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Quaderni delle Officine (CXXV)

Quaderni delle Officine
CXXV. Aprile 2023
Elisabetta Brizio
Per tutti l'inverno ha uno sguardo
Atelier d'inverno di Remo Pagnanelli

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Per tutti l’inverno ha uno sguardo

Elisabetta Brizio

«L’estate fugge nelle province ctonie. / Il verde non è quello di una volta. // Tace il mare (sì, che ci accontenteremmo / di false fughe, falsi fondali, gioventù da dilapidare)». Sono i versi riportati in quarta (e in forma autografa in copertina) nella riedizione di Atelier d’inverno di Remo Pagnanelli – versi che attestano quanto il modularsi sul dispositivo etico-estetico dell’inconsistenza ontologica dell’umano abbia inciso sulla versificazione italiana di fine Novecento. La nuova edizione di Atelier d’inverno, con varianti d’autore, sorge sulla revisione di Pagnanelli risalente al gennaio 1987. Tre sezioni compongono l’opera: «Glaciazioni», «Pratiche dissolutive», «Musica da viaggio». Queste le impressioni del poeta, non del tutto soddisfatto dell’effetto complessivo della prima stesura di Atelier, a due anni dalla pubblicazione: «Leggendo più volte a voce alta l’edizione di Atelier d’inverno […], mi sono reso conto che, a parte il fastidio procurato al lettore da una eccessiva e farraginosa messa a punto (?) tipografica, il precipitato del testo era oltremodo ingolfato da una prosodia eccessivamente disforica, che, se rendeva mimeticamente il messaggio semantico, lo intorbidiva in qualche modo… così questa rilettura dovrebbe servire a rendere più agevole la lettura sia a voce alta che con gli occhi solamente. Credo che la natura del testo non sia spostata, se non in direzione di una maggiore chiarezza del disordine che lo compone. Vi ho aggiunto alcune poesie tratte dalla plaquette Musica da viaggio (Antonio Olmi, Macerata 1984), per completare quello che mi sembra tuttora un ciclo e dare l’idea dell’inizio di un altro. L’interminabilità del lavoro testuale, insomma. A parte la prosodia, è stata aggiunta una più precisa punteggiatura e rari cambi lessicali». (…)

Tratto da: Elisabetta Brizio,
Per tutti l’inverno ha uno sguardo
(Atelier d’inverno di Remo Pagnanelli),
“Quaderni delle Officine”, aprile 2023.

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Non più di un’ombra

Elisabetta Brizio

Marino Moretti e il crepuscolarismo storico

Décadence è disgregazione, tramonto, separatezza come stato elitario e insieme di condanna («Ses ailes de géant l’empêchent de marcher», L’Albatros), evocazione dell’irrazionale, dell’arcano cosmico, perché reale è l’altrove, la «fôret de symboles». A giudicare dall’influsso che ha esercitato su tante correnti successive e dai tanti fermenti, dagli autori capitali che ad essa si sono ispirati, la décadence configura una condizione perenne, più o meno nella stessa ottica in cui Orazio, nell’Ars poetica, poteva dire che le parole, come le foglie, sfiorivano per poi rinascere e tornare a brillare della loro verde luce, e Baudelaire, nel Tramonto del sole romantico, evocare i bagliori di un crepuscolo al quale, aggiungerà Borgese istituendo la definizione di «poesia crepuscolare», non sarebbe seguita la notte.

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Folli pensieri e vanità di core

Elisabetta Brizio

Un nuovo volto per le Rime di Dante?
L’enigma dei versi inediti e sconosciuti

     Lunga, ed estremamente dibattuta, è la storia dell’istituzione del canone delle Rime di Dante, che, com’è noto, non acquisirono dalla mano dell’autore sigillo e perimetro definiti e ultimi, ma furono affidate alle spesso discordanti testimonianze dei codici e al giudizio talora azzardato dei posteri – basti pensare al famigerato Credo di Dante, palesemente una goffa falsificazione, avallato tuttavia come autentico da vari editori fino ai primi del Novecento. Queste incertezze attributive investono a maggior ragione le rime mariane, delle quali vi fu ampia produzione nel Trecento, e che potrebbero in qualche caso essere state attribuite falsamente a Dante, e in altri invece nascondere elementi di autenticità ma essere state respinte come false per eccessivo, se pure non illegittimo, dubbio metodico. E a queste incertezze, è superfluo ricordarlo, concorse l’intrecciarsi incessante – nella stratificazione altamente polisensa improntata alla polisemia biblica – di motivi complessi, di autobiografismo dissimulato, di ragioni letterarie e terminologie traslate, di sacro e di eretico, di echi dalla tradizione sapienziale, di teologico e di profetico, di astronomico-astrologico, di mistica astrale: un orizzonte contestuale di motivi dove la prospettiva ultraterrena smaschera la fallacia eretta dalla condizione umana, dà la cognizione dell’errore e del senso dei confini, e consente all’umanità salvata l’accesso alla verità ardua e ombrosa sottesa al velo dell’allegoria.

