Archivi categoria: arte e letteratura

Proue/Prua

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Un fondo di risonanze

(da: L’opera non perfetta)

Nell’atto creativo convivono tre stadi: l’enigma del nascondersi, la passione dello svelarsi e la bellezza dell’esserci. In quell’atto nulla è dato per vissuto prima e nulla è mai vissuto per la prima volta. L’artista si fa sismografo che capta non l’indeterminatezza del vuoto ma le vibrazioni emanate dal vuoto stesso. Se Novalis nota che «i rapporti fondamentali del vivente sono i rapporti musicali», Marius Schneider ricorda come «l’abisso primordiale è un fondo di risonanze», quasi a suggerire che ogni arte deve essere pronta a inseguire queste tracce acustiche, che si perdono nella memoria arcaica della mente umana. La mente non è uno spazio statico occupato da facoltà concettuali superiori o ideologie funzionali a qualche potere ma campo attraversato da vibrazioni che sono pensieri o immagini, spesso immagini di pensieri. E il concetto di tono – in senso propriamente musicale l’intonazione con cui una certa melodia viene espressa in quella forma precisa – è in relazione profonda con questa simbolica della mente. Novalis chiamava il tono Luftseele, cioè «anima d’aria», vibrazione. (…)

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Cappio e occhi

(da: Il muro dove volano gli uccelli)

Incorniciato nel piccolo rettangolo del quadro, il viso ovale del Cristo ha la tradizionale corona di spine sul capo, il collo è circondato da una corda che evoca il cappio dei prigionieri – condannati, schiavi, animali. L’arco delle labbra si abbassa in una sorta di smorfia di indifferenza verso la fine imminente. Questo Cristo non è né umiliato né deriso, ma testimone di un dolore puro e indifferenziato la cui maschera si affaccia da una finestra e ci guarda senza sapere di essere guardato. Gli occhi, siderali, sono immuni da qualsiasi fisicità terrena. Lo sguardo nasce dall’abisso di un dolore estraneo a qualsiasi ragione e legge: è lo sguardo di chi si percepisce vittima di una Volontà ineluttabile.
Opposto alla rappresentazione di un Redentore troppo terreno o troppo spirituale, il Cristo di Antonello è remoto, tragico. Il reclinarsi del capo, l’arco della bocca, il viso sbiancato e livido e senza tracce di sangue, suggeriscono una Triste Indifferenza senza remissione.
Questo Cristo non si congeda mai da noi: cappio e occhi, continuano a legarci a uno strazio non umano. Non ci chiede nulla, e non risponde a nessuna domanda. «La lezione maggiore dell’infinito è / smettere d’essere, a volte, infinito». (Roberto Juarroz).

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Atlan e la pittografia dei miti

Giuseppe Zuccarino

Fra gli artisti contemporanei su cui Derrida ha avuto occasione di scrivere, Jean-Michel Atlan è forse il più anziano, essendo nato nel 1913. Tuttavia un primo elemento che li accomuna è costituito dal fatto di essere entrambi ebrei di origine algerina. Inoltre il fatto che Atlan, come si desume dai titoli di molte sue opere, tenga presente una lunghissima tradizione culturale, che per un verso parte da Omero e per l’altro dalla Bibbia ebraica, non poteva che esercitare – assieme ovviamente alle qualità formali dei dipinti – una forte fascinazione sul filosofo. Non sorprende dunque che egli abbia accettato di scrivere l’ampio testo introduttivo per un libro sul pittore, Atlan grand format. Il saggio, dal titolo De la couleur à la lettre, verrà poi ripreso in una raccolta postuma di suoi scritti sulle arti visive.

