- Se hai deciso di ricordare all’interlocutore di Destra le Leggi Razziali
del ’38, non contentarti della sua presa di distanza da quello che lui definirà un errore (non parlerà mai di colpa, di vergogna); passagli una copia di quelle Leggi e invitalo a leggerne tre, quattro articoli. Se troverà retorico farlo, leggiglieli tu. Non t’inorgoglire, stupidamente, come fanno tutti i tuoi colleghi, di aver nominato l’orrore. Leggere quegli articoli servirà anche a te che, ingenuamente, pensi di conoscerli.
- Se inviti un politico di Sinistra, chiedigli se ricorda questi due nomi: Bolzaneto, la Diaz. Se li ricorda, chiedigli come mai un cittadino qualsiasi dovrebbe rispettare, a occhi chiusi, la Polizia, e perché mai nessuno di quei poliziotti sia finito in galera. Se ti risponde che si trattava di mele marce, ricordagli il centinaio di poliziotti che applaudirono i colleghi accusati di aver pestato a sangue e ammazzato un ragazzo: Aldovrandi. Ricordati, quando chiedi delle risposte, che non stai giudicando, ma stai cercando di capire.
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Se vince la Destra (di Rocco Brindisi)
Ogni volta che Rocco mi manda un suo testo provo la gioia e l’orgoglio di poter pubblicare uno degli autori che più stimo e amo; questa volta mi permetto anche di aggiungere questa breve premessa perché condivido in pieno i contenuti del testo che andrete a leggere e perché, “se vince la Destra”, questi anni (già bui) diventeranno ancora più bui, ma, certamente, il nostro sentimento antifascista non cederà di un passo e continuerà ad avere nel 25 aprile il suo faro. [A. D.] Continua a leggere Se vince la Destra (di Rocco Brindisi)
Leggo “Le Belle Bandiere” (di Rocco Brindisi)
Leggo “Le belle bandiere”, seduto davanti al bar, sotto i portici. Il volto del poeta in copertina: capelli arruffati, guance scavate, una bellezza antica. La ragazza del bar mi informa, con un sorriso: “Il suo amico è venuto poco fa”. Un po’ le dispiace che non ci siamo incontrati, un po’ è felice di averlo nominato; terzo, ritiene una sorta di incantamento l’amicizia tra un vecchio signore, barba folta, bianca, con un ragazzo. La sua curiosità è gentile. Continuo a leggere. Un movimento brusco, e il libro si richiude. Ritorna lo sguardo del poeta, che mi trafigge e mi consola. Nei suoi occhi, la passione di guardare il mondo. Sta girando il “Decamerone”. Uno sguardo fiero della propria felicità. Nel film, è un pittore del Trecento in viaggio, che approda a Napoli. Nel libro, le sue risposte ai lettori di “Rinascita”. anni ’60. Lettere di operai, studenti, pensionati. In queste pagine, l’epopea di una lingua amorosa, che rinnova il proprio mistero, entrando negli affanni, le ragioni, i dubbi, i pudori, le speranze senza tempo, la devozione, mai ruffiana, del lettore nei confronti del poeta. Che parli di politica, di cinema o d’altro, c’è qualcosa di lancinante nel rispetto che egli nutre per l’interlocutore, per sé stesso e per il volto invisibile che guarda, scrivendo. Ancora il suo ritratto: la bocca chiusa, non serrata, è il terzo occhio, ribelle e magnanimo. Sarebbe stato bello morire in quei giorni, il terzo giorno la fine delle riprese di un film sulla gioia. Il ragazzo degli appuntamenti al bar non è venuto. Le parole del poeta, la sua faccia, così lontani dalla sua morte, che mi viene da piangere. [Rocco Brindisi]
Le ragazze che indossano camicie bianche (di Rocco Brindisi)
