Se la lingua influisce sul modo in cui pensiamo di essere nel mondo, allora la poesia può far accadere qualcosa. Vorrei suggerire che riesce a farlo. Certamente, penso che abbia influenzato la modalità in cui vivo personalmente il mondo. Ma, in tutta probabilità, non influisce sulla percezione in maniera diretta, come potrebbero desiderare i poeti. Sbarazzarsi dell’“io”, eliminando del tutto i pronomi, decostruendo la sintassi normativa, ecc. Queste tecniche – tutte vecchie più di un secolo – influenzano il lettore. Ma gli effetti sono complessi e sottili e potrebbero non corrispondere affatto alle intenzioni di uno scrittore. Forse, invece di modellare le ecologie, si potrebbe osservare che le poesie si assumono la responsabilità di determinati modi di pensare e scrivere, come sottolinea Charles Altieri, «invitando il pubblico a cogliere quali altre potenzialità esse dimostrino nell’adattarsi al modo in cui chiedono di essere lette».
E se le strutture della percezione non fossero “soggettive” (cioè aggiunte dagli esseri umani ai dati grezzi) o “oggettive” (cioè fornite dalle cose in sé), ma fossero articolate a metà tra relazione e interazione, tale che la parola possa sollevarsi in un medium che non è proiettato, ma che è in atto come un ambiente? Potremmo vederci allora come partecipanti di un linguaggio non strumentale? Ci sarebbe modo di saperlo?
Traduzione di Alberto Fraccacreta da Redstart: An Ecological Poetics, a cura di Forrest Gander e John Kinsella, Iowa University Press 2012.