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Et le tout lointain, près

Elisabetta Brizio

Per un ritratto di Proust

«Per un ritratto di Proust», lo sappiamo, è il titolo di un saggio di Benjamin uscito a qualche anno dalla pubblicazione, postuma, degli ultimi volumi della Recherche du temps perdu. Tempestivo nel rilevare, nell’orizzonte proustiano, «l’universo dell’intreccio», il «tempo intrecciato» con lo spazio, tipicamente nel ricordo: è «il mondo nello stato dell’analogia» dove la memoria, quella spontanea, procura l’effetto «choc di ringiovanimento» nell’istante in cui, Benjamin scriveva, «ciò che è stato si rispecchia nel nuovo». E il tempo perduto è l’accorgersi tardivo del tempo vissuto inconsapevolmente. «Proust ha realizzato l’impresa inaudita di far invecchiare, nell’istante, tutto il mondo di un’intera vita umana. Ma proprio questa concentrazione in cui fulmineamente si consuma ciò che altrimenti soltanto appassisce e si spegne lentamente si chiama ringiovanimento. (…)

Elisabetta Brizio,
Et le tout lointain, près. Per un ritratto di Proust,
«Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche»,
53, no. 29, giugno 2022

Et le tout lointain, près.
Per un ritratto di Proust

Il faut être absolument voyant

Elisabetta Brizio

Tra il 1870 e il 1878 si consumò, per mano di Rimbaud, in quella sua mente giovane e ardente, corrotta e oscuramente virginea, una avventura creativa destinata – per quanto enfatizzata, deformata o strumentalizzata dalle rifrangenze della leggenda e del mito – a improntare e a pervadere di sé tanta parte della modernità poetica. Forse, solo come la vicenda per molti versi analoga di Campana, anch’egli insofferente bohémien, inquieto «uomo dalle suole di vento», «visivo e veggente» (Bigongiari diceva) nelle trasmutazioni verbali dei suoi vagabondaggi. Fu del resto proprio Rimbaud a proclamare che «il faut être absolument moderne», che ci si debba misurare senza schermi e senza infingimenti con la complessità inesauribile, scontornante e incoerente, dei segni della contemporaneità, con l’eclissi del mito e con la sua paradossale ma fatale e necessaria rivisitazione e trasfigurazione in nuove vesti e in nuove chiavi, malgrado ciò possa procurare «souffrances énormes». Talora si tende a vedere Rimbaud il maudit per eccellenza, il poeta ribelle e senza regole («Je ne me sentis plus guidé par les haleurs», Le bateau ivre), quando il suo dérèglement de tous les sens sarà sí pervasivo, ma insieme raisonné, sottoposto a un programma e a un dettame di arte. […]

Tratto da: Elisabetta Brizio, IL FAUT ÊTRE ABSOLUMENT VOYANT
(RIMBAUD TRA INFANZIA SAPIENTE E SOPHISMES DE LA FOLIE),
in “Quaderni delle Officine”, CXII, novembre 2021.

Il laborintus di Alessio Vailati

Elisabetta Brizio

Immagine fotografica di Fabrizia Milia

Possono i segni archeologici costituire le categorie essenziali di una utopia? Altrimenti, come scavalcare o subordinare il passato, se all’orizzonte del tempo a venire non si riescono a scorgere che segnali di vertigine e caos? Labirinto, margini dell’umano-monade incomunicabile, infinito, poesia: condizioni distopiche e utopiche possono coesistere, immerse nel contestuale sfondo di interazione o di conflitto tra gli elementi primordiali e nella assimilazione delle loro pertinenze. Cosí Alessio Vailati sembra spiegarsi nascita, morte, trasformazione (assumendo «metá» anche nel senso di «atto del ricongiungere»). Nelle sue intenzioni c’è una quadrilogia poetica a partire da Orfeo ed Euridice (o Della poesia perduta), dove i quattro elementi naturali, la empedoclea «quadruplice radice di tutte le cose», fanno la loro comparsa nella sezione liminare e danno l’avvio al capolavoro delle voci. L’elemento acqua sarà sviluppato nel Moto perpetuo dell’acqua (Biblioteca dei Leoni 2020, Introduzione di Paolo Ruffilli), il poema, tra l’altro, della dissezione dei costituenti delle cose, mentre sono in corso di elaborazione opere ispirate agli altri elementi, dei quali il fuoco, con tutta probabilità, è allusivo del fuoco dell’ispirazione artistica (per le istruzioni di base per l’uso di alcune sue opere si veda Il pensiero di fondo della quadrilogia, a questa pagina).