Sarebbero passati vent’anni e avrei conosciuto Giorgio. Avrei amato le ragazze che indossano camicie bianche, sbottonate, in alto, che si allungavano sui jeans. Lo avrei amato perché quello era il destino. Avrei pianto d’amore, vedendolo accartocciare bottiglie di plastica sul balcone. Avrei chiesto, alla ragazza con la camicia infilata nei jeans, di rimetterla fuori? Non ne avrei avuto il coraggio. Eppure, che incanto, le camicie che scivolano sulle anche! Così rara, la pelle di una camicia, che scende, giù, sulle braccia, e si apre, sul petto, senza mai spalancarsi! La pelle di “Quizas, quizas”, la canzone che nessuna ragazza canta negli androni, sulle scale, nei balconi d’Occidente. Non importa che la camicia abbia ricami. Potrebbe avere il colletto, non averlo. Una spilla d’oro, dalle parti del capezzolo? Potrebbe risultare superflua. Niente estranei, su quel biancore. Né celeste né azzurra né turchese, ma bianca. E dove le mani finiscono, polsini che lasciano entrare il vento. [Rocco Brindisi]
In morte di nonno Kolya
Andrea Ballabio
Krasniy Hutor. Sono andato a fare due passi fino a dove vivevo prima, penultima casa prima della foresta. L’ultima è quella di Sveta, la strega tartara. L’idea era di comprare un dolce e bermi un caffè da Alla, la mia ex vicina bielorussa. Ho voluto però accertarmi che fossero in casa, per poi fare un salto a prendere una torta al negozio vicino. Viene però alla porta la figlia di Alla, Yuliya, e mi dice di non entrare perché sono tutti contagiati. Mi rassicurano, stanno abbastanza bene, sta passando.
Tornando, diciamo, verso casa, mi viene in mente che non ho chiesto di nonno Kolya. Telefono subito. Mi dicono che il nonno è stato ricoverato a dicembre per polmonite ed è morto in ospedale. Avrebbe dovuto compiere 90 anni.
Continua a leggere In morte di nonno KolyaLa rivoluzione ha ignorato Bach / seconda parte (di Rocco Brindisi)
(QUI LA PRIMA PARTE)
Fu in quell’anno, era il ’77, che arse vivo un bambino, nell’androne di un palazzo dove qualcuno aveva gettato una molotov.
Il sonno. Il dono incredibile del sonno. L’insonnia di Émile Cioran, che, affermava, era stata la sua amante perfetta, l’unica realtà senza maschere, un dono che lo costringeva a girare tutta la notte ascoltando i suoi passi sui ciottoli. Un bambino raccoglie un dito di fango, ci sputa sopra, lo passa sugli occhi spenti di Dio che, finalmente, dorme. E, dormendo, vede il mondo, il dolore senza speranze, la sua mostruosità, la la propria grottesca perfezione e quella, altrettanto ironica, delle stelle. Per molti esseri umani, svegliarsi è un incubo. La madre di Cioran amava Bach, lo ascoltava, lo suonava. Quest’amore lo passò al figlio, che ha amato Bach fino alla fine. Diceva che Bach va oltre Dio. La rivoluzione ha ignorato Bach. Giorgio cercava la gioia di Bach e la trovava anche quando non riusciva più a carezzare la donna che amava, perché le sue mani erano diventate un ornamento: avrebbe potuto pensare che le sue mani fossero un’ombra perfida del suo corpo, ma non lo pensava. Non pensava che alla gioia di ascoltare la gioia. Mia madre avrebbe amato Bach. Lei, che era una maestra dei rammendi, avrebbe ricucito gli strappi della pelle di Dio con quella musica. Avrebbe ricucito le ferite del sonno dei suoi figli. Continua a leggere La rivoluzione ha ignorato Bach / seconda parte (di Rocco Brindisi)
La rivoluzione ha ignorato Bach / prima parte (di Rocco Brindisi)
Il giorno del rapimento di Moro, la piazza grande era affollata. La maggior parte della gente passeggiava. Pure i compagni, che di solito la evitavano. Non ricordo se ci fosse il sole. Leggevo, nei loro volti, una quieta esaltazione. Quello che era successo non mi commuoveva e neanche m’inquietava. Mi incuriosiva. Non mi sentivo toccato dal massacro della scorta. Non amavo i poliziotti, nessun poliziotto si era mai ribellato a un ordine ingiusto, al disonore di sparare su una folla. Questa convinzione non mi ha mai abbandonato. È anche vero che non ho mai applaudito all’uccisione di un poliziotto. Continua a leggere La rivoluzione ha ignorato Bach / prima parte (di Rocco Brindisi)
Zepin
Andrea Ballabio
Z morbida, non dura. Giuseppe Bellotti, al secolo. Se ne parlava stasera a cena col vecchio, che ti dice a che ora pisciò Giulio Cesare durante la battaglia di Alesia. E ho detto tutto.
