La parola che sempre cammina

(da: “La foce e la Sorgente“, II, 4)

[…] La parola che sempre cammina si riversa sulle strade nelle mani di artisti sovversivi ai diktat dell’arte ufficiale. I balbuzienti della notte del logos sono paria di una Street Art diventata sistema. Attratti istintivamente dai muri delle loro prigioni o dei loro esili adoperano il graffito attingendo al senso primigenio di questa pratica. Il graffiare, azione comune ad uomini e belve, è anche misurazione simultanea del rapporto con lo spazio che li circonda, con la forza e la capacità di operarvi. L’atto di graffiare suggerisce una presa di posizione, un atteggiamento attivo – non meditativo – nei confronti del muro come specchio e della sua capacità evocativa e ricettiva. ‘Ascoltare’ l’estensione di una macchia d’umidità, la profondità di una fessura nel corpo roccioso, avvicinandosi al muro in una relazione simpatetica, conduce chi graffia ad una risposta energica verso ciò che ha appena visto e scoperto. Siano muri guardati da lontano o da molto vicino, ipnotizzati dalla loro asettica assenza di colore o sedotti dai volti emersi nelle loro cesure, l’immediato gesto che ne consegue mira a scacciare o richiamare l’invisibile che questi trattengono. Tutto il corpo allora è scosso dall’urgenza di compiere un atto dai contorni magici ed apotropaici: incontro-scontro che impone l’uso della forza nell’esorcizzare i propri fantasmi. La superficie diventa allora il campo di battaglia di un corpo a corpo tra presenze vive e animate; tra chi inspira ed impone e chi espirando concede. (…)

(Gustavo Giacosa, La parola che sempre cammina, 2010)

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