La Biblioteca di RebStein
LXIX. Settembre 2017
AA. VV.
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Per il decennale di RebStein
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La Biblioteca di RebStein
LXIX. Settembre 2017
AA. VV.
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Per il decennale di RebStein
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Poèmes
(écrits à Catane en août 2017)
1
Des vieux immeubles délabrés tout alentour de la place
ils sortent tôt le matin
pour aérer et laver les rides de l’île
et ce qu’en son ventre elle pardonne à demi.
Ils sont vieux, ils ont le cal de la bêche
dans l’âme, crient par-dessus les fruits des étals,
haussent les épaules
et retombent sur les chaises de plastique rouge
où le barman étranger leur apporte à boire.
da:
A spalancato silenzio
(inediti)
Corpi d’intorno stanno
in conchiglia destini
di vuoto
e di madreperla,
percorsi
di midollo, sangue:
materia di buchi
e di commiati.
*
Volte che non vale
la legge del fumo,
la regola dei cinqueanni,
la faccia al mattino,
la pazienza per nome,
chiedere un’informazione,
sentenziare sui puntini,
accarezzare uno spigolo,
palesare un’idiozia,
telefonarti per sentirsi,
arrivare puntuali o arrivare,
scegliere la via breve,
cercare di schivare.
Volte che si deve attraversare
il lungo raggio delle domande
senza un finale, solo un disegno
un rimpianto tutto, fino a oggi stesso
POESIA DAI FRANTUMI
Una breccia incontrollabile
si è aperta, disgregata. Un serbatoio imbarazzante
di miopia – come a distinguere dal vero
l’ala forte che si porta nell’udito.
Vedi solo ciò che senti –
ti avvicino al suo fruscio, alla ruvidezza
di quel graffio e lo rifiuti. Irripetibile il disegno
di una mano mentre batte sul tamburo.
*
Vi hanno detto
che non esiste il tempo
dovreste gioire alla notizia
niente inizio né fine
il tempo freccia è una bugia
come la barba di dio
tuttavia siete voi, esposti sul filo
a volere che sia, basta volgersi
a una qualsiasi direzione
e il tempo prodigiosamente appare
vostro proprio vostro solo vostro
– sembra che ogni visione sia vera
per sottrazione di dettagli –
suprema (dis)umana illusione
non ve l’hanno ancora detto?
non c’è nulla che resti mai
uguale a sé stesso, che resista
più d’un tempo sospeso
non la pietra ch’è un fitto
di polvere, non questo vibrato
di carne, questa luce scritta
su un suono nel solo
istante che viene.
(10 agosto 2017)
RICHIESTA DI ANALISI
AL CAV. RECALCATI
«… beh, dica un po’ se non ha salvato la vita
al Recalcati… sa, quello dei formaggini…»
C. E. Gadda
I
mi chiamo borso
dormo sul dorso
senza rimorso…
Polaroid
(Cronaca nera)
La notte devia il corso delle povere cose
rimaste abbandonate:
un cartello rotto, un tubo di ferro,
sono ora corpi contundenti
accanto a un volto sfigurato
Rimane l’ombra dell’ultima parola
nella slogatura della bocca,
mastica il dolore di quella terra nuda
Poi la prima luce del giorno mostra
::::::::::::::::::::::::::::: un corpo duro e solo,
tutto quel rosso che ferisce gli occhi
:::::::::::::::::::::::::::::::::::: ::di chi guarda:
la fossa mai terminata, la faccia come
:::::::::::::::::::::::::::::::un disegno sbagliato,
le fiamme di un’Italia che brucia
2 novembre 1975
Idroscalo di Ostia
L’ora contro: frammenti per un omaggio alla scrittura di Domenico Brancale
Percepisco la scrittura di Domenico Brancale quale presenza così potente per me e suggestionante e assoluta che non vorrò scrivere qui una nota di lettura, né un saggio critico, né porrò i testi del poeta lucano su di un tavolo operatorio per minuziosamente notomizzarli – ne scriverò, invece, in un andirivieni frammentato e frammentario (e, spero, commosso), perché ho qui accanto questi quattro libri (L’ossario del sole, Controre, incerti umani, Per diverse ragioni[1]) ed essi s’aprono alla mente che li cerca come sassi dentro cui si celano universi. Per chi proviene dal Sud d’Italia e da terre petrose il sasso, la pietra, la roccia effusiva o calcarea, la gravina e il calanco sono parti d’un paesaggio interiore ineludibile – e anche il linguaggio, forse, liberatosi dall’enfasi barocca cui lo indurrebbe un altro elemento (l’architettura di chiese e di palazzi delle città e dei paesi del Sud), anche il linguaggio si dispone in laconiche e densissime frasi, in violazioni del dire comune, si pone in cammino verso il senso e l’origine e attraversa per intero il rischio del fallimento o del non-approdo.