Zepin, un metro e sessantacinque di violenza, capelli lunghi raccolti a coda di cavallo. Cuoco, uomo di osteria, padre di famiglia. Nell’ordine.
L’unica memoria che ho il dovere di tramandare riguardo a Zepin è il bagno nel laghetto ghiacciato il primo di gennaio, la mattina presto. Relata refero, io non c’ero.
Continua a leggere ZepinRitorno a Krasniy Hutor
Andrea Ballabio
Nel tardo pomeriggio chiama Vika. Cosa fai? Niente, mi bevo un caffè ed esco a fare due passi. Perché non vai dove vivevamo prima? Saluti i vicini, saranno contenti di vederti. Perché non vado? Forse per la solita tendenza a lasciarmi il passato alle spalle, a viaggiare leggero, una specie di recondita paura della nostalgia e dei ricordi. Sono poche fermate di autobus, vado.
Continua a leggere Ritorno a Krasniy HutorDue paginette del diario torinese (di Rocco Brindisi)
Vedo la casa ed è notte. La cucina è illuminata; un chiarore caldo, malinconico. A un lato della finestra, la madre di Franco (sul terrazzino, tanti anni fa, Franco leggeva ad alta voce, un uomo, entusiasta, le mie deliranti poesie da Dolce Stil Novo). La madre vive al primo piano. Più in alto abita il secondogenito, anche lui da solo: un uomo invecchiato nei rimpianti: quando il nome dei figli, e quello di una donna che hai amato, chissà quando, ti batte alle tempie e cerchi i loro corpi in bocca e non li trovi, e guardi una finestra. La madre, seduta su una vecchia sedia ingiallita, guarda la notte. A due passi dalla casa, dalla mestizia orgogliosa della donna, c’è il vicolo VI Rosica, dove sono nato; in questo momento è più lontano e disincarnato della luna. Sono qui, sospeso per aria, forse. La madre di Franco ha una chioma bianca, quella di una signora di ottant’anni che ha cura dei propri capelli, ancora belli. Quando ero bambino, aveva messo sù una merceria, sotto casa. Ci andavo a comprare una spoletta di cotone, una fettuccia, un ago, mi piaceva starle vicino, frugare con gli occhi nella vetrinetta del banco. C’era qualcosa di regale e remoto nel suo sguardo. Mi attirava la bontà delle sue mani. Ora che siamo invecchiati, Franco mi racconta sua madre; Continua a leggere Due paginette del diario torinese (di Rocco Brindisi)
Storie, una nell’altra (di Rocco Brindisi)
Non sento più il vento. Ieri siamo andati al cinema. Io e Angela. Sarebbe stato bello fosse venuta anche Anna. Ma in questi giorni, Angela respira meglio senza la sorella. Mi è negata la felicità di stare in mezzo a loro, e questo mi brucia. Ma guardo la grossa sciarpa di Angela, il piumino rosso. L’ho convinta a comprare un piumino rosso. Indossava sempre quelli neri. Il rosso le restituisce l’adolescenza. Il film: “La notte più lunga dell’anno” è ambientato a Potenza, la città che abbiamo lasciato. Si svolge di notte, dall’inizio alla fine. Nessuna nostalgia, a guardare i luoghi che conosco. Nessuna patina di vecchiezza o di già visto. Come tutte le città del mondo è cieca e, sullo schermo, non appaiono segni della sua, della mia infanzia. Questa smemoratezza calma il mio sguardo, non mi opprime. Perdòno tutto. Non comparirà mia madre né il mio amore buono, che stanno nel dolce abisso dei morti. Sono quattro storie, una nell’altra. La donna che riscalda il tè per il padre e lo guarda con un amore notturno; l’uomo guarda la figlia con una quieta eternità negli occhi. L’uomo ha due tubicini infilati nel naso, racconta l’anima dei pesci; le finestre di quella