Ricordiamo in breve che Atlan si trasferisce dall’Algeria a Parigi nel 1930. Al termine degli studi universitari, diventa professore di filosofia e inizia a dedicarsi alla pittura. Nel 1942 viene arrestato perché milita nella Resistenza. Dopo un periodo in carcere, riesce a evitare la condanna a morte, o la deportazione in quanto ebreo, solo fingendosi pazzo. Questo, però, fa sì che venga recluso nell’ospedale psichiatrico di Sainte-Anne. Alla Liberazione, può finalmente tornare all’attività pittorica e realizzare le prime mostre. Pubblica anche un libro di poesie, Le sang profond. Più tardi, è tra i fondatori del movimento CoBrA, un gruppo di artisti sperimentali che come lui si muovono in uno spazio intermedio tra astrazione e figurazione. Nell’ultima parte della vita (Atlan muore nel 1960) la sua pittura acquista risonanza sul piano internazionale. (…)

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La parola che sempre cammina

(da: “La foce e la Sorgente“, II, 4)

[…] La parola che sempre cammina si riversa sulle strade nelle mani di artisti sovversivi ai diktat dell’arte ufficiale. I balbuzienti della notte del logos sono paria di una Street Art diventata sistema. Attratti istintivamente dai muri delle loro prigioni o dei loro esili adoperano il graffito attingendo al senso primigenio di questa pratica. Il graffiare, azione comune ad uomini e belve, è anche misurazione simultanea del rapporto con lo spazio che li circonda, con la forza e la capacità di operarvi. L’atto di graffiare suggerisce una presa di posizione, un atteggiamento attivo – non meditativo – nei confronti del muro come specchio e della sua capacità evocativa e ricettiva. ‘Ascoltare’ l’estensione di una macchia d’umidità, la profondità di una fessura nel corpo roccioso, avvicinandosi al muro in una relazione simpatetica, conduce chi graffia ad una risposta energica verso ciò che ha appena visto e scoperto. Siano muri guardati da lontano o da molto vicino, ipnotizzati dalla loro asettica assenza di colore o sedotti dai volti emersi nelle loro cesure, l’immediato gesto che ne consegue mira a scacciare o richiamare l’invisibile che questi trattengono. Tutto il corpo allora è scosso dall’urgenza di compiere un atto dai contorni magici ed apotropaici: incontro-scontro che impone l’uso della forza nell’esorcizzare i propri fantasmi. La superficie diventa allora il campo di battaglia di un corpo a corpo tra presenze vive e animate; tra chi inspira ed impone e chi espirando concede. (…)

(Gustavo Giacosa, La parola che sempre cammina, 2010)

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Le lointain / Il lontano

Yves Bergeret

Tratto da Carnet de la langue-espace.
Traduzione di Francesco Marotta.

Un pas puis l’autre
le lointain n’hésite pas ;
les chiens hurlent,
est-ce de joie ?

Les marées rapprochent écartent les montagnes
que tant de violence intimide
harcèle le jour la nuit.

Et si le lointain à pas sûrs s’approche encore
on sait coudre le cuir des montagnes :
tes doigts, le dur buis, le fil de la parole.

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Movimenti di penna

Lucetta Frisa

EPSON MFP image

I primi testi di Henri Michaux – da Mes proprietés a Voyage en Grande Garabagne, da Lointain intérieur e Un certain Plume a Au pays de la magie – ci consentono, come lettori, di vivere un’esperienza non comune: assistere a una ripetizione di un rito che potrebbe riassumersi brevemente così: una voce neutra, dal timbro tranquillo se non impassibile, narra, in modo minuzioso e slontanante, di universi “altri”, attraversati da esseri più apparentati a una flora e a una fauna marina che alla specie propriamente umana o a quella che, grazie alle lenti potentissime di un microscopio elettronico, possiamo scoprire sotto l’erba o la sabbia. Queste narrazioni o cripto narrazioni – in forma di frammento, riflessione, testimonianza – registrano avvenimenti enigmatici che nessuna chiave simbolica è in grado di interpretare. Sigillati nella magica oltranza della loro natura visionaria, quei testi si rivelano come microcosmi “surreali” di un mondo ulteriore, mappe utili a percorrere terre invisibili, o a essere decifrate da passeggeri inesistenti. Né poesie né racconti, gli scritti di Michaux oscillano tra soliloquio e aforisma, a volte sembrano oracoli o formule propiziatorie, a volte pagine di diario di un entomologo decisamente folle. Li accomuna il non essere mai appagati da una forma definita, se non quella della cronaca frammentaria e tutta pervasa da una fredda ironia.

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