
E ora se tu avessi il potere di dire l’erba aromatica del tuo mondo profondo, ricorderesti l’artemisia. L’appello al segno vale la sfida. Ti distenderesti sulla tua pagina, ai bordi di un ruscello, come l’ambra grigia sulle alghe arenate; poi, a notte alta, ti allontaneresti dagli abitanti insoddisfatti, per un oblio che serve da stella. Non sentiresti più gemere le tue scarpe sfondate.
Danièle Leclair
L’ITINERARIO DI ORIONE IN
‘ERBE AROMATICHE CACCIATRICI’
Tratto da:
Danièle Leclair, Lecture de René Char.
Aromates chasseurs et Chants de la Balandrane,
Paris, Lettres Modernes, 1988.
(pp. 39-45)
*
l’incontro di Orione e del poeta
In tutta la raccolta, il parallelismo tra Orione e il poeta non cessa di affiorare. Si è parlato della marcia di Orione, grazie alla quale Orione ci appare e che rappresenta una delle sue funzioni essenziali. Anche Char, il poeta, è un camminatore. Una delle modalità privilegiate di apparizione del poeta nella sua opera è la figura del passante, «passante profondo – camminatore incurvato – passante intento a passare – camminatore preceduto dal suo cane – passante di ventura», figura che attraversa tutta l’opera: «Noi precediamo, buona polvere / Con un piede nuovo o un passo triste» (NP, 63); «Siamo dei credenti / Per sentieri mulattiere.» (CB, 72). Ora, questo camminatore è anche – come Orione – un gigante; in tutta l’opera di Char, infatti, la marcia è associata all’alta statura; il passo, funzione principale in questo poema dell’apertura, è sempre potente: «Siamo i piedi di una grandezza senza pari» (MM, 85); «Avevamo allungato potentemente la strada.» (NP, 97); «Uomini di confine […] i vostri passi crescono a fiocchi sparsi.» (CB, 18).
Marciatore terrestre, il poeta è inoltre un abitante del cielo; la sua funzione di poeta gli conferisce ben presto un posto ai margini del mondo degli altri uomini, una grandezza eroica. Un’immagine anteriore a Erbe aromatiche lo paragona alla meteora: «Sulla soglia della pesantezza, il poeta come il ragno costruisce la sua strada nel cielo.» (FM, 76) e più tardi: «Noi siamo delle meteore con gola di pianeta. Il nostro cielo è una veglia, la nostra corsa una caccia, e il nostro carniere è una goccia di chiarità.» (RBS, 173).
Per la loro statura, il mondo dove si muovono, Orione e il poeta sono vicini l’uno all’altro. Anche il loro desiderio è unico: «[…] ampliare lo spazio degli slanci, la terra del rispetto, il mormorio dei sì, da mezzogiorno a mezzanotte.» (AC, 40). Questi due giganti hanno la stessa funzione regale. Di fronte al mondo ostile o distrutto, il poeta «si organizza, abbatte il suo vigore, frantuma il termine, graffetta le punte delle ali». Da «Evaso dall’arcipelago» a «Eloquenza di Orione», primo e ultimo poema di Erbe aromatiche, una parola permane (appuntendo / punta) che ancora lega l’antica funzione di Orione (che appuntisce la sua freccia) e quella, immutabile, del poeta che «si aguzza nella premonizione» (FM, 19) e il cui mestiere è «un mestiere di punta»1. Perché il poema è «l’unica ascesa degli uomini»2.
Se il poeta è davvero uno scopritore, il suo cammino non sarà solo un passo in avanti, ma costantemente un’andata e un ritorno, perché gli importa tornare indietro a riferire la verità scoperta. Anche tra la cosa scoperta e il mondo, il poeta svolge un ruolo di mediatore. Come Orione diventato costruttore di ponti, il poeta è traghettatore tra queste due rive: «Due rive occorrono alla verità: una per la tua andata, l’altra per il suo ritorno. Strade […]. Che, interrotte, siano ancora salvezza per i nostri giovani che nuotano in acque gelide.» (AC, 32). Il poema ha dunque funzione di collegamento, di ponte tra gli uomini e la loro stessa verità. Grazie ad esso, la terra cessa di morire perché il poeta è «il conservatore degli infiniti volti di ciò che vive»3.