casa sognano la neve. La figlia, sui quarant’anni, esce per andare al lavoro, fa la cubista in un locale notturno. Bella, immersa in un dolore di seta. La vediamo ballare in una sala affollata. Non sopporto le scene girate in una discoteca, provo un senso di repulsione, sempre. Ma lei balla da regina del disamore che si dona. Il suo corpo lacera l’eternità che, finalmente, perde sangue. In un altro episodio, un uomo torna a casa, è ancora e sempre notte, si toglie le scarpe nell’ingresso, con una malinconia aliena, come se tutti i gesti possibili, sulla terra, si fossero addormentati, per prendere pace, nella pietà di un bambino-fantasma che non sta, da tempo, al gioco disperato della disperazione del tempo e ne ha solo pietà. Sale il chiarore del giorno. Sono qui, a scrivere, benedetto dal sonno di Angela sulla mia testa. [Rocco Brindisi]
Piergiorgio Welby (di Rocco Brindisi)
Piergiorgio Welby viveva in un letto da 17 anni. Non poteva muovere neanche un dito, del proprio corpo; riusciva a parlare solo attraverso la sua voce pensata: un artificio elettronico. Con la sua voce pensata, diceva che la vita è una passeggiata notturna con un amico, il vento nei capelli, un amore che ti lascia…. Aveva chiesto più volte di poter morire, perché il suo corpo era diventato cieco, non aveva più memoria di sé. La sua mente, invece, aveva una memoria struggente delle cose, delle persone che aveva sfiorato, toccato, chiamato per nome, con la sua voce, amato. Non trovava naturale essere prigioniero di un corpo insensibile, avere labbra ornamentali, che non servivano a baciare, a socchiudersi per un improvviso stupore, una meraviglia; non trovava naturale essere attraversato da tubi; non sopportava di non provare, da un tempo immemorabile, la piccola, fraterna felicità di comandare alla vescica di sgonfiarsi; rifiutava la tristezza di addormentarsi senza poter mai reclinare il capo da un lato; non era stato facile rassegnarsi all’assenza di odori, sapori; doveva rinunciare, per sempre, al gesto tenero, involontario, di spettinare un amico, una donna. Aveva chiesto di morire, come, da assetati, si chiede un bicchiere d’acqua. “Avete letto dove è scritto Non voglio sacrificio ma misericordia!“, si grida nel Vangelo; ma i preti gridarono allo scandalo per il suo rifiuto di patire. Quando un altro essere umano lo liberò dall’umiliazione di non morire, i preti non gli concessero i funerali religiosi, perché la Chiesa riteneva non si fosse trattato di suicidio, per il quale si presuppone sia venuta a mancare – la piena avvertenza e il deliberato consenso – Per la Chiesa, Welby aveva chiesto, coscientemente, di essere “ucciso”. [Rocco Brindisi]
Se penso agli amici… (di Rocco Brindisi)
Se penso agli amici che mi ha dispensato il destino mi sale un groppo di felicità in gola. E a volte piango. In aggiunta, se non credo in Dio, e non credere in Dio vuol dire, per me, non credere nella sua Innocenza, amo i bambini che pronunciano il suo nome con una voce mille volte più pura del silenzio degli astri. Amo il sonno dei miei amici, i loro risvegli, la pigrizia in amore dei loro mattini. Gigi guarda la donna che gli sta accanto, ama teneramente il lenzuolo che non la copre, il guanciale, il suo respiro impercettibile, la somma dei giorni. Giuliano pensa all’amico lontano, va alla finestra e sente il cuore di questo autunno spezzarsi senza un gemito. Piero legge il Libro delle Ore, nell’albergo