Matteo di Mario fu Lo Tasso
L’ultima volta che ho visto Matteo di Mario fu Lo Tasso, era una giornata triste, di quelle che raramente un paradiso come Campobasso riserva ai suoi trasognati abitatori. Matteo era tranquillo. Pulito. Sobrio e allegro come un campo di girasoli. Mi mise in mano una busta che avrei dovuto aprire solo quando lui si fosse allontanato – eravamo in un parchetto, vicino al suo condominio. Accettai ed anzi mi ripromisi che avrei letto solo una volta rientrato a casa mia. Negli alti Abruzzi.
Bene.
All’autogrill di Sangro Est non riuscii più a stare nella pelle. Ordinai un cappuccino, strappai a morsi la busta e mi misi a leggere il foglio che Matteo Lo Tasso mi aveva così cristallinamente consegnato. Continua a leggere Per il decennale di RebStein, 13
vietato parlare al conducente
“Vietato parlare al conducente”.
Ogni volta che ripetevo quella frase era un po’ come ripetere me stesso e conclamarmi. La frase mi diceva, ribadiva l’importanza del sé che si diceva attraverso quelle determinate parole. Ma, in un certo senso, quelle parole sembravano anche fuggire per la propria strada, perché mi conferivano, agli occhi degli altri, una sorta di levità, o meglio: nel conclamarmi mi sospendevano come in un limbo. Proprio per questo mi piaceva credere che quelle parole dovessero essere rincorse. Passai due anni della mia vita a rincorrere quelle parole che fuggivano per conto loro, che disegnavano nuove strade senza imboccarne nessuna. Continua a leggere Per il decennale di RebStein, 12
Sotto le stelle infuocate
[Sulla pietà di Maldoror
e altre estenuazioni]
Je suis Madame Bovary
Je suis Mimì
Non sono e non ci sono
solo per questo sono e ci sono
Dopo un anno di apertura verso un mondo scrivente sovente chiuso
di letture bulimiche
di fame mai saziabile fra le strade dei poeti – quelli veri – perché è vero ciò che è attuale, in questa mia collocazione spazio-temporale in cui la secolarità ha perso il suo senso e il suo poderoso dovere di immortalità, torno, soddisfatta ma anche no, nella mia stanza.
La resilienza della sagoma
imperdibile a volte decapitata
la sagoma fa una densa danza
e rotola dove finisce la luce
la rivedi al mattino
quando persino il destino
sogna una propria sorte meno decisiva
se riparte da un punto
perde l’orientamento
per ogni discussione
si ritira in sé stessa
non spera in comprensione
lei, la sagoma, non sa cosa sia speranza
non rispetta le regole
formule sconosciute
rifiuta il cibo
e per questo pare ribelle
anche se ci provano
il seme non attecchisce e spesso rimbalza
I mercanti di Pace
Merce preziosa, la pace; la pace è fatta di corpi vivi e belli e felici.
Forse un tempo, all’inizio dei tempi, le miniere erano piene di pace e tutti i popoli erano occupati a scavare e nutrire le loro civiltà del frutto del loro lavoro, con tutta la loro fatica quotidiana.
Forse, a quel tempo, le stille di sudore sulla fronte degli uomini sapevano di miele profumato ed i bimbi giocavano sui prati alla pace degli uni sugli altri, le ragazze giovani vi si agghindavano le trecce, era diffusa la moda di spolverarsi il volto con briciole di pace che profumavano intensamente di luce di sole e di luna, a seconda dell’orario.
