Marco Ercolani
Negli anni Trenta dello scorso millennio Osip Mandel’štam scrive il suo Discorso su Dante. Proprio all’inizio di questa prosa vorticosa e cristallina scrive: «Dante è un maestro dei mezzi poetici, non un fabbricante d’immagini. È lo stratega delle metamorfosi e degli incroci, non è per nulla un poeta nel senso “paneuropeo”, ossia nel senso culturale, esteriore della parola». Mandel’štam ci ricorda, prima ancora di gettarsi a capofitto nei temi danteschi, che l’immagine esteriore è incompatibile con i mezzi del discorso linguistico, perché la partitura di ogni composizione poetica trascende e trasforma suono e senso, come un “tappeto intessuto di molteplici trame”. Non vi si può costruire un itinerario, precisare un disegno: sarebbe come analizzare un “fiume ingombro d’instabili giunche cinesi variamente orientate”. Osip difende il suo sguardo barbaro e materico sulla Commedia con queste parole: «Cercando di pensare, nei limiti della mia possibilità, nella struttura della Divina Commedia , sono giunto alla conclusione che tutto il poema non è che una sola strofa, unitaria e inscindibile. O meglio non una strofa, ma una struttura cristallina, un solido».
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