
Nadia Agustoni

Le parole che dobbiamo imparare.
A chi scrive dall’esilio o dalla solitudine, da un’esperienza del margine vissuta a tratti collettivamente e quasi sempre individualmente, l’incontro con chi è già di là del margine, forse senza averne toccato l’alterità, è un arduo confronto. Uso parole come esilio, margine e alterità perché ognuna racchiude uno dei significati che hanno investito scrittura e vita di alcune generazioni negli ultimi decenni. Ci siamo affidati alle parole perché sono il luogo in cui immaginare l’utopia diventa possibile, ma l’utopia è ciò che non è mai presente, più simile al riattraversare il confine da parte a parte ogni volta, che a una concretezza. Qualcuno, dopo averle amate, ha rifiutato le parole, da principio con la forza del grido e in seguito facendo suo il diniego di un “Bartleby”, ma nonostante tutto quel “di là” utopico ci è rimasto precluso. Per questo è difficile sentire nostro questo tempo, ma cosa voglia dire scoprire un altro tempo, cosa compiono le parole quando hanno la presenza della propria tragicità e ci portano un’esperienza completa dell’umano, noi possiamo saperlo da altri.
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