Vivant
di August Picard
(traduzione di Paolo Fichera)
*
Comme souffles blancs trempés des ténèbres
apparaissent les amants, schismes enterrés,
vampires insouciants des chaque lumière
remontent à la surface, pour petites gorgées d’air,
à mourir intacts dans leur propre sang
come respiri bianchi imbevuti di buio
appaiono gli amanti, scismi sepolti,
vampiri incuranti d’ogni luce
emergono, per un sorso d’aria,
a morire interi nel loro sangue
tu che solo-con-le-parole
entriamo nel giardino senza recinti senza cancelli
nella navata senza velarci il capo
non sovrastano altari non piedistalli
d’improvviso non hanno senso
resta la nostra marcia
Ballata degli annegati
Le nostre armi spezzate sul fondo marino
insieme al nome, alle navi e le mercanzie
qualcuno è venuto a prenderle per il museo.
Noi no, noi siamo solo mare ormai, acqua
azzurra, tranquilla, dopo i naufragi, traversata
dai branchi dei pesci che non guardano…
Qui nessuno ha occhi se non quelli senz’orbite
che più non sanno distinguere perdite e conquiste
ora che si è spenta per sempre
quella stranissima sete.
Il porto franco sotto l’orizzonte non è l’aldilà.
Un alto velo ondoso su di noi ci separa
da chi va eretto sulla riva e in questo letto
liquido solo alla notte entra
per lacerare al mattino i sogni e indossare
la solida maschera dei vivi.
Viaggio d’inverno
[Taccuini trovati dal dottor Wilhelm Svetlin dopo la morte del musicista, dentro la cella del manicomio in cui Hugo Wolf era internato. I fogli, infilati nel materasso del giaciglio, sono databili agli anni 1895-96.]
Sole di chi non trova sonno – stella!
O sento la totale somiglianza fra i suoni della lingua e del canto, altrimenti taccio. La mia musica dipende dalla poesia che scelgo.
Al linguaggio manca qualcosa, è imperfetto, è scritto ma muto; allora compongo lieder per riparare a quel silenzio: pause, intermezzi, berceuses, le infilo nel ritmo dei versi, nella magia delle rime, nei nodi delle frasi.
Tre note su Jabès
Per Francesco Marotta, alias Reb Stein
L’arte di domandare
Nel 1963, Edmond Jabès pubblica Le Livre des Questions, destinato a dare avvio al ciclo di sette volumi che reca lo stesso titolo, e che costituisce la sua opera principale[1]. Può sembrare strano il fatto di porre un lavoro così insolito per la forma di scrittura adottata (che mescola poesia, prosa, aforisma e dialogo) all’insegna delle questions, ossia delle domande. Ma esistono, per una tale scelta, diverse spiegazioni. La prima è di ordine generale, legata proprio al fatto che si tratta di un’opera letteraria. Contrariamente al luogo comune secondo cui gli scrittori forniscono risposte agli interrogativi di fondo che animano o inquietano l’esistenza umana, vale piuttosto l’inverso, ossia che essi tendono a formulare ipotesi e a porre domande. Diceva giustamente Roland Barthes che «si può accordare alla letteratura un valore essenzialmente interrogativo; la letteratura diviene allora il segno (e forse l’unico possibile segno) di quell’opacità storica in cui viviamo soggettivamente; […] la verità della letteratura è al tempo stesso l’impotenza a rispondere alle domande che il mondo si pone sulle sue disgrazie, e il potere di porre interrogativi reali, domande totali, la cui risposta non sia già presupposta, in un modo o nell’altro, nella forma stessa della domanda»[2]. Continua a leggere Per il decennale di RebStein, 4
per il decennale de
La dimora del tempo sospeso – RebStein
Dieci anni sono tanti, ma gli affanni non si sentono, ben celati dietro la home page, lì, tra tastiera e tempo sospeso nell’accezione più ampia possibile. Da blogger a blogger conosco bene quelle sottrazioni ad altro ed altri per l’ostinazione – e trascorso un certo numero di anni e consumati i primi entusiasmi, davvero si può parlare di testardaggine all’ennesima potenza – di divulgare quanto crediamo possa aggiungere valore ad un presente malato terminale d’egoismi e protagonismi, attaccato alla flebo della celebrazione dell’individualismo. Un presente, che bracca senza sosta la gratuità e la generosità, mordendo alla gola, mettendo all’angolo tutto un meccanismo virtuoso che potrebbe davvero farci riscoprire Persone. Continua a leggere Per il decennale di RebStein, 3