di Lisbona; stanotte ha sognato di impastare la lingua del figlio e, con la lingua, la sua voce; più tardi si recherà in ospedale con gli altri due figli, Luigi e Giovanni, consolerà quella città con la sua preghiera danzante. Giorgio accenderà una delle sue sigarette nei viali dei morti. Carlo si ricorderà di amarmi e sorriderà di avere una porta da aprirmi, quando sarà. Anche lì, le lune si spegneranno come lampade su un libro che ci ha dato una gioia misteriosa. Angela dorme. Anna mi ha chiamato per dirmi che vuole parlarmi, ma io non ho nessuna voglia di parlare: desidero solo che le mie figlie si amino, passeggiando. Potrei dirle questo e nient’altro. [Rocco Brindisi]
Gort 7

7
La fine che avrei sempre voluto vedere nei film di fantascienza
Se sapessi scrivere, scriverei un libro che contiene un solo essere umano. Un libro di estinzioni avvenute. O di avvenimenti estinti. Il libro magari potrebbe funzionare anche senza l’essere umano. Solo con piante, animali, onde, erbe e gas. Ma l’essere umano attrae l’essere umano. Così avrei maggiori possibilità di venderlo. Altrimenti dovrei scrivere un libro su piante, animali, onde, erbe e gas. Ma dove piante, animali, onde, erbe e gas fossero i protagonisti e parlassero di sé in prima persona. Un libro senza pensieri e senza argomenti. Certo, un sospiro di sollievo. L’albero non argomenta. L’albero è. Bisogna andarlo a sentire di persona.
Continua a leggere Gort 7Angela, Anna e le tane d’ombre (di Rocco Brindisi)
Qualcuno dovrebbe avere una foto di Dio bambino; non del bambino chiamato Cristo, ma un ritratto del Creatore del mondo, sorpreso nella sua infanzia, mentre guarda malinconicamente la propria eternità. Mia madre non ha mai pensato di fissare un momento della mia vita, di bloccarlo; non ha mai sognato di conservare quell’istante, per ritrovarlo chissà quando. Non succhiava “ il volto, lo sguardo dei figli”. Si ritraeva, quando le mostravano una foto, quando un conoscente le chiedeva di cercarne una, dentro casa. Non l’ho mai vista guardare un ritratto, non l’ho mai sentita nominarne uno. È notte. Continua a leggere Angela, Anna e le tane d’ombre (di Rocco Brindisi)
Breve saggio su “morte di un amico che guardava”
Morte di un amico che guardava di Rocco Brindisi e Nella città del pane e dei postini di Giorgio Messori (di quest’ultimo ho già scritto qui) andrebbero letti a incastro, non importa se prima l’uno o l’altro, meglio insieme (una, due, tre pagine dell’uno e una, due, tre dell’altro) – ovviamente non mi riferisco a un incastro tra le “trame” dei due libri, ma penso a un incastro d’idee e di atmosfere, di modi di porgere la parola narrativa (che spesso è anche poetica per ritmo e per pause), di corrispondenze sentimentali, memoriali, geografiche. Continua a leggere Breve saggio su “morte di un amico che guardava”
Ho steso le mutandine alla fune (di Rocco Brindisi)
Ho steso le mutandine alla fune: le mie e quelle di Angela. Dormiamo nel lettone. A volte (non sempre), quando devo scoreggiare, scendo nel bagno. Abbranco l’asta che arriva al soffitto e faccio le scale, un passo dopo l’altro, lentamente. Dovessi inciampare, finirei contro i radiatori, e l’urto potrebbe risultare letale. Nel bagno mi libero, sorridendo, quando lo sfiato è devastante. Torno a letto. Il volto di Angela, che intravvedo nella penombra, è quello dei suoi dodici anni, evito di fissarlo perché mi stringe il cuore questa magia che