
Manuel Cohen
Fabio Franzin
Chi legge per la prima volta questi versi è un lettore privilegiato. Si ritrova davanti, senza che nessuno gli abbia aperto o distorto lo sguardo, un’evidenza nuda, incontrovertibile, priva di argomenti. Come davanti al diario di Simone Weil sulla condizione operaia, ma alla rovescia, in una salda e coerente inquadratura soggettiva: lo stato di mobilità di ottanta e più lavoratori dell’industria del mobile, oggi, nel Nordest in crisi. Qui Franzin apre lo scenario, e racconta in sestine, in dialetto, con la stessa lingua, lo stesso passo del suo Fabrica, forse il miglior libro di poesia italiana dell’ultimo decennio. Lì si sentiva l’epica delle mani: l’elogio della loro arte di esistere e di mettere insieme i pezzi della lavorazione e il sostentamento delle vite, con l’affanno, il massacro delle tenerezze, delle aspirazioni, delle femminilità. Fabrica era il lungo canto ritmato, senza strepito, di quelle mani che ora sono state fermate, deprivate della loro capacità di afferrare il mondo e di capirlo. La realtà si è fatta obliqua, piena di salti e di curvature: l’ordine delle certezze è saltato, ed è cambiata la percezione del tempo, del paesaggio, dei rapporti familiari. Queste mani orfane dovranno imparare un modo nuovo di percepire, di accostarsi alle cose. (Stefano Colangelo)
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