Per versi polimorfi / Il Belzebù bambino di Davide Cortese

 

di Lorenzo Mari

Una poesia che procede per versi polimorfi accenna, per la verità fugacemente, alla mimesi della celebre definizione freudiana di una specifica fase dell’infanzia nello sviluppo psicosociale dell’individuo, per poi darne una rappresentazione che oscilla tra la burla e il grottesco; in questo modo, inoltre, si evita di ricadere nella più banale reiterazione – sempre più destituita, ormai, delle sue motivazioni originali – del fanciullino di pascoliana memoria. L’infanzia (che viene in questo modo, e per paradosso, ad esser considerata assai seriamente) si rivela così essere un repertorio altro, non di rado straniante, al quale sembra avere attinto Davide Cortese per il suo libro più recente, Zebù bambino (Terra d’Ulivi, 2021).

Il libro di Cortese, infatti, è interamente costruito sui metri e con il gusto della filastrocca, un dato che è formale e stilistico, ma anche ideologico, nel suo rifarsi – magari appena accennato, e tuttavia presente – a un’idea di “connessione sentimentale” con chi legge. Nella miglior tradizione dei Gianni Rodari e dei Bruno Tognolini, e forse più nel segno del primo che del secondo, le filastrocche sono dunque per bambini e per adulti; anzi, sono principalmente rivolte ai secondi, perché la storia di Zebù bambino rovescia sin dal principio, ovvero sin dal titolo, il bene nel male, con “Gesù bambino” che viene spodestato, nel ruolo di protagonista, da un «signor Mefistofele piccino» (p. 6). Sotto la superficie gnostica – e non è facile, a tal proposito, mettersi sulla scia di un William Blake, senza cadere nelle trappole del macchiettismo, o il del maledettismo – il diavolo si rivela davvero un “piccolo diavolo”, pun intended, ossia il male risulta incarnato in una dimensione umana, troppo umana. Del resto, ciò non gli impedisce in alcun modo di sperimentare l’abominio, come risulta sinteticamente espresso in questo pregevole attacco: «Piace la cioccolata / al piccolo demonio / non dividere in sillabe / la parola abominio» (p. 12). Come scrive Matteo Galluzzo in questa bella nota di lettura pubblicata su Imperfetta Ellisse: «C’è ad un certo punto, mi pare, un allargamento del punto vista, per cui Zebù diventa simbolo di ogni giovane uomo estromesso dalla guida e dalle cure dello sguardo responsabile».

Ora, questo dilemma etico tutto sommato classico – riassumibile in una sola domanda, per estrema semplificazione: “quale male, da parte di chi lo ha subito?” – è ricondotto ai passaggi, variamente traumatici, dell’infanzia e non sembra dare adito a particolari sviluppi, eccetto quello, forse, su cui si chiude l’ultimo testo della silloge. Non lo si citerà qui, poiché si tratta di un verso dalla forza icastica che, da solo, dà perfettamente conto del legame – nella loro Bildung, e più in generale in quella di ogni individuo, da un punto di vista gnostico – tra il “piccolo Zebù” e il “piccolo Gesù”; lo si lascerà, piuttosto, alla curiosità dei lettori, immaginando che questa, com’è accaduto per chi scrive, possa indurre a voler leggere ancora, oltre i ventuno brevi testi che compongono il libro. (In altre parole, la connessione sentimentale è istituita: perché non proseguire? Ma forse sarà la produzione futura dell’autore a rispondere a queste domanda…).

In relazione a tutto questo, è stato forse più cauto ed equilibrato Carlo Ragliani nel notare, per Atelier, il fatto che «fondamentale è sottolineare tanto lo scritto quanto il non-scritto: questo perché se da un lato il libro rifugge ogni tentazione olistica orientaleggiante, o comunque tendente ad un unicum i due fulcri contrastanti del testo (contestualmente, in chiosa), l’autore lascia intendere che vi sarà certamente una prosecuzione fisiologica (se non anzi fisica) all’opera, seppur non vergata sulla pagina». Divergendo da Ragliani nel voler leggere il testo in chiave più chiaramente gnostica, sembra, tuttavia, parecchio condivisibile l’ipotesi di una prosecuzione fisiologica e fisica dell’opera oltre l’ultimo testo. Si tratta, in fondo, dell’eco della filastrocca, una sua ripetizione che si prolunga e si sfilaccia oltre la provvisoria fissazione sulla pagina, in un factum loquendi che l’eccellente postfazione di Mattia Tarantino riesce a delineare con arguzia, muovendosi fra l’Agamben del Linguaggio e la morte e il Blanchot della Scrittura del disastro.

Sfilacciatura che ripete, e consolida, il dettato di Cortese, non esente da qualche inciampo metrico – si veda, a titolo di esempio, questa chiusa: «Tatua fiori di melo e serpenti / sul seno di plastica di Maria. / Poi rosicchia quel seno coi denti. /Succhia il latte che finge vi sia» (p. 8) – e da qualche forzatura, di solito verso il registro aulico (ad esempio il «repente» di p. 18) – che sono presenti, peraltro, anche nell’opera di Rodari. Nel caso di Cortese, il dato sembra dovuto innanzitutto alla preminenza dell’interesse sillabico, prim’ancora che metrico, o rimico su altre scelte stilistiche; del resto, però, questi inciampi, assolvono pienamente, e splendidamente, il compito, già sottolineato da Antonio Fiori, di ricordarci che le poesie-filastrocche sono «spesso zoppicanti come […] quelle ripetute dai bambini» e che il poeta non è chiamato tanto ad esimersi dal ridicolo quanto a mostrare – cita sempre Tarantino, con estrema precisione – une sagesse ridicule, volontairement comique.

Una saggezza che possa procedere, appunto, per versi polimorfi.

*

Ali nere d’angelo randagio
ha sul dorso Zebù bambino.
A dadi inganna il tempo malvagio
il signor Mefistofele piccino.

*

Sbircia dalla serratura
il piccolo Zebù.
Guarda intrecciati e nudi
i genitori di Gesù.

*

Quando in petto lo strugge
un arcano bisogno d’amore
va a rubare all’emporio del gobbo
un lecca lecca a forma di cuore.
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