I cammini paralleli seguiti da Orione e Char, il poeta, trovano il loro punto d’incontro alla fine della raccolta, nel primo poema della terza parte, «Verde su nero»: «Un passante mitico, di queste parti, ci venne incontro». Il chiasmo è qui dispiegamento (2) e contrazione (1); l’apposizione mostra chiaramente sia una duplicazione del passante in due persone («mitico» rinvia a Orione e «di queste parti» al poeta), sia una doppia qualifica attribuita a Orione («mitico» E «di queste parti») ma forse anche al poeta. L’incontro è qui prossimo a una fusione; esso mischia strettamente non solo le due facce di Orione ma anche Orione e il poeta; un passante doppio (Orione), immagine di un altro passante doppio (il poeta) o l’incontro di due passanti. Tutto il poema riposa sull’ambiguità del plurale.
Fin dall’inizio, l’epigrafe *«Noi» testimonia questa ambiguità; infatti, noi può essere sia un io «dilatato», sia una «congiunzione tra io e il non-io»4; questo non-io in «Verde su nero», è una terza persona di forma lui (noi = io + lui, il poeta – Orione); in quest’ultimo caso, c’è una associazione, una riunione tra due persone differenti, con me/io che resta la persona più fortemente marcata. Ora, che l’epigrafe «Noi» sia interpretata come uno (io) o due (io + Orione), non conduce a un risultato veramente differente poiché l’uno è l’altro, come è confermato un po’ più avanti nel poema dall’espressione «Due contadini ciechi» (AC, 40), dove Orione e il poeta sono nominati come esattamente sovrapponibili; se la cifra due permane, non siamo comunque lontani dall’identificazione perché la differenza tra le due persone non esiste più. In questo senso, l’epigrafe anticipa il momento stesso dell’incontro e si presenta già come una conclusione, poiché o fonde completamente il poeta e Orione fino a mantenere solo una persona amplificata, oppure lega i due così strettamente in un unico pronome che non è più possibile distinguerli: Orione = il poeta e viceversa.
Questo incontro profondo è il completamento di un accordo ininterrotto tra Orione e il poeta; un dialogo tra l’uno e l’altro: i tuoi canti «mi giungevano bagnati d’inclemenza e d’amore (AC, 42), dice Orione rivolgendosi a Char; un dialogo che cessa solo con la scomparsa del poeta. Poema a una voce, «Eloquenza di Orione annuncia questo silenzio del poeta. Orione si fa suo portavoce, esplicita la sua sofferenza di fronte al mondo: «Se tu avessi potere […] ti allontaneresti dagli abitanti insoddisfatti, per un oblio che serve da stella.» (42), fa il bilancio di una vita; riprende l’opposizione caratteristica delle ultime raccolte di Char (da Erbe aromatiche in poi), tra un passato, un tempo in cui la poesia aveva potere sul mondo, e il presente, un tempo di silenzio e di ritiro dal mondo. In questo poema, il tempo passato, quando la parola era possibile, contrasta nettamente – attraverso la ripetizione dello stesso verbo dire – con il tempo presente, dove la parola esiste solo allo stato di desiderio, in un sistema irreale. La parola proferita qui da Orione è da rapportare a quelle dette in precedenza nella raccolta, ad esempio in «La frontiera tratteggiata»: «Mani un tempo sublimi. Completamente ignorate oggi. Un vivere evasivo, una lunga percorrenza impedita fino all’inutile servizio di prova.» (17).
La grandezza di Orione, il suo potere e quello del poeta sono collegati. La loro comune cecità – «Due contadini ciechi» – non è sinonimo di cecità ma, al contrario, di lucidità: «Alta è la sua notte» (AC, 271), dice Char parlando di Orione. Simile al rabdomante dell’antica Grecia che conosce «ciò che è stato, ciò che è, ciò che sarà», il poeta è colui che comprende i segni (del futuro, «i presagi», e del passato, «le tracce»), ed è proprio perché è cieco che è chiaroveggente. Come Calcante nell’Iliade o Tiresia nell’Edipo Re, la sua debolezza fisica, la sua vecchiaia (si veda «Verde su nero») testimoniano che il suo potere è altro: solitario tra gli uomini, rifiutato da coloro che detengono il potere politico (Calcante da Agamennone, Tiresia da Edipo), egli è colui che sa, colui la cui parola profetica è sovrana. È questo potere della parola poetica che in Erbe aromatiche viene messo in discussione.
E infatti, in tutta la raccolta, Char contrappone il suo passato (parallelo e, come abbiamo visto, sovrapponibile al passato mitico di Orione) al suo presente (parallelo e sovrapponibile alla marcia dolorosa di Orione sulla terra), un momento molto cupo in cui scrive che la sua lucidità non ha più un ruolo da svolgere. Come Orione, tornato sulla terra dove esercita la sua funzione di traghettatore, vi rimane un estraneo (un Irochese, cioè dotato di un potere proprio, costruire ponti giganteschi, ed escluso dal mondo in cui vive), così Char, come nota Orione in «Eloquenza», si tiene lontano dalla folla degli «abitanti insoddisfatti». Erbe aromatiche si chiude con una doppia scomparsa: quella di Orione, rimandato in cielo, e quella del poeta che, nel momento in cui scrive, vede questa come la sua ultima raccolta. Il poeta e Orione sono diventati intercambiabili in un momento di essenziale disperazione, traccia di un lungo accordo: «Tutta la virtù del cielo d’agosto, della nostra angoscia confidente, nella voce d’oro di una meteora » (FM, 148).
