I primi testi di Henri Michaux – da Mes proprietés a Voyage en Grande Garabagne, da Lointain intérieur e Un certain Plume a Au pays de la magie – ci consentono, come lettori, di vivere un’esperienza non comune: assistere a una ripetizione di un rito che potrebbe riassumersi brevemente così: una voce neutra, dal timbro tranquillo se non impassibile, narra, in modo minuzioso e slontanante, di universi “altri”, attraversati da esseri più apparentati a una flora e a una fauna marina che alla specie propriamente umana o a quella che, grazie alle lenti potentissime di un microscopio elettronico, possiamo scoprire sotto l’erba o la sabbia. Queste narrazioni o cripto narrazioni – in forma di frammento, riflessione, testimonianza – registrano avvenimenti enigmatici che nessuna chiave simbolica è in grado di interpretare. Sigillati nella magica oltranza della loro natura visionaria, quei testi si rivelano come microcosmi “surreali” di un mondo ulteriore, mappe utili a percorrere terre invisibili, o a essere decifrate da passeggeri inesistenti. Né poesie né racconti, gli scritti di Michaux oscillano tra soliloquio e aforisma, a volte sembrano oracoli o formule propiziatorie, a volte pagine di diario di un entomologo decisamente folle. Li accomuna il non essere mai appagati da una forma definita, se non quella della cronaca frammentaria e tutta pervasa da una fredda ironia.
Lucetta Frisa CRONACHE DI ESTINZIONI
(puntoacapo, 2020)
Dalla prefazione di Elio Grasso: […] La rapida progressione dei furori, epidermicamente inoculati nella mente dell’autrice da intrighi mondani e fatue opulenze sparse nel mondo, giunge all’invocazione di città dal triste destino, di vulcani estinti e attivi, che sembrano precipitare in mare, così come le antiche profezie. Il primato della denuncia quasi mai è giustificato dalla vera poesia, ma qui l’aria sentita è tesa, odora di concretezza fino al midollo perché l’esperienza sparsa a piene mani nel libro è un fatto radicale, inestinguibile e curato come un pane all’alba. La visione non scende mai sotto l’orizzonte, tutto è regolato perché l’esposizione sia al tuning massimo di onde portanti parola chiara e liscia […]
Auguste Rodin al direttore del manicomio di Montdevergues
Parigi, 30 dicembre 1913
Egregio signor direttore,
la vostra lettera del novembre scorso, che con offensiva indiscrezione mi interrogava sulla natura dei miei rapporti con la signorina Camille Claudel, mi ha profondamente indignato.
Voi sapete, esimio dottore, a chi vi rivolgete? Io sono Auguste Rodin. Ogni minuto del mio tempo è prezioso per l’arte francese e non posso certo sprecarlo per beghe di quart’ordine. So bene che voi, da alienista scrupoloso e uomo sensibile quale mi siete stato descritto, fate semplicemente il vostro dovere, ma i miei rapporti occasionali con quella sventurata non vi consentono questi toni da interrogatorio. Alla vostra inqualificabile domanda, lesiva del mio onore e del mio nome, «se io mi sono mai comportato in modo autoritario o violento nei confronti della malata», posso solo rispondervi: MAI.
FURTO D’ANIMA è un libro composto da quaranta lettere, reali e immaginarie: un viaggio perturbante, in un passato remoto e recente, dove coppie di artisti e di scrittori confrontano le parti-ombra delle loro emozioni, i loro più intimi pensieri, e si offrono impudicamente allo sguardo del lettore con quello che avrebbero ancora potuto dire, scrivere, pensare. In queste lettere, che talvolta sono scritture intime e frammenti di taccuini, si apre una prospettiva altra, che sonda conflitti e intrecci, fra arte e vita, alla ricerca di una “giustizia” postuma, ipotetica e poetica che vorrebbe riportare alla luce parti segrete e “scomode” di verità mai esplorate fino in fondo.
Davanti alle indifferenti
lenti degli occhiali e del pc
lava e fumo incontenibili avanzano
fino alla mia scrivania.
Il video testimonia – in diretta –
l’orrore dormiente chissà in quali caverne
oltre mari e fusi orari
il cieco assassinio
dei due vulcani risvegliati uno dopo l’altro
con la testa sfavillante di fuoco:
Odo le flebili grida atterrite di persone in fuga
(io mi aggrappo ai braccioli della poltrona)
che presto moriranno incenerite.
Resistere e opporsi alla volgarità montante, alla violenza verbale e all’intolleranza che facilmente si mutano in violenza fisica significa anche dedicarsi a piccoli, eleganti libriccini che sembrano giungere come messaggi in bottiglia, meglio ancora come amicali doni: è il caso delle 41 pagine racchiuse in un’elegante copertina cartonata che Lucetta Frisa ha tradotto e curato per le Edizioni di Via del Vento di Pistoia – è il caso della pluridecennale passione nutrita da Lucetta per Nicolas de Staël e che segna una nuova tappa con queste pagine di un diario del viaggio in Marocco compiuto dall’artista tra il 1936 e il 1937 e che Lucetta ha intrecciato con estratti da lettere che Nicolas ha inviato negli stessi mesi del viaggio marocchino ai genitori (Tutto deve accadere dentro di me); la poetessa genovese non si è però “limitata” alla traduzione dal francese, ma ha scritto quattro intensissime pagine (Una fiamma che cresce) a conclusione del volumetto, così che l’intera opera (ulteriormente impreziosita da dodici tavole a colori di opere del pittore) diventa per la mente del lettore un’attualissima, appassionata e appassionante riflessione sulla creazione artistica e sull’estremo rigore, sull’ineludibile disciplina pretesi da qualunque arte ci si senta vocati a praticare (pittura, musica, poesia, non importa).