi decomposta, ellittica, nominalistica, paratattica, dove predominano l’enumerazione, la frantumazione monadica, le possibilità combinatorie dei segni, l’infinito semantico della metonimia e della iterazione. In tal senso, la sua si offre come una operazione scrittoria intuitiva, ma senza sbavature o vuote frammentazioni sillabiche, che coniuga l’esteriorità sperimentale, volta alla ricerca della forma poetica, con l’interiorità dell’autore, nei termini di uno stravolgimento della funzione referenziale, che stimola feconde riflessioni sulla neutralità e l’asemanticità della forma poetica: “tavole del centro non stile non gesto una conchiglia di cintura / chiuso l’apparenza perlustrare un insetto ogni ticchettio ogni passo” (pag. 19) oppure “pianeta luce invaso da palafitte ombrelli di aristocrazie accompagnate / da grandi remi si dividono la favola fioritura dopo la denominazione al sud / cortei di manichini perché crollo fruscii di un passo confrontato sul respiro” (pag. 11).

     I suoi testi pertanto si presentano come degli agglomerati verbali che crescono su se medesimi con lo scopo di spezzare il linguaggio della comunicazione usuale e inventare una nuova possibilità comunicativa che sia la somma di stretti collegamenti associativi. Pescando nel teatro, nella storia, nella cronaca, nella quotidianità, nell’arte figurativa, nella cultura popolare, ne enfatizza i codici linguistici, elevandoli a una universalità poetica senza più mediazioni logiche, sul filo di accostamenti verbali inattesi, di attentati continui ai significati convenzionali delle parole. Tuttavia il suo non è un gioco di permutazioni e formazioni neoplastiche: i vari spezzoni semantici sono chiamati a una forte aggregazione da una vocazione associativa che preesiste alla elaborazione del testo, in quanto corrispondente a una disponibilità interna volta a valorizzarne non le singole componenti ma la struttura complessiva. Anche l’ambiguità, che necessariamente ne deriva, si risolve interamente a favore di questa soluzione, quasi con l’intento di espellere da sé, per intima urgenza espressiva, tutto l’enorme potenziale che ogni parola contiene, fino a spingere l’operazione molto più a fondo, a livello fonematico e letterale, e ricorrendo all’azzeramento dei segni di interpunzione.

     Poesia dunque come “accrescimento vitale” – per usare un’espressione di Gaetano Salveti con il quale di Lieto condivise il suo impegno operativo attorno alla rivista “Crisi e Letteratura” – e prassi intersoggettiva opposta a quella ormai esaurita dell’io narcisistico e anacoretico e poesia, nello stesso tempo, come travaglio morale, diretto ad affermare una condizione di reazione ideologica a struttura piena, come impegno rivolto ad adeguare gli strumenti della poesia alla labilità e al dinamismo della realtà delle cose. Da qui l’estrema mobilità della sua versificazione che procede per illuminazioni, scarti, accumulazioni di senso, caricando parole e immagini di una violenza espressiva che colloca la sua poesia nella migliore esperienza espressionistica.

     Nondimeno l’oltranza metalinguistica, il febbrile e raffinatissimo lavoro di scomposizione degli schemi sintattico-comunicativi operato, non si esaurisce in se stesso, ma lascia ogni tanto vedere certi abbaglianti reperti, i quali riconducono il discorso sul terreno della realtà e della razionalità. Ed è qui che forma e contenuto, simbolo e ideologia, in un armonico connubio tra varie zone operative (che chiamano in causa letterarietà, grafia, sonorità, visività e, al limite, spettacolo), si incontrano in una testimonianza di vita, in una epifania del visibile e dell’invisibile.

Il saggio di Pietro Civitareale è pubblicato in
Giannino di Lieto – Atti del Convegno
Verona, Anterem Edizioni, 2008.

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