ha qualcosa di crudele. In questi giorni mi passa le pillole, le compresse, gli sciroppi, le vitamine; servono per portare il virus alla consunzione. Mi appaiono, d’improvviso, le sue piccole mani, il palmo spalancato; mi porge un bicchiere di carta pieno di un liquido bluastro. Al citofono, le amiche buddiste di Angela; lasciano i sacchetti sulIe sedie, al secondo piano. Il vicino di casa, Gianluca, ci ha fatto un paio di volte la spesa; mi piaceva starmene con lui sul ballatoio: gli dicevo di accostarsi, mi divertiva vincere la sua timidezza; lo invitavo a sedersi, gli chiedevo di arrotolarmi un po’ di tabacco. Sono ancora capace di avventurarmi nel mistero dell’altro, e non lo faccio per diradare il respiro avariato della solitudine. Una sera se n’è venuto con due bicchieri di vino: l’amicizia tra un vecchio signore, che ama Tetsuro O Hara, musa di Ozu, e un giovane che insegna Economia al Politecnico. Ieri mi sono affacciato sulla porta, con una coperta di lana che mi copriva la testa, le spalle. Mi ha guardato con la compassione, la fiducia di un ragazzo che sognava lunghe conversazioni, nella luce, o più o meno notturne, con l’uomo incatarrato, che gli aveva nominato Grushenka dei Fratelli Karamazov. Angela parla al telefono con un amico lontano: vorrei attraversare la città, una di queste notti; salire al secondo piano, in via Barbaroux, al numero 16 e, ancora prima di bloccarmi davanti alla porta, sentirla ridere con qualcuno, un uomo felice di vederla ridere; un uomo che scoppia a piangere davanti alla maestà, inerme, di questa meravigliosa amica dei giorni. Ricorderei, a un tratto, di essere morto, non cercherò la chiave nelle tasche, mi siederò ad ascoltare.
Gort 4
Puntata numero 4 / Taoemi
Secondo i maestri antichi, chi scrive poesie avrebbe le seguenti qualità, o capacità:
入林不動草
入水不立波
nel bosco non muove erba
nell’acqua non alza onda
Ma queste caratteristiche sono, ancora una volta, l’espressione di un’idea di poesia che è sentiero nel cammino delle cose. La parola non deforma le cose che vede, non le trascende, non ne fa allegorie e, soprattutto, non le spiega. La parola è la cosa. Solo così può non disturbare o non muovere l’erba. O può non provocare un’onda, un’increspatura nell’acqua. Perché la parola è erba ed è acqua.
Continua a leggere Gort 4Gort 3
Puntata numero 3 / Un tentativo di poesia oltre i recinti umani secondo Gomringer
Oggi, soprattutto, chi scrive poesia dovrebbe essere, soprattutto, un astronomo. Κόσμος era, per i greci e gli indoeuropei, mettere ordine. E bellezza, quindi, di ciò che è ordinato. O meglio di ciò che ha un equilibrio – in greco ισορροπία, da ρέπω, verbo fratello del latino tendere, da cui teso ma anche tentare. Il cosmo è quindi un tentativo di stendersi parimenti ovunque. Un equilibrio.
Continua a leggere Gort 3Gort 2
Puntata numero 2 / Un contributo di Thoreau
La letteratura inglese, dall’epoca dei menestrelli fino ai Lake Poets – inclusi Chaucer, Spenser e Milton, e persino Shakespeare – non dà vita a un canto fresco, e in questo senso naturale. È una letteratura sostanzialmente addomesticata e civilizzata, che riflette la Grecia e Roma. La sua natura si limita a un bosco verde, il suo eroe selvaggio è Robin Hood. Contiene molto amore per la Natura, ma poca Natura in sé. Le sue cronache ci informano su quando si sono estinti gli animali selvaggi, ma non l’uomo selvaggio che vive in lei.
Continua a leggere Gort 2