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Uno di noi

(da: “La Foce e la Sorgente“, II, 6)

(Suicidio)

C’erano in me venti generazioni
a dir poco
e questa mattina non so perché,
forse perché la finestra era aperta,
uno si è buttato dal primo piano.
Allora tutti
hanno incominciato a buttarsi,
come da un trampolino,
uno dopo l’altro, a catena,
secondo il principio della disintegrazione
delle pecore. In una mezz’ora
sono rimasto completamente nudo,
e per la vergogna mi sono buttato anch’io.
Sono morto, credo, verso il quarto piano.
Ad ogni modo, verso il secondo
ero già spacciato.
Tutte queste cose
ve le racconta ora un passante,
cioè uno di noi
che ha picchiato sul molle.

(Marin Sorescu, Poesie, trad. di Giulia Niccolai)

***

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Il centro dell’ombra e il fondo d’inchiostro: su “La forza prigioniera” di Anna Ruchat

envol_1974Stando all’ammonizione contenuta nella Nota di Domenico Brancale al libro di Anna Ruchat La forza prigioniera (Passigli Editore, Bagno a Ripoli 2021) – «Quando il poema è finito conviene tacere. Tutto ciò che si capisce è destinato a svanire. Anzi forse non è mai esistito. La poesia non è fatta per essere capita» (p. 85) – dovrei limitarmi a segnalare la pubblicazione del volume, magari raccomandandone caldamente la lettura; in effetti Domenico mi pone innanzi al legittimo e ineludibile dilemma nel quale mi dibatto ogni volta che decido di scrivere di un libro in poesia e che non sono mai capace di risolvere, dal momento che anch’io sono convinto che la poesia vada accolta, ascoltata, portata con sé (dentro di sé), mai sottoposta a luttuose autopsie o a frettolose recensioni (respingo il termine e il concetto stesso di “recensione”); d’altro canto mi succede talvolta di aver bisogno di scrivere di un libro in poesia, di rendere altre persone partecipi di quelli che da anni chiamo attraversamenti dei libri che studio e di cui poi scrivo; ebbene, spero non sia un banale escamotage linguistico questo mio parlare di un attraversamento del libro di Anna Ruchat, ché attraversare un libro in poesia significa sospendere il tempo banausico che opprime e affligge, indugiare nei e fra i testi, lasciarsi invadere dalla memoria di altri testi, di altri libri, stupirsi, soffermarsi a meditare su di un’immagine o su di un verso, osservare e ripercorrere la struttura del libro, provarsi a scorgerne scaturigini e motivazioni… M’illudo allora che anche attraversare in questo modo il libro di Anna Ruchat sia una maniera possibile di tacere, anche perché, afferma Domenico Brancale poco oltre, «se sapessimo veramente il significato di ciò che diciamo, non potremmo più scrivere».  Continua a leggere Il centro dell’ombra e il fondo d’inchiostro: su “La forza prigioniera” di Anna Ruchat

Il vuoto tra le colonne

Fermo immagine dal film “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera” di Kim Ki-Duk (2003).

 

Spesso mi accompagna questa poesia di Giulia Niccolai:

 

 

GIAPPONE

A Kyoto il tempio
dei 1001 Bodhisattva
ha nome Sanjusangen do
che vuol dire “33”.
Il salone che ospita le statue
dei 1001 Bodhisattva
è sorretto da 35 colonne.
33 sono gli spazi vuoti
t r a  l e  c o l o n n e.

Filosoficamente, il fatto
di dare il nome al tempio
in base al numero degli spazi vuoti,
dunque a ciò che non c’è,
può essere interpretato
come la garanzia più elegante,
squisitamente Zen,
di non escludere mai niente,
e nessuno.

Continua a leggere Il vuoto tra le colonne

Meditazioni

Giulia Niccolai

“Quando, dopo un periodo di crisi da lei stessa illustrato, di fronte al brusco e angosciante ritorno dell’assurdo affida la propria sopravvivenza alla meditazione buddista, [Giulia Niccolai] non solo rilegge il suo passato sotto una nuova luce, ma riformula la questione del fantasma in quanto mera illusione. Leggendo le sue prose più recenti, si nota che da allora ella ha oscillato tra il sospetto che il buddismo renda superflua la poesia, relegandola tra le illusioni, e la fiducia che il buddismo, al contrario, possa costituire la suprema coincidenza tra l’uso artistico del linguaggio, comprensivo della sua contestazione, e la nuova dimensione di esistenza offerta. Ma il rapporto tra Maya e ciò che, indicibile e irrappresentabile, si situa oltre di essa, è estremamente problematico anche all’interno dell’arco delle scuole ermeneutiche buddiste, e comunque non si risolve in un necessario sacrificio dell’estetico. Continua a leggere Meditazioni