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Je donne, je me donne, donc je suis

……..Elisabetta Brizio

Situarsi nell’instabilità senza affondare, fluttuando. «Flotter» preclude il delinearsi di ogni conclusione definita. Ciascuna acquisizione è tesa a differenziarsi, adombra l’idoneità del diseguale, e sta proprio in questa correlazionalità delle forme il dinamismo che caratterizza L’uomo flottante di Jean Flaminien (trad. it. e cura di Antonio Rossi, testo francese manoscritto a fronte, Book Editore 2016). Direi anzitutto ciò che «flotter» non è: non è un ondivagare insensato, non è un galleggiamento sull’increspatura delle cose, ma una «assunzione della rimessa in circolo» per stringere l’origine e l’infinità del tempo, cioè noi, come suo grado di esplicazione. Continua a leggere Je donne, je me donne, donc je suis

Le cose vestite di tempo

……..Elisabetta Brizio

Le cose vestite di tempo

L’ambivalenza costitutiva del presente quale ambito del non più-non ancora in Guido Gozzano si risolverà nelle Farfalle, forse in quella «stanza modesta» nella quale «dormono cento quete / crisalidi in attesa» del compimento della condizione crisalidea, e quindi della conversione al volo. Tuttavia, qui vorrei ricordare Umberto Eco: divagando su Gozzano a partire da un dettaglio dovuto a una mia dimenticanza. Apro Pape Satàn Aleppe e trovo una Bustina dal titolo gozzaniano: Rinasco, rinasco, nel milnovecentoquaranta. Cosí Eco: «La vita altro non è che una lenta rimemorazione dell’infanzia. D’accordo. Ma quello che rende dolce questo rimembrare è che, nella lontananza della nostalgia, ci appaiono belli anche i momenti che allora ci sembravano dolorosi», come «le notti passate nel rifugio antiaereo». Continua a leggere Le cose vestite di tempo

Scrivere il viaggio

………..Elisabetta Brizio

…..SCRIVERE IL VIAGGIO
………Su Le cose del mondo
…………di Paolo Ruffilli

Leggendo Le cose del mondo di Paolo Ruffilli si sarebbe portati a credere che egli pensi, con Whitman in Song of Myself: «Very well then I contradict myself, / (I am large, I contain multitudes)». «Multànime», avrebbe detto D’Annunzio. Il poeta non può aggiogare la propria interiorità proteiforme agli schemi della logica ordinaria. E infatti «perlustrare il concreto mondo in cui si è venuta muovendo la mia esperienza, in un gioco di continui rimandi e rispondenze tra io e realtà esterna attraverso la pratica del linguaggio» (come Ruffilli scrive nel breve prologo) richiede un certo magistero poetico, un dispiegamento di strumenti espressivi complessi che rendano il senso dell’unità delle voci contrarie, che convoglino le sollecitazioni di una pressante configurazione musicale – «una ossessione mentale di tipo musicale mi trascina materializzando le parole come note in una partitura», dichiarava in una intervista. E se ci rimettiamo all’explicit della traduzione italiana del Contre Sainte-Beuve (astraendo dalle idee proustiane sul talento) le cose sembrano ulteriormente complicarsi: «nessuno conoscerà mai, nemmeno chi la sente, l’aria che ci perseguitava col suo ritmo inafferrabile e incantevole».

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Écrire des silences

Elisabetta Brizio

……Écrire des silences

Luogo del poetico è spesso il suo stesso giustificarsi e porsi come problema: qual è il suo senso quando la poesia non si appaga nel tradurre l’emozione di un’ora? Non sappiamo quanto ultimativa possa essere la conclusione cui perviene Matteo Veronesi in Tempus tacendi (alla chiara fonte, Lugano 2017), nel cui esordio disegna una situazione quasi di scoramento che accomuna i poeti, per poi polarizzare l’attenzione su di sé. L’uso anaforico, lievemente ridondante, nel Prologo, di un «noi» più amicale e consociativo che  maiestatico concorre a rendere l’effettiva impasse della stirpe dei «poeti perduti». Continua a leggere Écrire des silences

Sei sestine su nulla

Matteo Veronesi

“Che cosa cerca di venire a fine
alla cortina estrema del silenzio
ch’è come velo su sembianze morte:
forse l’enigma del sudario vuoto
il segno che non dice altro che nulla
e involto tace, di là d’ogni tempo?”

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