Orione «fuoriuscito dal suo spazio»5, recuperato un nuovo volto umano, ha ripreso il suo cammino terrestre in Erbe aromatiche. Qui, la sua sostanziale ambiguità (uomo/astro, cacciatore/preda, cieco/chiaroveggente, saggio/impotente) diventa la sua forza: egli è il mediatore che fa in modo che si confrontino due universi separati. Tuttavia questo nuovo incontro con la terra si rivela un’avventura dolorosa; Char parla del «dramma» di Orione sulla terra. Il fatto è che la venuta di Orione coincide con un dubbio del poeta sul potere della propria scrittura, una lucidità disperata che mette una di fronte all’altra la sua poesia e una modernità vissuta come assolutamente distruttiva. Davanti a questa distruzione, la poesia ha ancora qualcosa da dire, da contrapporre, da costruire? In Erbe aromatiche Char ne dubita fortemente e l’intera raccolta è attraversata da questa disperazione. Tra Furore e mistero e Erbe aromatiche, ad essere scomparso è proprio il furore, la rivolta; la capacità di ribellarsi ha lasciato il posto a una constatazione disperata e amara. Così il dramma di Orione è anche il «dramma» del poeta nel quale egli si incarna e in nome del quale parla. I parallelismi tra la figura mitica di Orione e il poeta precedono Erbe aromatiche e continuano dopo quest’opera. Ma solo in questa raccolta costituiscono una linea di forza. Presente in tutta la silloge, dall’argomento all’ultimo poema, Orione appare in tutte le tipologie di poemi: in quelli in versi liberi o in prosa che gli sono direttamente dedicati – altrettante tappe, pietre miliari del suo cammino – ma anche nei lunghi poemi aforistici dove la sua presenza non era prevista: epigrafi che accompagnano ogni poema della prima parte come due camminatori che procedono fianco a fianco fino al momento in cui in un altro poema aforistico, alla fine della raccolta, i due camminatori si incontrano e si confondono; l’epigrafe abbandona il nome di Orione e diventa «Noi»; Orione e Char si mescolano in forme doppie. Così Orione ha accompagnato il poeta fino a quando le loro due voci sono diventate una sola; anche se, a quel punto, questa duplice voce non è niente più di un sussurro («Quell’uomo scosso sembrava trarre dal suo petto solo respiri esigenti e vacillanti.» (AC, 40), appena udibile in un mondo di rumore e di violenza.
La stessa composizione della raccolta traduce questo affievolirsi della parola poetica: ad una lunghissima prima parte, cammino sicuro di Orione nel mondo, segue una seconda parte più breve che registra numerosi segni di morte. Ma è con «Verde su nero» che la raccolta si spezza bruscamente, immagine precisa di una parola che si interrompe. Infatti la terza parte, aperta da questo poema, si conclude subito dopo il successivo e la quarta comprende un solo poema. Il poema «Verde su nero» costituisce dunque una visione ristretta di tutta la composizione della raccolta: voce che si frantuma, impossibilità di scrivere che arriva fino al silenzio. La raccolta si chiude con una disperazione assoluta: da questo mondo che ha perduto la volontà di cogliere l’essenziale, dove l’evento è «spogliato del suo grano apicale» (AC, 43), da questo mondo che non intende più la poesia, il poeta desidera ritirarsi. La sua sofferenza fisica («Non sentiresti più gemere le tue scarpe sfondate») e morale («Ti tormenta la tua appartenenza a un popolo mangiatore di cavalli, mente e stomaco adiacenti […]») è tale che «Eloquenza di Orione» sembra essere la sua ultima parola al mondo e la raccolta Erbe aromatiche termina con una rinuncia alla poesia.
(Traduz. di fm)
*
Note
1 René Char, Sur la poèsie, Paris, GLM, 1974, p. 23.
2 Ibid., p. 24.
3 Ibid., p. 9.
4 Émile Benveniste, Problèmes de linguistique générale, 1.1., Paris, Gallimard, 1966, p. 233.
5 Le Nouvel observateur, 3 mars 1980, p. 102.
Per le opere di Char citate nel testo (AC, CB, NP, etc.) si rimanda alla prima parte e alle relative note.
*
Grazie